Di Giacomo Soffiantino ricordo il bellissimo studio sotto la collina torinese, disseminato degli arnesi del mestiere, ricolmo di fossili, bucrani, insetti meravigliosi e oggetti, tracce di una vita che, anche solo all’apparenza, mostrava di esser stata umanamente ricca e vissuta con passione e intelligenza. E naturalmente le tele. Dietro un lenzuolo, dietro il cavalletto. Quelle più violente e scure, di un espressionismo che lasciava intravedere fra grandi fasce di colore le presenze di quelle stesse curiosità da wunderkammer, da stanza delle meraviglie dell’alchimista rinascimentale, di cui si circondava: frammenti di teschi animali, conchiglie, cefalopodi, schegge di legno e sassi. E poi quelle, straordinarie, più chiare e luminose, ma sempre popolate dai segnali di cicli temporali che superano l’orizzonte umano, la gioia e il dolore. E le incisioni, a volte cupe e quasi selvagge, altre grandiosamente intricate.
Eravamo agli inizi di marzo del 2007, mi pare, e ci aveva aperto il cancello con il suo grande camice bianco, fra l’artista e lo scienziato, appunto: appena entrati nel suo studio ho cominciato a chiedermi se stavamo facendo la scelta giusta. Un artista di quell’altezza, dal segno così forte e profondo, avrebbe accettato di chinare gli occhi su degli scorci cittadini? Rotaie, viali, facciate di palazzi celebri visti e rivisti, piazze e monumenti storici, strade trafficate e così legate al tempo e ai ritmi quotidiani. Dario Voltolini ne era sicuro, e girava per lo studio come un bambino in una pasticceria. Con un gesto elegante che si sarebbe ripetuto in ogni incontro successivo, Soffiantino aveva aperto una bottiglia di champagne che la moglie, così gentile e affabile, aveva nel frattempo portato, e dopo qualche sorso e un po’ di chiacchiere tutto aveva cominciato a girare meglio. Era una sfida che gli piaceva: tornare al disegno dal vero, prestarsi al figurativo con un committente, lavorare insieme a uno scrittore su un soggetto al tempo stesso statico e ribollente di vita come una città. La sua città. Nasceva così Torino fatta ad arte, il carnet che univa le visioni di due artisti che avrebbero presto stretto un’amicizia affettuosissima; mi ricordo che Voltolini era rimasto così affascinato dai disegni di Soffiantino che volle prendere da lui lezioni di incisione. Non so se la cosa abbia avuto qualche esito: ho sentito Dario vantarsi diverse volte di una sua opera prima. Mai di una seconda, però.
Soffiantino si fece mandare i testi da Voltolini a mano a mano che li scriveva – e come spesso capita con gli scrittori, a mano a mano vuol dire tutti insieme dopo una nottataccia o due, e poi qualche altro frammento più faticoso, alla spicciolata. Si era preso un po’ di tempo, e un giorno era arrivato in casa editrice con un’enorme cartellina ricolma di fogli. Tutti ricordiamo il grande tavolo della sala riunioni trasformato nella parete di un museo: i fogli uscivano da quella cartellina uno alla volta. Grandi acquerelli alternati a schizzi a matita o a china, frammenti, torsi, particolari architettonici, bozzetti, frecce colorate, paesaggi luminosi. Uno più bello dell’altro, uno più sorprendente di quello vicino. Della sua arte c’era tutto, ma era come se si fosse divertito a nasconderla fra i particolari di un’apparente oggettività. E poi le conversazioni con l’editore, gli incontri col grafico, con la produzione e la redazione, insomma tutte le stazioni che portano alla pubblicazione di un libro. Per la presentazione avevamo scelto una galleria del centro, la Novalis, in una giornata di metà novembre: tutte le tavole originali erano esposte alle pareti, insieme ad alcuni suoi meravigliosi quadri. Al centro un tavolino con una pila di libri freschi di stampa e lui, sorridente, seduto pazientemente a dedicare il libro per una lunga fila di ammiratori. Un’immagine di felicità che diversi anni dopo avrei rivisto a un’altra sua personale, alla Biblioteca Nazionale di Torino: una lunghissima teoria di persone che voleva salutarlo e stringergli la mano, scambiare due parole, chiedere un’informazione su un certo dipinto o su un certo ricordo.
A Soffiantino piaceva il pubblico, l’incontro con le persone capaci di apprezzare il suo lavoro d’artista. Quando questo scambio accadeva, sul suo viso comparivano i segni di una appena trattenuta felicità. E questo può dare un’idea di quanto tutti noi, in casa editrice, siamo stati felici di avere collaborato con lui, e quanto forte sia oggi il rammarico per la sua scomparsa. Perché se poter lavorare con un artista come Giacomo Soffiantino è sempre un privilegio, farlo nel tentativo di creare un’occasione per quell’incontro felice con il suo pubblico – che poi è la parte più bella del lavoro editoriale – è un privilegio doppio, e lascia nella memoria un segno indelebile e, ancora una volta, felice. Ed è con il ricordo di questa immagine sorridente che vorremmo ancora salutarlo, oggi.
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Questo ricordo di Giacomo Soffiantino, scomparso il 27 maggio 2013, è stato originariamente scritto per il sito della EDT.
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