L’ira di Sokolov

29 Settembre 2015 § 6 commenti § permalink

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Sta facendo molto parlare, sui siti internet del mondo musicale, la notizia del rifiuto, da parte del grande pianista russo Grigory Sokolov, del Cremona Music Award 2015. In una lettera scritta in russo e in italiano, Sokolov motiva il gesto, in qualche modo clamoroso, affermando: “secondo le mie idee di elementare decenza è una vergogna comparire sulla lista dei premiati con Lebrecht”. Chi è Lebrecht?

Norman Lebrecht è un musicologo e critico inglese, famoso per il suo stile giornalistico tendente allo scandalistico e molto diretto nei giudizi. Ha lavorato per diverse testate, condotto show televisivi alla BBC, scritto numerosi libri (e persino romanzi); aggiorna regolarmente un sito internet molto frequentato dai professionisti della musica e del giornalismo per avere informazioni sugli ultimi casi e scandali: chi ha protestato chi, chi è stato fischiato dove e via dicendo. In italiano fino a qualche anno fa si poteva ancora trovare in qualche libreria o bancarella il suo Il mito del maestro (Longanesi 1992), un libro inteso a decostruire l’idea di intoccabilità e sacralità del direttore d’orchestra, nel quale si raccontavano molte cose non onorevoli degli dei del pantheon musicale classico.

Del carattere difficile di Sokolov si è spesso sentito parlare. Si sa, per esempio, che da anni non suona nei Paesi nei quali siano macchinose le procedure per ottenere il visto – prima di tutto Regno Unito e Stati Uniti. E molte altre manie – ma niente di più di quanto è concesso ad altri pianisti dello stesso livello: si tenga presente che stiamo parlando di quello che è spesso additato come il miglior pianista vivente. Messa da parte quel po’ di shadenfreude che queste cose provocano sempre nei colleghi magari meno fortunati di Lebrecht, quello che tutti si stanno chiedendo ora è: che cosa può mai aver fatto Norman Lebrecht a Grigory Sokolov per rendersi degno di tanto pubblico disprezzo?

Dare una risposta a questa domanda in realtà non è così difficile: basta collegarsi al sito del suo agente per leggere una lettera (nella traduzione del grande Bruno Monsaigeon) in cui Sokolov ricorda l’amatissima moglie, scomparsa nel 2014, e lamenta alcune “deliranti invenzioni” che personaggi capaci di “ballare sulla sua tomba” avrebbero diffuso su di lei. Norman Lebrecht nel gennaio del 2014 aveva messo on-line la notizia del lutto personale di Sokolov in un articolo di apparente condoglianza (“Sad News” riportava il titolo); ma poche righe dopo la notizia, con sprezzo del buon gusto e della privacy, commentava che la donna appena scomparsa era anche la vedova del cugino del pianista. Doveva esserne seguita una furiosa polemica, perché in ciò che è possibile oggi vedere di quell’articolo è aggiunto un aggiornamento in cui il livoroso critico ricostruisce addirittura l’intero albero genealogico di Sokolov, basandosi su informazioni fornitegli da un sito, collegandosi al quale oggi si riesce solo a leggere un ulteriore insulto a Lebrecht (“scandalista da quattro soldi”, vi è definito).

La vicenda in sé sarebbe una triste questione di scarsa etica professionale, cattivo gusto e violazione del diritto alla privacy per gli artisti – e in special modo per i loro sentimenti più profondi e personali. In realtà vale la pena di osservare questa storia per un altro motivo.

Quello che Norman Lebrecht fa da anni è esattamente ciò a cui sempre più tendono i giornali italiani di oggi quando parlano di musica classica. Il suo modo di scrivere, fatto di buona cultura (Lebrecht non è certo un cretino), informazione aggiornata, ricerca dell’effetto e gusto per lo scandalo è ciò a cui tendono le penne oggi più apprezzate dai direttori dei giornali, quelle con le quali vorrebbero rimpiazzare i noiosi e paludati critici musicali. È parte di quella trasformazione del mondo musicale classico in palcoscenico glamour tanto ricercata da discografici, agenti, organizzatori e uffici stampa nella vana speranza di ingrossare le fila del senescente pubblico classico. È un’operazione che paga (moltissimo) su pochi personaggi, da Lang Lang in giù, ma avalla un modo di rapportarsi all’arte che può avere effetti disastrosi sul resto della scena. E che esercita sugli artisti nati e cresciuti in un mondo rarefatto e spaventosamente severo com’è stato ed è tuttora quello dei Michelangeli, dei Zimerman, dei Sokolov appunto, una violenza inimmaginabile. E a mio parere mostruosamente ingiusta.

Vignette, caricature, tragedie

22 Settembre 2015 § 0 commenti § permalink

Un po’ di clamore ha fatto nei giorni scorsi nel Regno Unito una caricatura d’epoca di un grande violinista della fine dell’Ottocento, Leopold Auer, pubblicata senza adeguate spiegazioni, sul programma di una serata dei BBC Proms dedicata al Concerto per violino di Čajkovskij:

Auer

La vignetta è chiaramente di stampo antisemita, ed è di quelle che fiorirono sui giornali di mezza Europa dalla metà del Diciannovesimo secolo in poi. L’odio razziale che passa attraverso la derisione di un clichè fisico ed “estetico”: Wagner in questo fu un maestro e in un certo senso un capofila, molti altri seguiranno, in un vortice che è molto ben raccontato da un libro di Michael Haas di prossima pubblicazione in Italia (per la EDT). Haas molti lo ricorderanno come il geniale discografico che creò la lunga serie di produzioni Decca intitolata Entartete Musik, “Musica degenerata”, dedicata ai compositori cancellati dalla violenza nazista.

