3 Febbraio 2008 § § permalink
In un precedente post avevo accennato a quello che un battage pubblicistico molto intenso – e un indubbio interesse suscitato dal tema – aveva annunciato come uno dei migliori libri sulla musica del 2007: Musicophilia: Tales of Music and the Brain, di Oliver Sacks. Capita ora che TLS, uno dei più seri settimanali di recensioni librarie del mondo (è l’inserto letterario del «Times»), pubblichi nel numero del 18 gennaio scorso una severa stroncatura, firmata da Jerry Fodor, filosofo e congnitivista americano, docente alla Rutgers University.
L’articolo, intitolato “Mental Notes”, critica l’approccio di Sacks seguendo una linea non nuova ai suoi detrattori: vi si sostiene infatti che la rassegna di casi clinici presentati, e la “fissazione” che Sacks condivide con molti neurologi di chiedersi “dove” risiedano, all’interno del cervello umano, determinate funzioni, non solo non aiuti a capire i maggiori problemi dell’apprendimento e del pensiero, ma eviti di proposito alcune delle domande più importanti che il tema sollecita. Fodor, con un colpo vagamente sotto la cintura (ma di indubbio effetto), si riferisce alla fascetta editoriale del libro (e le stesse parole sono state riportate da quasi tutta la stampa che lo ha presentato), dove si afferma: “La musica è irresistibile, coinvolgente e indimenticabile, e in Musicophilia Oliver Sacks ci spiega perché”. Ma praticamente sin dalle prime righe, Fodor ci avverte che Sacks non ha affatto mantenuto la promessa: “Da un lato, molto di quello che Sacks dice sulla musica è banale […]. Dall’altro, molto di quello che dice sul cervello si rivela essere una neurochiacchiera [neurobabble]”. “[Nel libro] ci sono parecchi casi clinici che si rivelano, per molti versi, interessanti e sorprendenti; ma è difficile capire che cosa farne”. E qui già si comincia a capire il senso della critica: a molti sarà infatti capitato, leggendo un qualunque lavoro di Sacks (o vedendo uno dei film o delle opere che i suoi libri hanno ispirato), di rimanere affascinati dalla ricchezza di implicazioni e dagli aspetti sorprendenti che il disagio mentale comporta; ma in molti di questi casi era veramente difficile capire che cosa essi potessero suggerirci al di là della curiosità e di un interesse generico. Fodor su questa linea è letteralmente spietato: “Sacks è prodigo negli aneddoti, ma avaro nella teoria. Colleziona casi clinici come altri fanno con i francobolli”.
Le domande che Sacks evita – e che sicuramente non sono appassionanti solo un cognitivista come Fodor, ma anche per gran parte delle persone interessate alle cose della musica – sono tutt’altro che collaterali: che cosa distingue e caratterizza la musica, quale musica, cosa la rende tanto importante per l’essere umano, e così via. “Credo che il problema consista nel fatto che Sacks (così come molti altri suoi colleghi neuroscienziati) è quasi ossessivamente preoccupato di scoprire dove, nel cervello, le cose risiedano. Quello che ha in mente […] è soprattutto il confronto fra le ipotesi cliniche sulle localizzazioni dei danni cerebrali con i risultati delle scansioni di risonanza magnetica del cervello. Questo modo di condurre la ricerca sul cervello ha sempre incontrato il favore dei chirurghi, che molto appropriatamente ritengono necessario sapere quali pezzetti di cervello possono asportare, e quali no”. E ancora, per concludere: “Non credo ci sia nulla di male in questa strategia di ricerca; ma molto spesso conduce alla mancanza di interesse nei confronti delle domande sul meccanismo: in questo caso, nei confronti dei problemi relativi al meccanismo psicologico le cui operazioni presiedono alla percezione, all’esecuzione e alla composizione musicale”. È probabile che la polemica avrà un seguito, ma bisogna ammettere che è tutt’altro che infondata.
