Una trattoria di quelle che piacciono alla borghesia del nuovo edonismo etico: insalate biologiche, verdure a chilometri zero, presidi slow food e via dicendo. Lenitivi per un già agonizzante senso di colpa, credo. Davanti al mio tavolo tre giovani donne parlano fitto, con serietà ed evidente sforzo di concentrazione. E siccome in trattoria ci si va soprattutto per ascoltare i discorsi del tavolo accanto, mi metto comodo e cerco di capire.
Parlano di un uomo. Esprimono su di lui diverse ipotesi: le loro teorie si allontanano, si incrociano, a volte sfociano in un punto di consenso per poi dividersi di nuovo. Nel momento in cui allungo l’orecchio hanno appena superato una piattaforma di comune certezza: è un coglione, non c’è dubbio. Sì, va bene, ma allora perché… e ripartono con le ipotesi divergenti. Le guardo: quarant’anni, forse qualcosa di più. Ma molto giovanili, come spesso sono le quarantenni di questo tipo. Una, mentre continua la sua pensosa ipotesi sulla coglioneria, si mette a frugare nella bella borsa, da dove spunta la bottiglietta d’acqua d’ordinanza. Dopo vari rimescolamenti tira fuori l’iPhone, e mentra l’amica mette alla prova la sua teoria, lei comincia a grattare il vetro con i polpastrelli, con aria finto distratta, come se stesse ancora ascoltando. Ma lentamente la distrazione sfuma e lo sguardo si fa tutto intento nella scrittura di un messaggio.
Da quello che capisco, il coglione è il fidanzato di una delle tre. La meno carina; ma anche la più aggressiva come abbigliamento e trucco – all’interno degli impalpabili ma ben disciplinati codici della sua sfera sociale, chiaro. Unghie scarlatte in tinta col rossetto, lunga ed elegante maglia marrone scuro, ampia scollatura coperta dalla sciarpa di seta leggera, leggins neri, credo, tacchi alti ma non troppo. Pare però che il coglione non sia il suo fidanzato e basta: pare che viva con un’altra donna, forse doveva lasciarla e non l’ha fatto, o forse l’ha fatto e poi ci ha ripensato, o forse nessuna delle due cose e andava bene così, prima. Non so, non riesco a farmi un’idea precisa. Deve avere combinato qualcosa, detto delle stupidaggini che vengono ripetute con aria incredula, disdetto un programma: insomma, non si sta comportando come dovrebbe, e loro cercano con serietà di comprendere il senso di questa turbativa dell’ordine previsto.
Non sento tutto – a volte mi concentro sulla mia insalata, o guardo le coppia con bambino che mangia silenziosa dall’altro lato della piccola sala – ma in venti minuti buoni non mi sembra di avere mai udito una battuta spiritosa, un sospiro di tristezza, una parola di incoraggiamento o di affettuoso rimprovero. Sono scienziate alle prese con un problema da risolvere, ingegneria sociale pura. In questo momento una nuova teoria vede il consenso delle tre colleghe: non c’è dubbio, è un poveretto. Sì, un poveretto, annuiscono a turno pensosamente; forse quella lo plagia, o sono gli amici. Ma da quello che capisco il poveretto non dev’essere abbandonato al suo destino ma ricondotto nell’alveo del comportamento che si richede alla sua funzione, e le due giovani donne più carine stanno aiutando la collega in difficoltà a formulare la teoria giusta, il giusto racconto di questa strana storia. A un certo punto sembrano avere trovato il filo rosso, la teoria meno fragile, e hanno persino deciso cosa lei dovrà dirgli. Non so bene, ma sembra soddisfare tutte, ed è evidente che il consulto ora volge al termine. Quella che aveva scritto il messaggio si alza e si mette il soprabito: ha un appuntamento, bacia tutte e si allontana.
Le altre due rimangono ancora un po’ a chiacchierare, si danno un appuntamento telefonico per gli aggiornamenti, e se ne vanno insieme. Rimango a pensare alle discussioni con gli amici sulle questioni sentimentali: impossibile che tre uomini parlino tra loro senza fare qualche battuta anche volgare, senza dare consigli un po’ affrettati, invitare a non pensarci più, divagare, tornare a parlare del problema piazzando qualche prudente allusione, concentrarsi un po’ e poi compiangere formulando ipotesi a tentoni, speranze accennate, esclamazioni e gesti. Partecipazione ed egoismo alternati, insomma.
Rimango sempre molto colpito da questa strana, direi vagamente stralunata eppure quasi chirurgica serietà che le donne di questa età – non tutte, quelle di un certo tipo, di un certo ambiente, credo – manifestano quando parlano di uomini. Penso ai dialoghi brillanti e patinati delle serie televisive: così apprezzati, così apparentemente realistici, così distanti dalla verità. Penso alla densità, alla violenza dei sentimenti che circondano le cose dell’amore; lo so bene, l’aria professionale delle tre scienziate non è mancanza di emozioni profonde: da qualche parte devono nascondersi, ma mi sembrano così difficili da decodificare, in questo strano geroglifico di fragili scienziate e imprevedibili, ma altrettanto fragili coglioni.
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