Probabilmente in chi ha curato il programma BBC non c’era la volontà di offendere, c’era solo ignoranza o disattenzione, e l’azienda televisiva inglese si è poi scusata, seppure con qualche ritardo.

Ma qualche mese fa, sui giornali i mezzo mondo, fecero molto discutere i commenti di sapore apertamente antisemita che apparvero persino su giornali importanti alla notizia della nomina di un maestro russo di origine ebraica alla direzione dei Berliner Philharmoniker – e si noti bene che l’altro candidato era il tedeschissimo e nazionalisticamente iperconnotato Christian Thielemann. Anche lì, grandi scuse e cancellazioni e prese di distanza: perdonate, ci siamo sbagliati, non avevamo pensato, non volevamo eccetera. Ma con una mossa abbastanza sorprendente, poco dopo la nomina di Kirill Petrenko a Berlino, i Bayreuter Festspiele, il festival fondato da Richard Wagner e tuttora condotto dai suoi pronipoti, ha nominato Thielemann “direttore musicale”, carica appositamente creata per lui; una mossa che aveva il sapore neanche troppo nascosto di una riparazione e una risposta della “nazione tedesca”.

Il fatto è che questa faccenda della caricatura, in questo periodo, rimanda anche a quella ben più grave di Charlie Hebdo e dei tragici fatti di Parigi e della sollevazione in difesa della libertà di satira e più in generale di pensiero contro l’oscurantismo religioso. Ora, le due vicende sono state messe in relazione persino da quealche colto e sensibile intellettuale (uno per tutti, Bob Shingleton, il curatore di un importante e storico blog musicale).

Ora, a me sembra chiaro che pubblicare una vignetta mediocremente antisemita di un secolo fa, del tutto decontestualizzata, senza spiegazione e senza alcun contenuto di satira politica sia una grave disattenzione da parte di chi si occupa di comunicazione culturale. Che caricatura eè una cosa e vignetta satirica è un’altra (e spesso si confondono le due cose). E che la differenza rispetto a chi utilizza anche violentemente la matita per dileggiare e pungere l’oscurantismo politico/religioso che pervade una parte crescente del pianeta sia abbastanza palese senza bisogno di ulteriori approfondimenti Però devo dire che sono comunque argomenti di una certa delicatezza, e ancora una volta mi trovo a disagio vicino a chi manifesta incrollabili e immediate certezze.

La commedia di Otello

18 Settembre 2015 § 0 commenti § permalink

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Al Metropolitan va in scena una nuova produzione di Otello con il tenore lettone Aleksandrs Antonenko nel ruolo del Moro di Venez… no, mi correggo, scusate, nel ruolo del gelosissimo generale veneziano e lasciamo stare il resto perché non si sa bene come metterla questa cosa qui, e come la dici la sbagli. Lo testimonia questa lenzuolata di articolo del New York Times e l’interminabile scia elettonica che si porta dietro.

Insomma, per la prima volta sulle scene della Metropolitan Opera, a Otello non verrà applicato il cerone “Otello brown”. La discussione nel mondo anglosassone va avanti da molto tempo e sulle scene di prosa ormai da anni il personaggio non viene più “blackened” – così come non si usa più l’ “Indian red” o il “Chinese yellow”.

Qualche giorno fa un dirigente teatrale mi raccontava della sua sorpresa quando scoprì che il tenore argentino José Cura, visitato in camerino pochi minuti prima del suo debutto nel micidiale ruolo di Otello (mai cantato per intero neppure alle prove), fosse soprattutto preoccupato dall’omogeneità del cerone nero, a suo avviso fondamentale per la credibilità del personaggio. E vengono in mente i tragicomici impasti multicolori sui volti sudati di mille tenori al momento degli applausi. Lo spavento di incontrare per i corridoi del retropalco i ballerini seminudi “anneriti” per le danze dell’Aida o di tante altre opere, o i fosforescenti ceroni gialli degli aiutanti del boia Pu Tin Pao che fumano una sigaretta appoggiati alla porta dell’ingresso artisti, in mezzo ai passanti di tutti i colori veri.

Vale la pena di rimpiangere? Forse no. Che i modi della rappresentazione riflettano le mode culturali e il dibattito politico è più che naturale, in fondo. È solo un pezzetto dello scontro fra chi vuole lo spettacolo come fonte di riflessione, e chi lo desidera simile a una bolla rassicurante nella quale riposarsi dal confronto con la contemporaneità – un po’ come i bambini vogliono le favole sempre uguali. Penso che una buona parte degli spettatori oscillino fra un estremo e l’altro, anche perché si può fare pessima riflessione sul presente e pessima ripetizione del passato.

È probabile però che sul cambio di gusto nel trucco e parruco teatrale, più che la correttezza politica poté la tecnologia: le rappresentazioni vanno in streaming nei cinema, sono riprese in dvd e in televisione, e la telecamera indaga da vicino le espressioni. Quegli occhi da orco che venivano disegnati sui volti dei cantanti, quei colori inverosimili da clown triste che ti facevano urlare di paura e poi scoppiare a ridere se incontrati d’improvviso al bar di fronte al teatro, erano nati per essere visti da lontano. Oggi il trucco dev’essere come gli occhiali multifocali, buoni per tutte le distanze di lettura (ma se non sei abituato cadi dalle scale e ti fai malissimo). E tutto deve essere verosimile (ma solo nel campo dell’immagine perché quell’uomo, truccato o meno, santo cielo, sta cantando invece di parlare!).