6 Gennaio 2008 § § permalink
Qual è stato il canto su cui si è combattuta la rivoluzione d’Ottobre? Se a qualcuno venisse subito in mente L’Internazionale, potrebbe non essere del tutto nel giusto. Se ne parla in un capitolo intitolato “Parole e immagini” di un libretto molto interessante e ben scritto di Marcello Flores (1917. La Rivoluzione, Einaudi 2007):
Un’altra battaglia importante che si svolge sui simboli è quella per la canzone della rivoluzione. Sono la Marsigliese e L’Internazionale a contendersi l’identità dei partecipanti alle manifestazioni di piazza e alle dimostrazioni pubbliche, dove le canzoni costituiscono un momento di mobilitazione e, al tempo stesso, di emotività collettiva. La Marsigliese prevale a febbraio anche se in numerose occasioni sarà una sua versione particolare – la Marsigliese operaia – a essere intonata dalle masse riunite.
La Marsigliese operaia, ci informa una nota del libro, intonava sulla musica dell’inno rivoluzionario francese (del 1796) un testo scritto nel 1875 da Pëtr Lavrov, uno dei leader del populismo. Si tratta di parole altrettanto sanguigne dell’originale (anche se il testo della Marsigliese, così come tutt’ora si canta nelle cerimonie ufficiali, e persino più violento e feroce): “Rigettiamo il vecchio mondo | Scuotiamoci dai piedi la sua cenere! | Non ci serve il vitello d’oro | L’odiato palazzo dello zar!” e così via, con il ritornello “Alzati, levati, popolo operaio! | Uomo affamato, vai contro il nemico! | Che riecheggi l’appello alla vendetta popolare! | Avanti! Avanti! Avanti! ecc.”
Insomma, sono tre le canzoni della rivoluzione del ’17, e le diverse fazioni se le contendono o rinfacciano a vicenda. Per i socialisti radicali la Marsigliese era la musica della rivoluzione borghese, e dunque le contrapponevano L’Internazionale, ma nei moti di febbraio è la versione russa dell’inno francese a prevalere. Solo in seguito, e tra alterne vicende, L’Internazionale comincerà ad avere la meglio, fino a che, nell’Ottobre, il Soviet non ne fa il proprio inno ufficiale. Subito i bolscevichi se ne appropriano (si tenga conto che il suo valore simbolico era tutto particolare, in quanto inno operaio) e obbligano a cantarlo ovunque. E allora i socialisti radicali gli contrappongono la Marsigliese operaia, e questo balletto continuerà a lungo. Incidentalmente, si tenga conto del fatto che il testo dell’Internazionale era stato scritto da Eugéne Pottier nel 1871 per celebrare la Comune di Parigi, e che fino a che, nel 1888, Pierre Degeyter non scriverà la musica che tutti conosciamo, i versi erano cantati sulla musica della Marsigliese. L’Internazionale (naturalmente nella sua traduzione russa) resterà l’inno nazionale dell’Unione Sovietica fino al 1941, quando fu sostituita e finì per essere adottata come inno del PCUS.
Nel 1917 il meccanismo fu lo stesso che si verificò per la bandiera rossa: l’appropriazione dei simboli, da parte di una o dell’altra delle fazioni rivoluzionarie, acquisiva un’importanza strategica. Nessuno voleva rinunciare a un motivo particolarmente felice e significativo, anche se proprio le alterne vicende dimostrano che, in realtà, esso non apparteneva a nessuno. Era una gara ad accaparrarsi un frammento di emotività, disputata con il massimo possibile della freddezza.
29 Dicembre 2007 § § permalink
Oceana è il penultimo dei Cantos ceremoniales di Pablo Neruda, una lunga lirica ricca di simboli e di metafore erotiche, forse la più appassionata della raccolta pubblicata a Buenos Aires nel 1961 (in italiano si può leggere nella traduzione di Giuseppe Bellina, edita da Passigli nel 2005). Passaggi oscuri e intrisi della personale epica di Neruda vi si alternano a versi di splendida luminosità. Una lunga invocazione, rivolta indirettamente all’amatissima Matilde, in cui la donna viene paragonata a una divinità marina, all’oceano stesso, al suo totalizzante e violento potere sul cuore del poeta.
Tengo hambre de no ser sino piedra marina,
estatua, lava, terca torre de monumento
donde se estrellan olas ya desaparecidas,
mares que fallecieron con cántico y viajero.
(Ho fame di non essere che pietra marina, | statua, lava, torre ostinata di monumento | dove s’infrangono onde ormai scomparse, | mari che morirono con cantico e viaggiatore.)
