Se il critico antipatico si ribella

15 Dicembre 2008 § 0 commenti

daumier_critico

Mentre le pagine musicali dei giornali di tutto il mondo e gran parte dei blog festeggiavano i due centenari di questo dicembre – quello di Carter, meravigliosamente creativo e longevo, e quello del grandissimo Messiaen – una notizia proveniente da Cleveland ha cominciato a serpeggiare per la rete, facendo nascere un dibattito discretamente rumoroso.

In poche parole la storia è questa: Donald Rosenberg è il critico di “The Plain Dealer”, il maggiore quotidiano di Cleveland, Ohio, città che come si sa ospita una delle 5 migliori orchestre americane (le cosiddette Big Five). Da quasi trent’anni Dan segue l’orchestra in tutte le sue uscite, sia cittadine sia in trasferta. È uno di quei critici localmente importanti, quelli che in America – come da noi – sono in qualche modo “embedded”: ha il pass per andare nei camerini dopo il concerto, può utilizzare alcune strutture del teatro per scrivere o inviare i pezzi, in caso di trasferta viaggia con i musicisti, ha un rapporto privilegiato con la dirigenza dell’orchestra, eccetera. Poi un giorno qualcosa comincia a cambiare. Rosenberg non sembra apprezzare incondizionatamente Franz Welser-Möst, il direttore austriaco nominato “music director” nel 2002 e, di rinnovo in rinnovo, garantito alla Cleveland Orchestra fino al 2018 (!). Continua a scrivere dell’orchestra in tono elogiativo, ma prende sempre più spesso le distanze dal direttore, tanto da far ritenere alla dirigenza dell’orchestra che possa trattarsi di una questione personale; cominciano le “presunte” pressioni sulla direzione del giornale, e soprattutto cominciano a essergli inviati i messaggi di scarso gradimento: niente più viaggi sul pullman dell’orchestra, la maschera che lo ferma mentre va ai camerini degli artisti dopo il concerto, l’accesso agli uffici che gli viene negato, i funzionari che non si fanno trovare. Insomma, il tipico incubo del critico caduto in disgrazia.

Finché nel settembre scorso, con una decisione che negli Stati Uniti fece abbastanza discutere, il giornale non comunicò al suo critico senior che non avrebbe più dovuto occuparsi della Cleveland Orchestra. Avrebbe continuato a scrivere di tutto, ma non dell’orchestra; a questa avrebbe pensato un altro critico, tale Zack Lewis. Era semplicemente stato “sollevato” dall’incarico, così come eufemisticamente si dice da noi.

Fin qui la storia non è del tutto inconsueta. Di giornalisti o critici scomodi, o comunque non amati, è piena la storia della carta stampata, e le loro rimozioni o i loro “silenziamenti” non sono stati pochi. Anche da noi. La notizia di questi giorni, però, annuncia un epilogo diverso: Dan Rosenberg ha citato in giudizio il suo giornale e la dirigenza dell’orchestra, accusando quest’ultima di una “campaign of vilification” (che lingua straordinaria, l’inglese!), con conseguente diffamazione e danno alla sua credibilità; il risarcimento è quantificato in 50.000 dollari, ma è chiaro che lo scopo della citazione in giudizio non è di carattere meramente economico.

rosenbergVedremo come andrà a finire, però è una notizia che fa riflettere. La pubblica discussione che ne è seguita tocca alcuni dei temi più importanti che riguardano la figura del critico e il suo ruolo nella società. Una parte dell’opinione pubblica si è schierata con il teatro: se il pubblico è contento di un artista, leggere una voce critica che si leva tanto ricorrentemente da essere quasi prevedibile può disturbare non solo la dirigenza dell’orchestra, ma anche i comuni lettori. L’altra posizione, apparentemente prevalente sui media, è quella che ritiene che anche un critico possa avere le sue idiosincrasie, e che finché egli le esprime con la dovuta professionalità, e motivando le sue affermazioni, non c’è motivo al mondo per cui dovrebbe essere rimosso dal suo incarico.