E poi tutto si veste di blabla politico, storico, culturale eccetera e uno non ci si raccappezza più. Basta leggere le centinaia di commenti al lungo articolo nel NYTimes. Ci sono perle di gallettismo elettronico come “E far cantare Otello a un nero, no?”. Come se piazzare un decente “Esultate!” fosse una questione di colore della pelle. Eppure, mi si dice, il razzismo nei teatri d’opera esiste eccome! Probabilmente è vero. In ogni caso non so se valga la pena di piangere la (momentanea?) scomparsa dei ceroni colorati. Si può invece spero impunemente notare come ogni scelta, oggi, persino in quella meravigliosa macchina o capsula del tempo che è il teatro d’opera, sia spaventosamente complicata. E come tutto ciò che diventa troppo difficile si avvicini pericolosamente al comico. Finché al mondo ci saranno persone complicate, ci sarà materia per la commedia. Provate a semplificare, e zac! subito scatta la tragedia.

Diderot, un’accecante libertà

2 Dicembre 2013 § 2 commenti § permalink

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Un bellissimo, breve articolo dello storico Sergio Luzzatto pubblicato nell’inserto domenicale del «Sole 24 Ore» di ieri (1° dicembre 2012, p. 41). Lo riproduco per intero perché non si trova in rete:

Diderot, chi era costui? Mentre i francesi hanno celebrato da par loro l’«année Diderot» – il terzo centenario della nascita del più fantasioso, del meno dogmatico, del più dialogico tra i philosophes – l’editoria italiana ha brillato per il suo disinteresse. Nelle librerie si fatica a trovare anche soltanto un titolo recente dedicato a Diderot. Non la traduzione della mirabile raccolta di saggi di Jean Starobinski, Diderot, un diable de ramage. Né la traduzione della felicissima biografia-non-biografica (per così dire) firmata da Michel Delon, Diderot cul par-dessus tête. Dove non foss’altro che i due titoli, quanto meno curiosi, avrebbero meritato di sollecitare l’attenzione degli editori, tanto la figura dì Diderot, quest’uomo nato nel 1713, interpella il nostro presente per una straordinaria molteplicità di risvolti, dalle pratiche del corpo e dell’identità sessuale alle teorie dell’arte e del linguaggio, fino ai cinguettii di Twitter… In generale, l’«année Diderot» si presenta come un’ennesima occasione perduta dalla cultura italiana per riflettere sulla contemporaneità dell’illuminismo: su quel passato dei Lumi che non è solo un antecedente, è anche un parallelo dell’oggi. Ma chi lo spiegherà, tanto per cominciare, ai ragazzi che studiano filosofia nelle nostre scuole superiori? Quale insegnante si sottrarrà al ricatto storicistico del «manuale» e al ricatto burocratico del «Programma» scegliendo –semplicemente – di far leggere Diderot? Chi mostrerà ai ragazzi quanto si impari intorno ai rapporti di genere tuffandosi, ad apertura di pagina, nelle lettere scritte dal «filosofo» alla donna della sua vita, Sophie Volland? Quanto si impari delle sensazioni, le proprie e le altrui, attraverso la Lettera sui ciechi ad uso di coloro che vedono? E magari anche, perché no, quanto si impari sul sesso spigolando tra I gioielli indiscreti?

È tutto vero. Il disinteresse della stampa e dell’editoria italiana nei confronti di questo straordinario uomo e intellettuale è stato letteralmente sorprendente – disinteresse che in ogni caso riflette presumibilmente quello, ben più triste e preoccupante, della ricerca e dell’accademia nazionali. Cos’è che ancora ci impedisce di conoscere e amare quest’uomo libero, intelligente e acuto quant’altri mai? Questo pensatore imprevedibile, il più letterariamente elegante dei philosophes, la testa meno classificabile, il corpo e il cuore più instancabili dell’Illuminismo? Che sia proprio la sua stupefacente capacità di guardare e ripensare le cose “da zero”, senza pregiudizi o condizionamenti? Nella religione, nella morale, nell’arte, nella storia, nel costume, nel sesso. Pressoché ovunque.

Ma se è vero che il panorama editoriale italiano è desolantemente povero di buoni testi critici su questo faro dell’intelligenza umana, offre comunque alcuni dei suoi capolavori in edizioni anche ottime. Prima di tutto quello che a me sembra il testo più enigmatico, poetico e appassionante della sua intera opera, la “satira” amata e tradotta da Goethe, un libro da cui mi verrebbe da dire che non si impara niente, perché la libertà non insegna ma contagia, e cioè Il nipote di Rameau. Einaudi ne aveva in catalogo un’eccellente traduzione di Augusto Frassineti (scrittore finissimo e di grande attualità, anch’esso dimenticato), ma oggi la pubblica Quodlibet; ottima edizione, fedele e accurata, è pure quella della BUR. E sempre nella collana economica della Rizzoli si possono leggere altri testi importanti e appassionanti, da Jacques il fatalista ai Gioielli indiscreti. Ma se dovessi consigliare un amico, dopo Il nipote di Rameau – che poi è un dialogo fra un Moi e un Loi in cui viene messo in scena uno dei personaggi più divertenti e teatrali dell’intera letteratura francese – consiglierei la lettura del Paradosso sull’attore, del quale è in commercio un’ottima traduzione pubblicata da SE. Molto interessanti, anche se su un altro piano, le sue voci per l’Enciclopedie – l’opera di tutta la sua vita, la meravigliosa ossessione a cui sacrificò gran parte delle sue forze: alcune di queste voci sono comprese nel bel volume ripubblicato da Laterza nel 2003 (Enciclopedia o dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri ordinato da Diderot e D’Alembert, a cura di Paolo Casini).