La commissione a Osvaldo Golijov, datata 1996, si deve a quello stesso Helmuth Rilling che quattro anni dopo lo spingerà a scrivere la Pasión Según San Marcos, che otterrà un’autentica ovazione alla prima di Stoccarda, e che nel marzo del 2008 potrà essere ascoltata a Ferrara. Golijov – nato nel 1960 in Argentina da una famiglia di origine askenazita (proveniente da Romania e Ucraina) – è nel frattempo diventato uno dei più popolari compositori della scena americana. La Deutsche Grammophon ha inciso tre dischi di sue composizioni (e non nella collana di contemporanea!), la sua ultima opera, Ainadamar ha vinto due Grammy, ha scritto le musiche per l’ultimo film di Coppola Un’altra giovinezza [Youth Without Youth] e mille altre cose. Le tappe che contraddistinguono il cursus honorum di un compositore di successo negli Stati Uniti, ma che non sempre spianano la strada al riconoscimento in Europa.
Oceana è una sorprendente composizione, che mescola in un particolare e per molti versi astuto sincretismo elementi barocchi, neoclassici, stilemi della musica pop e di diverse tradizioni popolari. Golijov prende 4 frammenti dalle 11 stanze del testo di Neruda, li organizza in tre “ondate” corali, un’aria solistica e un Corale finale, inframmezzandoli con due “richiami” virtuosistici per la voce sola della splendida cantante world argentina Luciana Souza e un gruppo di chitarre e arpa. Le prime tre parti corali possono ricordare, nel loro impeto travolgente, la Turba della Passione secondo San Matteo di Bach (verosimilmente in omaggio a Rilling e al contesto della commissione), a cui però si aggiunge un senso di tempestoso e ritmico riflusso, di immediato riferimento marino. Devo confessare che al primo ascolto questa molteplicità di segnali estetici divergenti lascia molto perplessi, e si fatica a capirne la cifra personale.
L’impaginazione del disco, del resto, non aiuta. Alla “cantata” Oceana segue un lavoro per quartetto d’archi in due movimenti, intitolato Tenebrae, interpretato dal Kronos Quartet, e la raccolta si chiude con i Three Songs per soprano e orchestra, cantati meravigliosamente da Dawn Upshaw. Se in Tenebrae, che dovrebbe in qualche modo ispirarsi alle meravigliose Leçons de Ténèbres di François Couperin, si ascoltano cadenze barocche alternate a passaggi quasi pop, dove l’ostinato si confonde con il riff, le tre liriche per soprano rimandano a mondi molto diversi: in Lúa descolorida, per esempio, si sente il fin troppo facile rimando all’aria che nella Rusalka di Dvořák la protagonista rivolge alla luna, ma altrove si sente Mahler (per esempio nella bella ninnananna Close Your Eyes), e via dicendo.
Se attraverso l’ascolto di questo disco si cercherà di capire se Golijov sia o meno quel grande compositore di cui spesso si sente parlare, la risposta non è né immediata né facile. Sicuramente possiede una grande abilità tecnica – ottimo, per esempio, è il suo uso delle voci, e non stupisce che trovi interpreti di così alto livello; è chiaramente molto bravo nel mescolare i linguaggi e nel moltiplicare i rimandi; non ha paura di abbandonarsi a momenti che rasentano il kitsch o il sentimental-pop; possiede un vocabolario poetico e creativo molto vasto. È una voce originale? Sicuramente sì: per esempio riferimento simultaneo kletzmer e latino-americano, giustificato dalla storia familiare di emigrazione, è dotato di un discreto fascino e conduce a sonorità interessanti e in qualche modo inattese. Se tutto questo basti o no a farne una voce importante della musica d’oggi, è giusto che ognuno lo decida da sé. Personalmente nutro qualche dubbio, ma sono più che disposto a modificare questa opinione, in futuro.
Nella foto, Osvaldo Golijov; © Sara Evans, 2002.
