Che un grande scrittore come Philip Roth decida di andare in pensione, per così dire, e lo annunci in modo tale da fare del suo proposito il tema letterario più dibattuto del momento, è cosa che dovrebbe fare sorridere. Ma confesso che un particolare della faccenda, così come è stata riportata dalla stampa di tutto il mondo, non riesco a levarmelo dalla mente. Mi perseguita; mi sembra un’immagine troppo forte per non essere stata creata intenzionalmente, e mi domando perché.
Cosa fa al mattino l’autore del Lamento di Portnoy e di Pastorale americana, ora che ha smesso di lottare con le parole? Poteva dire tante cose, ma ne ha detta una che fa un male boia.
Al mattino si sveglia e gioca con l’iPhone.
Se l’è appena comprato, e come tutti, a quanto pare, ci gioca. Come tutto il mondo, come tutti i suoi lettori, come tutti quelli che non lo leggono e forse non lo leggeranno mai. Lui gioca con quella che gli osservatori del secolo hanno definito l’invenzione del secolo, creata dal genio del secolo. Finalmente, dice Roth. Non ne potevo più.
Non so spiegare perché, ma fra tutti gli inutili commenti questo particolare, anzi questa immagine, mi sembra umanamente insopportabile. E forse non ce n’è motivo. Ma il fatto è che la scrittura, come l’amore, mi sembra una lotta che riguarda due forze immaginarie contrapposte, inscindibili, necessarie l’una all’altra. La lotta con la parola è anche la lotta per l’ascolto, e forse ci sono momenti in cui ti accorgi che che non hai niente da dire, perché non c’è niente che possa essere ascoltato fra le cose che potresti avere da dire.
O almeno, non c’è niente che possa essere ascoltato dalle persone di cui le tue parole hanno bisogno per poter essere dette. E allora fai come loro, lasci perdere. Finito.
Ma chi è che ci perde veramente, in questo gioco?
Sono rimasta un po’ basita anch’io, a dire la verità.