Certo, a chi se la sente di affrontare il francese elegante e pulito di questo prolificissimo autore, consiglierei l’acquisto del recente volume della Pléiade che comprende le opere cosiddette “letterarie” – anche se i confini fra pamphlet, satira, libello, articolo, racconto e via dicendo sono molto difficili da tracciare nell’opera di Diderot, dove tutto sembra nascere dall’impulso della vis polemica o dal gusto della più franca e divertente conversazione: Contes et romans, pubblicato nel 2004 sotto la direzione di Michel Delon. Nella stessa, splendida collana di Gallimard, si trova anche uno dei classici Album a lui dedicato e il volume di Œuvres philosophiques (2003).

Rimane senza risposta la domanda di fondo: perché si parla così poco di Diderot? Ho come la sensazione che la risposta, nel non vastissimo dizionario della cultura italiana contemporanea, sia da cercare proprio alla voce libertà. Una scellerata, spregiudicata, per noi faticosa e talvolta quasi accecante libertà.

Il ritratto in alto è quello, famosissimo, di Louis-Michel van Loo, dipinto nel 1767 e donato nel 1911 dalla famiglia Vandeul (i discendenti di Diderot) allo Stato francese; oggi è visibile al Louvre (ala Sully). A Diderot il ritratto del suo amico van Loo, esposto per la prima volta al Salon del 1767, non era piaciuto affatto, e ne aveva preso spunto per una delle sue bellissime pagine sulla pittura, forse la più famosa. Accusa il pittore di avere cercato in lui l’atteggiamento e la compostezza a detrimento del vero, del carattere. In questa pagina di wikipedia dedicata al cosiddetto “ritratto letterario” si può leggere (in francese) un riassunto della vicenda. Non gli piaceva la posizione da ministro, la boccuccia atteggiata, l’aria soddisfatta e seduttiva. Lodava invece un altro ritratto di un pittore minore oggi perduto (Jean-Baptist Garand). Avvertiva gli eredi a cui il ritratto di van Loo sarebbe arrivato: «Figli miei, vi prevengo, quello non sono io». E a quanti avessero visto il suo vero viso nel ritratto di Garand, lui immaginava che sarebbe venuto in mente il giusto commento estetico sul suo viso (e sulla sua personalità). Un commento in italiano, perché la commedia della sua vita è stata Commedia dell’Arte: «Ecco il vero Pulcinella!». Per dire il personaggio. Confrontare con gli intellettuali di oggi, se ci si vuole fare del male.

La leggerezza del pattinatore

26 Novembre 2013 § 0 commenti § permalink

larmessin

Sur un mince cristal, l’hyver conduit vos pas;
Le précipice est sous la glace.
Telle est de vos plaisirs la légere surface:
Glissez, Mortels, n’appuiez pas.

Su un fragile cristallo, l’inverno conduce i vostri passi;
Il precipizio è sotto il ghiaccio.
Tal’è la sottile superficie dei vostri piaceri:
Scivolate, Mortali, non affondate il piede.

Ho sempre trovato splendida questa quartina scritta da Pierre-Charles Roy, un poeta francese del Settecento, nemico di Voltaire e di Rameau, librettista di Destouches, satirista violento e livoroso, accademico mancato, autore di una messe di versi, poemi, epigrammi e tragedie, ma ricordato quasi esclusivamente per quattro semplici e a loro modo “letteralmente” superficiali versi.

Comparvero, a quanto pare, per la prima volta in calce a un’acquaforte intitolata L’Hyver, l’inverno, incisa nel 1745 da Nicolas de Larmessin III, da un quadro di Lancret, parte a sua volta di una serie dedicata alle stagioni. Il dipinto raffigurava un laghetto e una fontana ghiacciati. Mentre la seconda è una specie di memento mori, con la sua divinità fluviale raggelata e circondata di stalattiti d’acqua cristallizzata, sul laghetto diverse figure sono intente a pattinare in una scena leggera e vitale, alcune in piedi, altre sdraiate dopo una caduta, una mentre viene aiutata a infilare un pattino con un gesto erotico e galante. Larmessin nell’incisione stringe su tre figure, le due intente alla vestizione e un elegante pattinatore alla Watteau.

Mi sono spesso domandato se Calvino conoscesse questi versi quando scrisse la sua “lezione americana” sulla leggerezza. Non sapevo tuttavia che la sua eco fragile e ghiacciata abbia risuonato anche nei grandi spazi silenziosi dello Zibaldone. E invece, sotto la data del 7 novembre 1820, si legge un meraviglioso appunto che riporto qui nella sua interezza.

Quel detto scherzevole di un francese Glissez, mortels, n’appuyez pas, a me pare che contenga tutta la sapienza umana, tutta la sostanza e il frutto e il risultato della piú sublime e profonda e sottile e matura filosofia. Ma questo insegnamento ci era già stato dato dalla natura, e non al nostro intelletto né alla ragione, ma all’istinto ingenito ed intimo, e tutti noi l’avevamo messo in pratica dafanciulli. Che cosa adunque abbiamo imparato con tanti studi, tante fatiche, esperienza, sudori, dolori? e la filosofia che cosa ci ha insegnato? Quello che da fanciulli ci era connaturale e che poi avevamo dimenticato e perduto a forza di sapienza; quello che i nostri incólti e selvaggi bisavoli sapevano ed eseguivano senza sognarsi d’esser filosofi e senza stenti né fatiche né ricerche né osservazioni né profondità ec. Sicché la natura ci aveva già fatto saggi quanto qualunque massimo saggio del nostro o di qualsivoglia tempo, anzi tanto piú, quanto il saggio opera per massima, che è cosa quasi fuori di se: noi operavamo per istinto e disposizione ch’era dentro di noi ed immedesimata colla nostra natura, e però piú certamente e immancabilmente e continuamente efficace. Cosí l’apice del sapere umano e della filosofia consiste a conoscere la di lei propria inutilità se l’uomo fosse ancora qual era da principio, consiste a correggere i danni ch’essa medesima ha fatti, a rimetter l’uomo in quella condizione in cui sarebbe sempre stato s’ella non fosse mai nata. E perciò solo è utile la sommità della filosofia, perché ci libera e disinganna dalla filosofia.