O. Golijov, First Wave: “Oceana nuptial, cadera de las islas” (Ocèana nuziale, fianchi delle isole), Atlanta Symphony Orchestra and Chorus, dir. Robert Spano (reg. 2004)
oceana_firstwave
19 Dicembre 2007 § § permalink
Quali sono stati i libri di argomento musicale più importanti del 2007? I giornali di tutto il mondo non lasciano molti dubbi, e mettono al primo posto, con una rassegna stampa imponente, The Rest is Noise, di Alex Ross. Uscito lo scorso ottobre negli Stati Uniti per Farrar, Straus and Giroux, il libro, che riporta il sottotitolo Listening to the Twentieth Century, è una bellissima storia della musica del Novecento condotta con taglio narrativo, piglio sicuro e grande capacità affabulatoria da un giovane critico newyorkese, che negli ultimi dieci anni si è segnalato come uno dei più sensibili cronisti e intenditori del rapporto tra musica e linguaggi contemporanei. Ross scrive sul New Yorker, una delle migliori riviste dell’intelligentsija americana, ma è anche più conosciuto, al di là di ogni confine geografico, per il suo influente blog che porta lo stesso titolo del libro. Lì ha cominciato, da ormai moltissimi mesi, ad annunciare il suo volume; da lì ha diffuso le sue recensioni, segnalazioni e analisi in tutto il mondo. Circa 600 pagine, suddivise in tre parti per quindici capitoli complessivi, su questo libro, che in italiano sarà pubblicato da Bompiani, torneremo presto. Basti dire che, anche senza prestare acriticamente fede alle tante recensioni encomiastiche che ha ricevuto, si caratterizza fin dalla prima, rapsodica lettura per la forza con cui tira le fila di un secolo di musica e lo immerge in una visione storica fatta di equilibrate sicurezze.
Accanto al libro di Ross, fra i più segnalati da tutti i giornali c’è il nuovo studio di Oliver Sacks, dedicato al rapporto tra musica e cervello umano: Musicophilia: Tales of Music and the Brain, pubblicato da Knopf, imprint del gigante Random Hause. Un altro bellissimo libro, di argomento molto vicino, è quello di Daniel Livitin: This is Your Brain in Music: Understanding a Human Obsession, pubblicato da Atlantic. Questi ultimi due testi sembrerebbero far pensare a un ritorno di interesse su un tema da molti anni trascurato dalla musicologia, e cioè quello della fisiologia e della neurologia dell’ascolto. Ma il fatto che vengano pubblicati da editori non specializzati in musica, e siano stati recensiti da giornali generalmente disattenti alla materia dispone ad altre riflessioni.
Si tratta davvero dei tre libri più importanti dell’anno? Molto probabilmente no, se li si analizza da un punto di vista strettamente musicologico. Ma ciò che più preme far notare è che si tratta di tre libri che hanno la forza di riportare la musica al centro del dibattito storico e scientifico, facendola uscire dalla nicchia dei musicofili e dei musicologi. E non è poco, se si pensa agli effetti che questo spesso superbo isolamento sta causando alla più ardua e necessaria tra le espressioni della creatività umana. Torneremo al più presto su ognuno di essi.
11 Dicembre 2007 § § permalink
Dunque la New York Philharmonic terrà un concerto a Pyongyang. Dopo lunghe trattative, la dirigenza dell’orchestra ha reso ufficiale che il governo coreano ha accettato tutte le condizioni; la data dovrebbe essere il 26 febbraio 2008. Zarin Mehta, il presidente dell’orchestra, non ha voluto rivelare molti particolari ai giornalisti, rimandando alla conferenza stampa ufficiale; però ha spiegato quali fossero le principali condizioni poste dall’orchestra al governo coreano: alcune sono comprensibili, altre encomiabili, ma una, in particolare, lascia interdetti.
La prima e più ovvia delle condizioni è quella che riguarda la sicurezza degli orchestrali, e in particolare di quelli di origine coreana. E qui siamo d’accordo. Altre condizioni riguardano aspetti vicini al diritto d’informazione: la presenza di giornalisti locali e stranieri, e la trasmissione in diretta del concerto sulle emittenti nazionali, per evitare di far diventare la serata una passerella per il regime. Encomiabile. Altre condizioni riguardavano gli aspetti pratici e organizzativi: l’impegno a migliorare l’acustica della sala (l’East Pyongyang Grand Theater), la delicatissima questione del trasporto degli strumenti e così via. Ma la richiesta che spicca è quella che riguarda la possibilità, da parte dell’orchestra, di aprire il concerto con l’inno nazionale americano, “The Star-Spangled Banner”.
