Harding, Bernstein e la leggerezza

28 Febbraio 2011 § 0 commenti

Riti di passaggio nel mondo dei grandi direttori. A 35 anni Daniel Harding debutta con la New York Philharmonic, e puntuale il New York Times gli dedica un’intervista che, sorprendentemente, prende una piega vagamente malinconica. Il titolo: “Un bambino prodigio cresce e diventa un semplice direttore giovane”.

Volendola riassumere con parole nostre, la sua storia è un po’ questa: un giovanissimo musicista viene venduto per dieci anni come fanciullo prodigio, si ritrova a dirigere le migliori orchestre del mondo intorno ai vent’anni d’età, a ventuno debutta con i Berliner, poi ottiene un contratto con una major discografica, poi inaugura la Scala, poi, poi… Poi si ritrova a 35 anni, con un calendario ancora gremito di impegni, con opportunità che pochissimi direttori suoi coetanei potrebbero avere, ma con un personaggio da reinventare, e forse con una vita un po’ a pezzi. A 35 anni sei un giovane direttore, non sei più ‘il folletto del podio’, l’‘esplosione di energia giovanile’ e le altre terribili castronerie che per dieci anni hanno affollato le poche righe che i giornali concedono ai senescenti critici musicali. Senescenti anagraficamente o più spesso psicologicamente.

Dove abita Daniel? Da nessuna parte. Le sue cose sono in un magazzino, dopo la separazione dalla moglie. Quale grande orchestra dirige? Nessuna in maniera stabile: quelle stesse istituzioni che lo invitavano per divertire un pubblico vecchio e assetato di gioventù come il conte Dracula, lo chiamano ancora perché è un buon nome, perché ancora c’è un po’ di scia dell’effetto ‘folletto’. Ma a parte qualche critico di qualche inserto culturale di qualche giornale confindustriale italiano, il tempo dei peana è passato, e ora viene quello della costruzione di un prestigio, di una credibilità da musicista maturo. Un’impresa tutt’altro che facile, in queste condizioni. Lui nel frattempo si lega a istituzioni con cui può crescere al riparo: Trondheim, in Norvegia; Norrköping, in Svezia; Brema, in Germania.

E adesso due concerti con la New York Philharmonic, per due sinfonie di Mahler. Come dice lui stesso, non è che uno va a New York e con un paio di prove spiega all’Orchestra che fu di Bernstein come si suona la Quarta di Mahler. La sfida è quella di non fare stupidaggini, di guidarli e lasciarsi guidare; quella di creare un rapporto di fiducia e di cercare di crescere ancora, magari anche imparando da loro.

Ma il pubblico, è questo che vuole da Harding? Quando per un decennio il marketing che ti cuciono addosso dice: “venite a sentire che cosa vi combina questo genio-bambino”, e tanta critica gli va dietro scrivendo del Don Giovanni svecchiato dal genietto inglese, dell’enfant prodige che rende nuovo tutto ciò che tocca? Lui oggi riascolta il suo Don Giovanni e dice fra sé: “che diavolo stavo facendo?”. E i critici che scrissero così, lo riascoltano mai? Eppure ancora adesso si sente parlare di un Mascagni radicalmente ripensato da Harding alla Scala. No dico: Daniel Harding, Cavalleria Rusticana, il Teatro alla Scala.

Eppure la giostra continua: dopo di lui, l’eccitazione per il giovanissimo genio è stata cercata con Dudamel, un po’ meno con Ticciati, molto in altri innumerevoli pianisti, sempre più bambini, sempre più prodigiosi, spesso sempre più immaturi. Quello del bisogno del genio bambino è un fenomeno peculiare al mondo della musica classica; il rock ha le ‘boy band’, ma generalmente sono speculazioni dei discografici alla ricerca di un pubblico adolescenziale: per il resto i fanciulli prodigio sono storie buone giusto per qualche talent show.

Perché la musica che ha il pubblico più vecchio gode tanto nel vedere i ragazzini soffrire ed esibirsi sul palco? Tutto, nel mondo della musica classica, sembra giocare con la morte: da Orfeo in poi, la mitologia legata all’esibizione musicale è strettamente intrecciata con il tema della fine, dell’annullamento, della decadenza e della catastrofe: sono i temi preferiti dai compositori e spesso dal pubblico, i temi con cui ogni artista gioca a nascondino. Non è che, magari, tutta questa passione per i giovanissimi in lotta con questi mostri derivi dal bisogno di un antidoto, anche se un po’ perverso? Non è che si tratta di una forma di scongiuro? Ognuno può fare le sue valutazione; certo è che, come tutti sanno, si gioca col fuoco.

In ogni caso, a Daniel Harding che va a New York a dirigere la Quarta di Mahler vorrei che qualcuno dicesse di andare all’archivio della New York Philharmonic. Lì è conservata la partitura appartenuta a Leonard Bernstein. Nella tarda primavera del 1987 Leonard partì per l’Europa per una tournée durante la quale avrebbe dovuto completare la nuova incisione delle Sinfonie di Mahler per la Deutsche Grammophon. La Quarta la registra in audio e video ad Amsterdam, con l’Orchestra del Concertgebouw. Il 30 giugno la dirige anche a Oslo ma forse non tutto va come avrebbe voluto; forse qualche poltrona vuota lo lascia un po’ deluso. Fatto sta che sulla risguardia della sua partitura, oggi consultabile anche via internet attraverso lo splendido sito della NY Philharmonic, annota un motivetto di terzine in fa minore, e sotto ci mette due versi da canticchiare: “We didn’t sell out in Oslo, we didn’t sell out the hall etc.”.

Bernstein è la terza volta che registra le Sinfonie di Mahler, e a giudicare da tante tracce lasciate nel tessuto musicale di queste incisioni, forse sa che sarà anche l’ultima. Nella primavera di quell’anno era morto di AIDS il suo amico e amato Tom Cothrane: è un anno difficile, per certi versi crepuscolare, Leonard però mantiene un’energia e un fascino invidiabili. E soprattutto, a sessantanove anni possiede un dono che l’ha sempre salvato, e che non appartiene a nessuna età; quel dono che forse potrebbe aiutare anche l’ex folletto, cioè a dire un autentico, non anagrafico, amore per la leggerezza.

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