Un gruppo di scrittori, poeti, critici, alcuni rapper, molti studenti: non esattamente il ritratto di una pericolosa cellula terroristica. Eppure nel tendone in cui dovevano riunirsi per festeggiare la conclusione del Palestine Festival of Literature (PalFest), la rassegna dedicata alla scrittura che da quattro anni si svolge, tra incredibili difficoltà, in territorio palestinese, sono stati lanciati dei lacrimogeni dall’esercito occupante. Da quelle parti le cose vanno così, e nessuno sembra stupirsi più di tanto.
Sobborgo di Silwan, a sud di Gerusalemme, quartiere a larga maggioranza palestinese su cui negli ultimi anni si sono concentrati nuovi piani di espansione delle colonie israeliane e un progetto per l’ampliamento di un parco archeologico contestato dai residenti; luogo di forti tensioni e frequenti scontri; luogo di violazione dei diritti umani secondo gli osservatori stranieri, che denunciano il reiterato arresto di bambini da parte della polizia e dell’esercito occupante. Per guadagnare un po’ di sostegno da parte della stampa internazionale contro i preoccupanti progetti dei coloni, è stato issato un tendone, luogo di ritrovo e di scambio di informazioni. È proprio qui che, con un certo coraggio e forse anche con un po’ di senso di sfida, il 20 aprile si è chiuso il festival che per cinque giorni ha riunito, come ogni anno, migliaia di persone intorno alle forze della letteratura palestinese e ad alcuni illustri e meno illustri ospiti stranieri.
Nato nel 2008, il PalFest ha avuto tra i suoi fondatori e sostenitori nomi importanti della letteratura di tutto il mondo, come lo scrittore nigeriano Chinua Achebe, John Berger, Harold Pinter (scomparso nel 2008), il premio Nobel Seamus Heaney, il poeta ‘nazionale’ palestinese Mahmoud Darwish, e molti altri. Gli organizzatori lo definiscono ‘festival itinerante’, cosa che naturalmente, in un paese in cui la difficoltà di spostamento è uno dei segni più tangibili dell’occupazione, assume un significato tutto particolare: quest’anno ha portato nei diversi luoghi delle manifestazioni (Nablus, Jenin, Betlemme, Ramallah, Hebron e Gerusalemme) scrittori e scrittrici come l’egiziana Adhaf Soueif, l’americana Alice Walker (l’autrice di Il colore viola), il pakistano Mohammed Hanif (Il caso dei manghi esplosivi, Bompiani 2009) e molti altri, e li ha fatti incontrare con gli scrittori locali e con il pubblico, in una serie di workshop, letture, dibattiti.
L’appuntamento conclusivo era per le 19.30 sotto il tendone di Silwan, ma gli scontri sono cominciati alcune ore prima, l’aria era irrespirabile per i lacrimogeni e molti ospiti erano stati trattenuti ai posti di blocco, così tutto sembrava essere andato in fumo. E invece hanno aspettato che il fumo si disperdesse, che gli scontri cessassero, e quando ormai era quasi notte sotto quel tendone ci si sono davvero seduti, e hanno letto le loro benedette poesie, e hanno fatto i loro benedetti discorsi, e hanno suonato le loro benedette canzoni. Ne parla un articolo dell’Economist, lo si può leggere anche in alcuni blog e siti come i coraggiosi Rete Eco – Ebrei contro l’occupazione o Invisible Arabs della giornalista Paola Caridi. Se ne può sentire l’atmosfera, tutta particolare, nel video postato dagli organizzatori del Festival su Youtube.
Sono i momenti in cui la letteratura e le arti si riprendono il loro valore di ponte sospeso fra le persone e i luoghi, fra personale e collettivo, allontanandosi da quella fruizione un po’ solipsistica e consumistica che sempre più stanno assumendo nelle nostre vite. Piacerebbe pensare che queste iniziative siano ben viste se non addirittura sostenute dagli occupanti israeliani, poiché ogni occasione di incontro e crescita culturale rappresenta anche un freno al diffondersi del cancro estremista e integralista. Ancora una volta non è così, e viene da chiedersi se non ci sia un metodo in questa sistematica volontà di ostacolare la crescita sociale della popolazione palestinese, in questa obliterazione delle proprie radici culturali, del proprio tessuto sociale e del proprio paesaggio a cui la si vuole spietatamente costringere.
È la storia che racconta nei suoi libri uno dei fondatori e sostenitori del Festival, Raja Shehadeh, scrittore e avvocato nato a Ramallah. Il disgregarsi di una società in stretto rapporto con il territorio, l’umiliazione di una borghesia istruita, fatta di professionisti, commercianti e possidenti terrieri, costretta a emigrare o a vivere in un contesto sempre più contrassegnato dalla violenza e dalla coercizione, e ad assistere infine all’affermazione dell’integralismo, la peggiore delle medicine, quella che uccide il paziente insieme ai sintomi del suo male.
Uno dei suoi libri, in particolare, racconta la storia degli ultimi decenni in Palestina da un punto di vista unico e pregnante, quello del paesaggio e della sua trasformazione. Riprendendo un’antica tradizione palestinese, quella della sarha, il vagabondaggio disintossicante che l’uomo si concede una volta all’anno, Shehadeh ama le lunghe camminate, e ne Il pallido dio delle colline (EDT 2010) racconta 7 di questi viaggi a piedi fra le colline e i wadi della Cisgiordania, distribuite nell’arco degli ultimi venticinque anni; ricorda le luci della civile Jaffa di quando era piccolo, poi lo spostamento coatto verso Ramallah, luogo fino ad allora destinato alla villeggiatura, la scoperta delle colline, con i loro ulivi, i terrazzamenti, il fresco dei rifugi per il bestiame. E poi lentamente il disgregarsi del tessuto sociale, l’abbandono delle terre, la comparsa degli insediamenti sempre più invadenti, l’occupazione e la frammentazione del territorio, gli espropri. Tutto però scandito dal passo di chi cammina e osserva, e camminando e osservando in qualche modo riflette e sorpassa. Un libro che mi ha aiutato molto a capire come stanno le cose al di là delle notizie di cronaca e dei libri di storia. E soprattutto un libro guidato da quella stessa disperata fiducia nella parola e nel pensiero che ha spinto pochi giorni fa un gruppo di pazzi a sfidare la sorte e il rancore dei propri nemici per andare ad ascoltare poesie sotto un tendone che sapeva ancora di gas lacrimogeno.
La foto di Raja Shehadeh è di Chris Boland, ed è stata scattata a Cambridge nel marzo scorso; la persona dietro di lui è lo scrittore inglese Robert Macfarlane.
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