Che il concerto sia una questione più diplomatica che artistica è sicuro. Come informano tutti i giornali americani, la trattativa è stata seguita con interesse dal Dipartimento di Stato, e commentata molto positivamente alla luce delle recenti aperture di Bush nei confronti del governo di Kim-Jong-il (finora inchiodato saldamente all’asse del male). I paragoni si sprecano: i concerti della Boston Symphony in Unione Sovietica nel 1956, seguiti nel ’59 da quelli della stessa NYP, diretta da Bernstein. O nel 1973, subito dopo la visita di Nixon in Cina, i concerti a Pechino della Philadelphia Orchestra. La capacità della musica di varcare le frontiere e di abbattere le barriere fra i popoli è uno dei luoghi comuni più ricorrenti nel jet-set musicale mondiale. Non certo falso, come tutti i luoghi comuni; solo, diciamo così, facilmente incline all’ipocrisia.
Bernstein era ben conscio del portato politico di un concerto di una delle grandi orchestre americane nel cuore della dittatura sovietica; sicuramente nella NYP c’erano più rifugiati russi (o loro affini) di quanti ce ne siano oggi di coreani. Parlava di Šostakovič nelle conferenze stampa, lo eseguiva, inseriva l’opera di un compositore americano in ogni concerto. Era uno scambio, un segnale, bello e importante. I concerti si aprivano con l’orchestra che intonava l’inno sovietico; il pubblico si alzava in piedi, e ci rimaneva durante l’inno americano. Uno scambio, appunto. Furono molti i commentatori che, anche allora, parlarono di sostegno alla dittatura, di legittimazione eccetera. Eppure non furono necessari particolari sovrattoni patriottici.
Oggi la condizione di aprire il concerto con “The Star-Spangled Banner” sembra quasi uno schiaffo. Perché questa richiesta, se davvero si ritiene che la musica abbia la forza di superare i conflitti e le lacerazioni della politica. Ma davvero, poi, lo si ritiene?
AGGIUNTA DEL 7 MARZO 2008
In realtà Maazel ha diretto “The Star-Spangled Banner” dopo l’inno nordcoreano. In compenso il programma scelto per la serata aveva un aspetto curiosamente elementare nella sua programmaticità, con la Sinfonia “dal Nuovo Mondo” di Dvorák e Un americano a Parigi di Gershwin. Un buon resoconto del concerto, con le sue luci e le sue ombre, può essere letto in questo articolo dell’Economist.
6 Dicembre 2007 § § permalink
Per il suo debutto con la New York Philharmonic, Gustavo Dudamel ha ricevuto dalle mani di Barbara Haws, storica e conservatrice dell’orchestra, una delle tre preziosissime bacchette utilizzate da Leonard Bernstein. Questo per capire quale assurda aspettativa si sia creata intorno al giovane direttore venezuelano. La bacchetta del mago; una cosa più alla Harry Potter che alla Dukas. Dudamel l’ha usata per tutte e quattro le serate alla Avery Fisher Hall; in programma, la “Sinfonia India” di Chávez (pezzo eseguito con la NYP da Bernstein nel 1961), il Concerto per violino di Dvorák con Gil Shaham e la Quinta di Prokof’ev. Il «New York Times» ci avverte che alla quarta sera, martedì scorso, poco prima della fine, la bacchetta di Bernstein s’è rotta. Niente di personale, si dice.
29 Novembre 2007 § § permalink
Lorraine Hunt è stata una splendida mezzosoprano, amata dal pubblico della musica barocca per le sue tante interpretazioni di Händel e Monteverdi con Christie, McGegan, Jacobs e altri; nel 1999 aveva sposato il compositore Peter Lieberson, cominciando a dedicarsi anche alla musica contemporanea e dando voce a molti compositori delle ultime generazioni. La ricorda ora un disco molto bello, che raccoglie cinque sonetti di Pablo Neruda tratti dai Cien sonetos de amor (1959), musicati e a lei dedicati da Lieberson. Lo stile è decisamente eclettico, con brevi puntate nella popular e un solido vocabolario post e neoromantico; ma la caratteristica che più colpisce di questi cinque brani, al di là di qualsiasi considerazione stilistica, è la profonda sensualità da cui sono pervasi. Trascinato dai testi di Neruda, Lieberson costruisce una meditazione su amore e morte, sulla gioia attonita del possesso e sulla paura della perdita. I Neruda Songs sono il risultato di una commissione della Los Angeles Philarmonic, e sono stati registrati da James Levine con la Boston Symphony Orchestra nel 2005, dal vivo. Meno di un anno dopo Lorraine Hunt Lieberson, come volle firmarsi dopo il matrimonio, è scomparsa per le complicanze di un cancro al seno. Al momento della registrazione lottava da tempo contro la malattia, eppure non c’è ombra di esagerazione o affettazione dolorosa nel suo canto: pensoso e appassionato, lo si direbbe invece. Anche quando il testo si fa fortemente drammatico, rimane quel distacco che i versi neobarocchi di Neruda consentono; versi bellissimi, come questi del sonetto XCII, intitolato Amor mío, si muero y tú no mueres (Amore mio, se io muoio e tu non muori):
Pero este amor, amor, no ha terminado,
y así como no tuvo nacimiento
no tiene muerte, es como un largo río,
sólo cambia de tierras y de labios.