Vengono in mente i tanti casi in cui anche dalle nostre parti i critici hanno dimostrato un’antipatia (o una simpatia) ricorrente per un interprete; gli altrettanto numerosi casi in cui la critica si è dimostrata pavida o troppo benevola nei confronti di una determinata istituzione culturale o musicale; e i tanti casi in cui una certa istituzione musicale si è dimostrata aggressiva nei confronti della critica e persino della pubblica opinione. Viene in mente la Scala degli anni di Muti, e la sua posizione nei confronti della libera espressione delle opinioni: l’arroganza di voler decidere chi dovesse entrare e chi no alle rappresentazioni, le pressioni (sempre presunte, naturalmente) sui direttori dei giornali, persino la comica (ma non troppo!) presenza della forza pubblica nel loggione (i carabinieri, come in Pinocchio). E naturalmente la Scala è il caso più vistoso, ma non certamente l’unico. Qualcuno si ricorderà della lettera al direttore del Corriere, firmata da una buona parte della intellighenzia italiana, per chiedere la rimozione di Paolo Isotta, critico antipatico quant’altri mai. Insomma il mestiere del critico, nonostante il fatto che il suo ruolo sia diventato qualcosa di decisamente marginale nel mondo della comunicazione – e che i suoi spazi si siano ristretti di conseguenza – rimane percepito come qualcosa di instabile, di inevitabilmente soggetto alla benevolenza o al livore della classe dirigente.

In un mondo in cui gli sponsor contano quanto e talvolta più degli abbonati e degli spettatori affezionati, in cui dunque la comunicazione degli “eventi” si preoccupa di far giungere i suoi messaggi extramusicali a uno spettro ben più ampio di persone di quelle normalmente interessate alle recensioni, la critica musicale è diventata il retaggio di un mondo passato; li vedi in sala con l’aria dei giudici supremi, vedi come si pregustano la punizione per il tenore che ha stonato, il corno che ha scroccato, il direttore che ha preso il tempo troppo veloce; li vedi con l’aria mondana e compiacente mentre sussurrano gentilezze al sovrintendente, o pontificano per un ristretto pubblico di signore in ammirazione. La penna nel taschino, il programma di sala in mano, l’aria raramente felice. E senti che è un mestiere fuori moda, fuori dal tempo, come il bigliettaio sui tram, il portiere in livrea; un dinosauro tenuto in vita per lusso, per tradizione a esaurimento; un giapponese nella giungla che combatte una guerra finita da vent’anni: la guerra di quando un concerto o una serata d’opera non erano “entertainment”, ma eventi di cui era necessario stabilire il livello e il diritto d’accesso alla categoria del memorabile, testimoniata in eterno dalla carta stampata. Il critico era la memoria storica, il grande comparatore, il temuto e spiritoso intellettuale che staccava i biglietti d’accesso al tram della gloria artistica, il custode in livrea davanti al portone della fama meritata.

Oggi la sola idea di dedicare spazio a un evento a posteriori, quando cioè i biglietti sono già stati venduti e addirittura il fatto si è già svolto, sembra una cosa fuori tempo. La differenza tra cri
tica e attività promozionale è labilissima, come può testimoniare il mondo della pubblicistica letteraria (gli inserti dei quotidiani in primo luogo). I giornali e le televisioni sono straordinari veicoli di informazione pubblicitaria più o meno gratuita – lo scambio c’è, ma non si vede – e non hanno più alcun interesse per il ruolo dei custodi della memoria storica. Così la critica musicale, intesa come il severo e competente giudizio che arriva due o tre giorni dopo una serata di musica a cui hanno presenziato 1.000 persone a dire tanto, è qualcosa che non interessa più praticamente nessuno. A meno che… A meno che non si dimostri troppo scomoda, e allora diventa improvvisamente qualcosa di rilevante, un fastidio da rimuovere al più presto. Ecco che magicamente, attraverso l’antipatia e la malmostosità, il critico riacquista la sua dignità e il suo lustro. Contro di lui cominciano oscure manovre sotterranee, e l’indipendenza dell’informazione viene messa alla prova.

Ma il critico che ricorre al giudizio di un tribunale per difendere la propria dignità professionale, andando contro la dirigenza delle istituzioni culturali della propria città e persino contro la direzione del proprio giornale, non è una cosa consueta; è un colpo di coda inaspettato. L’appello alla legge perché venga sancito il sacrosanto diritto a essere fuori dal tempo – la privata liceità e soprattutto la pubblica utilità dell’essere antipatico – è una novità da seguire con interesse.

Immagine in alto: Il critico, incisione di Honoré Daumier. Più sotto: Daniel Rosenberg, foto di Allison Carey/The Plain Dealer.

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