Tutta la sapienza umana, dice Leopardi, e forse non voleva esagerare. Pensare per liberarci dal peso del pensiero: quanto è vero. Glissons, allora. Non affondiamo, Mortali.

L’Avvocato e il Maestro

22 Novembre 2013 § 2 commenti § permalink

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Ieri ho ricevuto una lettera da un avvocato milanese. È il legale di Mauro Meli, l’ex sovrintendente del Lirico di Cagliari, poi della Scala, poi del Regio di Parma. Mi invita a rimuovere “immediatamente” un post di Fierrabras “entro e non oltre il termine di tre giorni a far data dalla presente” eccetera eccetera. Logica temporale a parte, la lettera è persino cortese, ed è intesa a difendere “la reputazione” e “l’immagine professionale” del proprio assistito. Anzi, si dilunga nello spiegarmi che l’indennità percepita a Parma dal Maestro Mauro Meli era in realtà ben diversa da quella da me indicata – peraltro tratta da informazioni di stampa ancora presenti sul sito del giornale “La Repubblica”, prive di qualsiasi rettifica – ed era stata stabilita “in forza di un inquadramento contrattuale previsto dal CCNL dei Dirigenti d’azienda industriale (lo stesso applicato anche al successore Fontana)”. Meli in persona, in una lettera alla “Gazzetta di Parma”, precisava l’importo esatto della propria indennità e dava altri particolari sul contratto con il Teatro Regio. Onestamente a me sembrano gli stessi miei numeri, che oltre tutto nel post avevo anche evidenziato in una rettifica. Ma tant’è.

Pare in ogni caso che il mio post contenesse “impietosi giudizi […] del tutto falsi e fuorvianti” e pertanto, unica concessione alla minacciosità rituale (se si eccettua la tetra formula finale “Con ogni più ampia riserva. Distinti saluti”), l’avvocato mi avverte che, “in relazione ad articoli e post di contenuto identico al Suo, lo scrivente ha già promosso molteplici azioni legali con esito positivo nei confronti dei rispettivi autori”. Sembra di capire, con qualche difficoltà, che i rispettivi autori abbiano perso cause e dovuto pagare danni.

Ora, il post in questione, intitolato “È scandaloso lo stipendio di Meli?” (col punto interrogativo), è datato 7 ottobre 2009, ha avuto migliaia di visualizzazioni ed è stato nel frattempo ripubblicato 245 volte sulle bacheche di Facebook di altrettanti lettori. In esso mi limitavo a confrontare l’indennità percepita da Mauro Meli, secondo quanto risultava da articoli di stampa, con quella del più retribuito dirigente della Regione Lombardia. Per settimane Google mi ha avvertito della lettura del post da parte di studi legali lombardi, emiliani, e di siti istituzionali: qualche reazione, allora, me la aspettavo. Invece è arrivata oggi. Da quello che si legge in queste settimane sui giornali, in seguito alle tante polemiche scatenate intorno al suo costo aziendale e alla sua retribuzione a Parma, in particolare nel periodo delle ultime elezioni amministrative (in maniera effetivamente talvolta anche strumentale), Meli ha deciso di reagire con una campagna legale e di informazione piuttosto aggressiva.

Io il Maestro Mauro Meli lo incontrai quando era sovrintendente alla Scala, nel 2004. Lavoravo a un’inchiesta su quel teatro per il “Giornale della Musica”, e andai a intervistarlo. Era un periodo di grandi polemiche e battaglie intorno al teatro milanese, e gli feci tutte le domande che mi sembrava utile fare; lui rispose con gentilezza, diplomazia e furbizia, io riportai il tutto correttamente. Quell’articolo avrebbe dovuto essere seguito da un altro di verifica e di approfondimento, che tuttavia non arrivò mai: nel corso di una riunione nella redazione del GdM fui infatti violentemente contestato da Sergio Sablich, che non si capacitava di come avessi potuto lasciar dire a Meli le cose che aveva detto senza rispondere subito in maniera più polemica. Lui poco tempo prima era stato chiamato alla Scala in qualità di Consulente alla Direzione artistica, incarico dal quale aveva dato le dimissioni dopo avere lamentato pubblicamente una sorta di sordo mobbing interno, vicenda dalla quale era rimasto profondamente indignato e offeso. Non saprò mai se fui troppo ingenuo io con Meli o se Sablich sia stato troppo severo nel giudicarmi in quell’occasione, perché pochi mesi dopo lui scomparve improvvisamente, lasciando un vuoto ancora adesso incolmabile nella cultura musicale italiana – e nell’animo di molte delle persone che l’hanno conosciuto.

Uscito dalla Scala, Meli approdò al Regio di Parma, dove rimase in qualità di sovrintendente e direttore artistico fino a poco tempo fa. Moltissimo si è parlato su tutti i mezzi di informazione della sua retribuzione e delle sue capacità: il passaggio di Mauro Meli da un teatro è sempre stato accompagnato da forti dibattiti. Una semplice ricerca su Google mostrerà la folle quantità di informazioni più o meno veritiere, sempre difficilmente verificabili, che hanno accompagnato queste polemiche, da entrambe le parti. Ma come posso rispondere io, a tanti anni di distanza, e quando ormai di tutta la faccenda e del personaggio in questione mi importa tutto sommato assai poco?