(Però questo amore, amore, non è finito: | e così come non ha avuto nascita | non conosce la morte e, come un lungo fiume, | cambia solo di terra e di labbra).
Nella foto, Lorraine Hunt Lieberson fotografata nel 2003 da Richard Avendon (per il «New Yorker»).
P. Lieberson, Ya eres mia. Reposa con tu sueño en mi sueño (Ormai sei mia. Riposa col tuo sonno nel mio sonno), ms. L.H. Lieberson, Boston Symphony Orchestra, dir. James Levine (2005)
ya_eres_mia
26 Novembre 2007 § § permalink
È molto difficile interrogarsi sul significato che la musica può avere per la vita di un uomo quando una tappezzeria sonora riveste interamente le nostre giornate; così come appare sempre più raro riuscire a coltivare quel particolare silenzio interiore che l’ascolto richiede; capita di arrivare trafelati al concerto di un grande artista, e aspettare invano che il turbine della sua grande ala ci sfiori. Assuefatti e rintronati dall’onnipresenza della musica. Ma ascoltare il racconto di chi ha vissuto l’esperienza musicale al limite dell’esperienza umana fa tornare in mente alcuni valori fondamentali, sopiti da quella che potrebbe essere definita “sovrastimolazione estetica”. Musica Concentrationaria è uno strano documentario, nato come parte di un ambiziosissimo progetto condotto dal musicista pugliese Francesco Lotoro: raccogliere tutta la documentazione relativa alla musica composta in prigionia lungo l’intero arco del Ventesimo Secolo, sotto ogni latitudine, e registrarla poi in una sontuosa collana di dischi (24 cd, per la Musikstrasse). In questo DVD sono raccolte una ventina di interviste a sopravvissuti ai campi di prigionia o di concentramento europei, o a loro parenti stretti, e viene documentata la terribile situazione di chi vede dipendere la propria sopravvivenza materiale o anche solo spirituale dall’emozione o dal mestiere del fare musica. Chi ha fatto musica per provare un estremo barlume di libertà o di comunità spirituale, per superare la solitudine e la disperazione di una detenzione inumana e selvaggia, di una condanna a un lavoro stremante e senza speranza; o chi ha dovuto fare musica per allietare i propri aguzzini. Fra questi due poli, l’enorme varietà di esperienze che la musica rende possibili anche “al di fuori” della civiltà da cui si vorrebbe creata. Il DVD ha una regia piuttosto sommaria, fatta con un materiale di base costituito da pochi piani sequenza e tante interviste a camera quasi fissa; eppure, qua e là, momenti di grande emozione. E poi quei visi. I visi di chi ha visto; di chi vorrebbe che non fosse scordato, di chi ha passato un’intera vita a elaborare, e vorrebbe aiutarci a non dovere un giorno ripartire da zero. Prima e ultima testimonianza, quella della grande clavicembalista ceca Zuzana Ruzickova, deportata nel 1941 nel cosiddetto “ghetto di Terezín” (Teresienstadt). Sullo sfondo, la storia incredibile di alcuni grandi compositori che continuarono a fare musica, spesso con straordinario impegno e con importanti risultati, anche quando per loro tutto era perduto, quando persino la fiducia nell’essere umano non poteva che essere svanita: Viktor Ullmann, Hans Krása, Pavel Haas, Gideon Klein, e tanti altri minori, fino ai minimi, a coloro che sapevano solo cantare una canzone, e magari lo facevano in cambio di tre minuti di sospensione del lavoro. Da non dimenticare. Assolutamente, per il bene di tutti.