Io so di avere scritto quel post, come gli altri di questo blog, con tutta l’onestà e l’accuratezza di cui sono capace, ma non ho né il tempo né le risorse per addentrarmi nelle cavillosità che una minaccia di querela richiede di esaminare. È inoltre noto che in Italia è molto facile perdere la causa se si viene querelati per diffamazione, e che l’istituto della “lite temeraria”, cioè la possibilità di rivalerti nei confronti di chi ti querela sapendo di avere torto (e non affermo certamente che sia questo il caso), è quasi desueto. E allora? E allora rimuovo, e magari non cancello. Quando avrò il tempo, se mai ne avrò voglia (cosa che per la verità dubito assai), verificherò se ha ragione il Meli o se avevo scritto cose corrette. Anche perché, e lo dico fuori da ogni tono polemico: a prescindere da quale che sia veramente la reputazione e l’immagine professionale di Mauro Meli, mi dispiacerebbe molto avere scritto cose sbagliate, e non sono mai certo, per principio, di essere dalla parte della ragione. Sparisce dunque, per ora, un vecchio post del 2009, probabilmente oggi del tutto inutile; spero tuttavia che non ci si stanchi mai di controllare e di discutere le cose della vita culturale italiana, al di là di ogni apparenza e nonostante ogni tono minaccioso. Da parte mia, per quanto posso, mi impegno.

Amiche a tavola: le scienziate

3 Giugno 2013 § 0 commenti § permalink

trattoria

Una trattoria di quelle che piacciono alla borghesia del nuovo edonismo etico: insalate biologiche, verdure a chilometri zero, presidi slow food e via dicendo. Lenitivi per un già agonizzante senso di colpa, credo. Davanti al mio tavolo tre giovani donne parlano fitto, con serietà ed evidente sforzo di concentrazione. E siccome in trattoria ci si va soprattutto per ascoltare i discorsi del tavolo accanto, mi metto comodo e cerco di capire.

Parlano di un uomo. Esprimono su di lui diverse ipotesi: le loro teorie si allontanano, si incrociano, a volte sfociano in un punto di consenso per poi dividersi di nuovo. Nel momento in cui allungo l’orecchio hanno appena superato una piattaforma di comune certezza: è un coglione, non c’è dubbio. Sì, va bene, ma allora perché… e ripartono con le ipotesi divergenti. Le guardo: quarant’anni, forse qualcosa di più. Ma molto giovanili, come spesso sono le quarantenni di questo tipo. Una, mentre continua la sua pensosa ipotesi sulla coglioneria, si mette a frugare nella bella borsa, da dove spunta la bottiglietta d’acqua d’ordinanza. Dopo vari rimescolamenti tira fuori l’iPhone, e mentra l’amica mette alla prova la sua teoria, lei comincia a grattare il vetro con i polpastrelli, con aria finto distratta, come se stesse ancora ascoltando. Ma lentamente la distrazione sfuma e lo sguardo si fa tutto intento nella scrittura di un messaggio.

Da quello che capisco, il coglione è il fidanzato di una delle tre. La meno carina; ma anche la più aggressiva come abbigliamento e trucco – all’interno degli impalpabili ma ben disciplinati codici della sua sfera sociale, chiaro. Unghie scarlatte in tinta col rossetto, lunga ed elegante maglia marrone scuro, ampia scollatura coperta dalla sciarpa di seta leggera, leggins neri, credo, tacchi alti ma non troppo. Pare però che il coglione non sia il suo fidanzato e basta: pare che viva con un’altra donna, forse doveva lasciarla e non l’ha fatto, o forse l’ha fatto e poi ci ha ripensato, o forse nessuna delle due cose e andava bene così, prima. Non so, non riesco a farmi un’idea precisa. Deve avere combinato qualcosa, detto delle stupidaggini che vengono ripetute con aria incredula, disdetto un programma: insomma, non si sta comportando come dovrebbe, e loro cercano con serietà di comprendere il senso di questa turbativa dell’ordine previsto.

Non sento tutto – a volte mi concentro sulla mia insalata, o guardo le coppia con bambino che mangia silenziosa dall’altro lato della piccola sala – ma in venti minuti buoni non mi sembra di avere mai udito una battuta spiritosa, un sospiro di tristezza, una parola di incoraggiamento o di affettuoso rimprovero. Sono scienziate alle prese con un problema da risolvere, ingegneria sociale pura. In questo momento una nuova teoria vede il consenso delle tre colleghe: non c’è dubbio, è un poveretto. Sì, un poveretto, annuiscono a turno pensosamente; forse quella lo plagia, o sono gli amici. Ma da quello che capisco il poveretto non dev’essere abbandonato al suo destino ma ricondotto nell’alveo del comportamento che si richede alla sua funzione, e le due giovani donne più carine stanno aiutando la collega in difficoltà a formulare la teoria giusta, il giusto racconto di questa strana storia. A un certo punto sembrano avere trovato il filo rosso, la teoria meno fragile, e hanno persino deciso cosa lei dovrà dirgli. Non so bene, ma sembra soddisfare tutte, ed è evidente che il consulto ora volge al termine. Quella che aveva scritto il messaggio si alza e si mette il soprabito: ha un appuntamento, bacia tutte e si allontana.

Le altre due rimangono ancora un po’ a chiacchierare, si danno un appuntamento telefonico per gli aggiornamenti, e se ne vanno insieme. Rimango a pensare alle discussioni con gli amici sulle questioni sentimentali: impossibile che tre uomini parlino tra loro senza fare qualche battuta anche volgare, senza dare consigli un po’ affrettati, invitare a non pensarci più, divagare, tornare a parlare del problema piazzando qualche prudente allusione, concentrarsi un po’ e poi compiangere formulando ipotesi a tentoni, speranze accennate, esclamazioni e gesti. Partecipazione ed egoismo alternati, insomma.