16 Novembre 2007 § § permalink
A diciassette anni dalla sua scomparsa, Lenny Bernstein non finisce di rappresentare una gallina dalle uova d’oro per l’industria discografica e una fonte di scoperte e piaceri per gli appassionati di musica. La diffusione del DVD ha fatto sì che le sue centinaia (o migliaia?) di ore di registrazione video possano uscire poco alla volta, continuando a riservare delle sorprese al grande pubblico. L’ultima serie di DVD pubblicata dalla Deutsche Grammophon comprende, per esempio, una bella integrale delle Sinfonie di Brahms, un documentario sulla vita di Bernstein e questo curioso “saggio” video: The Little Drummer Boy: an Essay on Gustav Mahler. Girato nel 1984 a più riprese e in diversi luoghi, è una lunga lezione di Bernstein sulla componente ebraica nella musica e nella vita interiore di Mahler. Una lettura spesso a senso unico, colma di una commovente identificazione del direttore con il suo compositore più amato, ricca di evidenti forzature ma anche di passaggi straordinari. Bernstein comincia a parlare di Mahler seduto al pianoforte in un caldo pomeriggio di maggio a Tel-Aviv; camicia completamente sbottonata su un torso sudato, aria da chi ha appena posato il bicchiere di whisky sul coperchio dello strumento. Ma poco dopo lo studio si trasferisce a Londra, in tutt’altro clima, e Lenny ora porta la stessa camicia, ma con sotto un dolcevita nero. Il piccolo tamburino del titolo e quello del Lied del Knaben Wunderhorn; il soldato-bambino che marcia verso la forca, disprezzato dai commilitoni per un’inesplicata colpa. E la colpa diventa subito la chiave per capire il dolore radicato nella musica di Mahler; la colpa di essere ebrei, la colpa di sentire tale condizione come una colpa; la colpa della conversione. Pieno di bellissima musica, il video si guarda e si ascolta come un saggio di Bernstein su se stesso, sul suo rapporto con la musica, con le radici ebraiche, con la colpa dell’assimilazione (e Candide fa continuamente capolino) esattamente come un saggio su Mahler. Un’ambiguità radicata nel modo di fare musica di un artista indimenticabile.
6 Novembre 2007 § § permalink
Devo ammettere la mia passione per i documentari. Quando il regista è una persona sensibile e intelligente, raramente li si guarda senza provare delle emozioni paragonabili a quelle che si provano con un buon film. Questo su Henze, parte di una riuscita collana di Arthaus Musik intitolata Composers of our time, mi è sembrato particolarmente bello. Henze si lascia intervistare parlando spesso per metafore, cercando parole che talvolta si ha l’impressione che non abbia più grande interesse a trovare, con quell’atteggiamento un po’ ludico e un po’ acido che spesso i compositori hanno dopo una certa età, quando non hanno più voglia di battaglie e polemiche ma si tolgono comunque qualche soddisfazione. La responsabilità più forte del compositore, dice a un certo punto, è quella di “costringere a essere creativi”; questa frase già da sola renderebbe, a mio avviso, preziosa la visione.
Il film, prodotto nel 2001 in occasione dei suoi 75 anni, è in buona parte girato nella sua splendida villa di Marino; così ordinata, ‘leccata’ verrebbe da dire, con il suo giardino in cui la natura non sembra avere più niente di misterioso, in cui tutto è così straordinariamente country, così intimamente borgese che quando gli si sente dire che nella sua vita molto è stato collegato all’“incertezza” verrebbe da non credergli. Ma sotto, per tutto il tempo, trascorre la sua musica, con una scelta oculatissima dei frammenti, in qualche caso davvero toccante. Come quando si parla dell’incontro con la Bachmann (o meglio, ancora una volta vi si allude), e per qualche decina di secondi si ascolta il primo Notturno di Nachtstücke und Arien, incredibilmente bello e misterioso. Allora anche l’idea dell’incertezza si chiarifica, e ogni stabilità si rende comprensibile come pacificazione a posteriori. In due brevi testimonianze appare anche Fausto Moroni, il compagno scomparso pochi mesi fa; anche in questo caso, una vaga sensazione di benessere familiare quasi borghese; ma ancora una volta è un’impressione che svanisce in una nebuloso senso di drammatica instabilità quotidiana.
Nel dvd compaiono Simon Rattle, Ingo Metzmacher, Oliver Knussen e molti altri, si ascolta splendida musica ed è compresa anche un’esecuzione integrale del Requiem (1990−93). Ma soprattutto si pensa alla musica, al suo passato e al suo presente; e non è poco.