Rimango sempre molto colpito da questa strana, direi vagamente stralunata eppure quasi chirurgica serietà che le donne di questa età – non tutte, quelle di un certo tipo, di un certo ambiente, credo – manifestano quando parlano di uomini. Penso ai dialoghi brillanti e patinati delle serie televisive: così apprezzati, così apparentemente realistici, così distanti dalla verità. Penso alla densità, alla violenza dei sentimenti che circondano le cose dell’amore; lo so bene, l’aria professionale delle tre scienziate non è mancanza di emozioni profonde: da qualche parte devono nascondersi, ma mi sembrano così difficili da decodificare, in questo strano geroglifico di fragili scienziate e imprevedibili, ma altrettanto fragili coglioni.

Soffiantino l’alchimista

29 Maggio 2013 § 0 commenti § permalink

soffiantino

Di Giacomo Soffiantino ricordo il bellissimo studio sotto la collina torinese, disseminato degli arnesi del mestiere, ricolmo di fossili, bucrani, insetti meravigliosi e oggetti, tracce di una vita che, anche solo all’apparenza, mostrava di esser stata umanamente ricca e vissuta con passione e intelligenza. E naturalmente le tele. Dietro un lenzuolo, dietro il cavalletto. Quelle più violente e scure, di un espressionismo che lasciava intravedere fra grandi fasce di colore le presenze di quelle stesse curiosità da wunderkammer, da stanza delle meraviglie dell’alchimista rinascimentale, di cui si circondava: frammenti di teschi animali, conchiglie, cefalopodi, schegge di legno e sassi. E poi quelle, straordinarie, più chiare e luminose, ma sempre popolate dai segnali di cicli temporali che superano l’orizzonte umano, la gioia e il dolore. E le incisioni, a volte cupe e quasi selvagge, altre grandiosamente intricate.

Eravamo agli inizi di marzo del 2007, mi pare, e ci aveva aperto il cancello con il suo grande camice bianco, fra l’artista e lo scienziato, appunto: appena entrati nel suo studio ho cominciato a chiedermi se stavamo facendo la scelta giusta. Un artista di quell’altezza, dal segno così forte e profondo, avrebbe accettato di chinare gli occhi su degli scorci cittadini? Rotaie, viali, facciate di palazzi celebri visti e rivisti, piazze e monumenti storici, strade trafficate e così legate al tempo e ai ritmi quotidiani. Dario Voltolini ne era sicuro, e girava per lo studio come un bambino in una pasticceria. Con un gesto elegante che si sarebbe ripetuto in ogni incontro successivo, Soffiantino aveva aperto una bottiglia di champagne che la moglie, così gentile e affabile, aveva nel frattempo portato, e dopo qualche sorso e un po’ di chiacchiere tutto aveva cominciato a girare meglio. Era una sfida che gli piaceva: tornare al disegno dal vero, prestarsi al figurativo con un committente, lavorare insieme a uno scrittore su un soggetto al tempo stesso statico e ribollente di vita come una città. La sua città. Nasceva così Torino fatta ad arte, il carnet che univa le visioni di due artisti che avrebbero presto stretto un’amicizia affettuosissima; mi ricordo che Voltolini era rimasto così affascinato dai disegni di Soffiantino che volle prendere da lui lezioni di incisione. Non so se la cosa abbia avuto qualche esito: ho sentito Dario vantarsi diverse volte di una sua opera prima. Mai di una seconda, però.

Soffiantino si fece mandare i testi da Voltolini a mano a mano che li scriveva – e come spesso capita con gli scrittori, a mano a mano vuol dire tutti insieme dopo una nottataccia o due, e poi qualche altro frammento più faticoso, alla spicciolata. Si era preso un po’ di tempo, e un giorno era arrivato in casa editrice con un’enorme cartellina ricolma di fogli. Tutti ricordiamo il grande tavolo della sala riunioni trasformato nella parete di un museo: i fogli uscivano da quella cartellina uno alla volta. Grandi acquerelli alternati a schizzi a matita o a china, frammenti, torsi, particolari architettonici, bozzetti, frecce colorate, paesaggi luminosi. Uno più bello dell’altro, uno più sorprendente di quello vicino. Della sua arte c’era tutto, ma era come se si fosse divertito a nasconderla fra i particolari di un’apparente oggettività. E poi le conversazioni con l’editore, gli incontri col grafico, con la produzione e la redazione, insomma tutte le stazioni che portano alla pubblicazione di un libro. Per la presentazione avevamo scelto una galleria del centro, la Novalis, in una giornata di metà novembre: tutte le tavole originali erano esposte alle pareti, insieme ad alcuni suoi meravigliosi quadri. Al centro un tavolino con una pila di libri freschi di stampa e lui, sorridente, seduto pazientemente a dedicare il libro per una lunga fila di ammiratori. Un’immagine di felicità che diversi anni dopo avrei rivisto a un’altra sua personale, alla Biblioteca Nazionale di Torino: una lunghissima teoria di persone che voleva salutarlo e stringergli la mano, scambiare due parole, chiedere un’informazione su un certo dipinto o su un certo ricordo.

A Soffiantino piaceva il pubblico, l’incontro con le persone capaci di apprezzare il suo lavoro d’artista. Quando questo scambio accadeva, sul suo viso comparivano i segni di una appena trattenuta felicità. E questo può dare un’idea di quanto tutti noi, in casa editrice, siamo stati felici di avere collaborato con lui, e quanto forte sia oggi il rammarico per la sua scomparsa. Perché se poter lavorare con un artista come Giacomo Soffiantino è sempre un privilegio, farlo nel tentativo di creare un’occasione per quell’incontro felice con il suo pubblico – che poi è la parte più bella del lavoro editoriale – è un privilegio doppio, e lascia nella memoria un segno indelebile e, ancora una volta, felice. Ed è con il ricordo di questa immagine sorridente che vorremmo ancora salutarlo, oggi.

* * *

Questo ricordo di Giacomo Soffiantino, scomparso il 27 maggio 2013, è stato originariamente scritto per il sito della EDT.

Voltolini l’assassino

20 Dicembre 2012 § 2 commenti § permalink

dario

Un bicchiere di vino in compagnia di Dario Voltolini. Si parla del più e del meno e a un certo punto il discorso cade, non so come, su Moravia, e Dario mi racconta una storia veramente divertente.

Dunque, è andata così. Un giorno del 1990 Dario riceve la telefonata di un certo critico teatrale e intellettuale, a cui era stato chiesto di pensare il numero zero dell’inserto culturale di Fortune, la rivista economica americana da poco uscita in versione italiana.

Questo signore ha un’idea brillante per la copertina: decide di chiedere a uno scrittore illustre di leggere l’opera prima di un esordiente, e poi di intervistarlo raccogliendo il suo autorevole parere sul giovane collega. Nel 1990 Dario Voltolini aveva appena pubblicato da Bollati Boringhieri Un’intuizione metropolitana ottenendo un fulminante successo critico. Ecco fatto: il direttore in pectore dell’inserto gli comunica che il primo esordiente a essere sottoposto all’esperimento sarà lui, e che lo scrittore illustre sarà nientemeno che il grande Alberto Moravia. Dario Voltolini e Alberto Moravia: un incontro incredibile, potenzialmente esplosivo.

Moravia accetta la sfida, si fa mandare il libro e concorda l’intervista per le 9 del mattino di un certo giorno del settembre 1990. Dario è molto contento ma anche un po’ preoccupato e il critico lo rassicura: andrà tutto bene, appena finisco l’intervista ti chiamo e ti racconto.

Finalmente giunge il giorno dell’incontro, e Dario attende un po’ emozionato. È nel suo ufficio, all’Olivetti, dove all’epoca si occupava di intelligenza artificiale. Aspetta, aspetta, aspetta. Arrivano le 10 e finalmente il telefono suona. È lui, il critico! Allora, cos’ha detto? Una pausa di silenzio. Come sarebbe che cos’ha detto! Ma allora non sai nulla? No, che cosa? Moravia! è morto stanotte.

È così che nella testa di Voltolini ha cominciato a serpeggiare il vago sospetto di avere ucciso Alberto Moravia. Lui se lo immagina a letto con il suo libro, sussurrare in un gemito “No, questo è troppo!” e poi abbandonare per sempre questa terra dell’ingratitudine.

Io Un’intuizione metropolitana me lo ricordo benissimo. In quegli anni vivevo in treno, e un giorno, leggendo un racconto su un gasometro mentre dal finestrino vedevo scorrere la grigissima periferia milanese, l’ho sentita. Ho sentito l’intuizione metropolitana del titolo. Netta, bellissima, mai provata prima e da allora rimasta lì come quelle aperture di prospettiva che solo l’arte riesce a dare, e che aggiungono per sempre qualcosa alla capacità di vedere. Non è necessariamente quello che l’autore voleva dire, ma le parole di uno scrittore vero, come quelle di un amico davvero intelligente, mettono in moto processi che si ripercuotono a catena, toccando corde anche lontane.

Ecco, io lo so bene cosa ci ho trovato, in quello splendido libretto arancione. Non saprei dire perché, ma sarei veramente curioso di sapere che cosa Moravia ci possa avere trovato. Riguardo all’omicidio, che immagino possa qualificarsi come preterintenzionale, non saprei dire se il fatto sussista o meno. Forse punterei sull’insufficienza di prove.

Il gioco di Roth

19 Novembre 2012 § 1 commento § permalink

Che un grande scrittore come Philip Roth decida di andare in pensione, per così dire, e lo annunci in modo tale da fare del suo proposito il tema letterario più dibattuto del momento, è cosa che dovrebbe fare sorridere. Ma confesso che un particolare della faccenda, così come è stata riportata dalla stampa di tutto il mondo, non riesco a levarmelo dalla mente. Mi perseguita; mi sembra un’immagine troppo forte per non essere stata creata intenzionalmente, e mi domando perché.

Cosa fa al mattino l’autore del Lamento di Portnoy e di Pastorale americana, ora che ha smesso di lottare con le parole? Poteva dire tante cose, ma ne ha detta una che fa un male boia.

Al mattino si sveglia e gioca con l’iPhone.

Se l’è appena comprato, e come tutti, a quanto pare, ci gioca. Come tutto il mondo, come tutti i suoi lettori, come tutti quelli che non lo leggono e forse non lo leggeranno mai. Lui gioca con quella che gli osservatori del secolo hanno definito l’invenzione del secolo, creata dal genio del secolo. Finalmente, dice Roth. Non ne potevo più.

Non so spiegare perché, ma fra tutti gli inutili commenti questo particolare, anzi questa immagine, mi sembra umanamente insopportabile. E forse non ce n’è motivo. Ma il fatto è che la scrittura, come l’amore, mi sembra una lotta che riguarda due forze immaginarie contrapposte, inscindibili, necessarie l’una all’altra. La lotta con la parola è anche la lotta per l’ascolto, e forse ci sono momenti in cui ti accorgi che che non hai niente da dire, perché non c’è niente che possa essere ascoltato fra le cose che potresti avere da dire.

O almeno, non c’è niente che possa essere ascoltato dalle persone di cui le tue parole hanno bisogno per poter essere dette. E allora fai come loro, lasci perdere. Finito.

Ma chi è che ci perde veramente, in questo gioco?