18 Settembre 2015 § § permalink
Al Metropolitan va in scena una nuova produzione di Otello con il tenore lettone Aleksandrs Antonenko nel ruolo del Moro di Venez… no, mi correggo, scusate, nel ruolo del gelosissimo generale veneziano e lasciamo stare il resto perché non si sa bene come metterla questa cosa qui, e come la dici la sbagli. Lo testimonia questa lenzuolata di articolo del New York Times e l’interminabile scia elettonica che si porta dietro.
Insomma, per la prima volta sulle scene della Metropolitan Opera, a Otello non verrà applicato il cerone “Otello brown”. La discussione nel mondo anglosassone va avanti da molto tempo e sulle scene di prosa ormai da anni il personaggio non viene più “blackened” – così come non si usa più l’ “Indian red” o il “Chinese yellow”.
Qualche giorno fa un dirigente teatrale mi raccontava della sua sorpresa quando scoprì che il tenore argentino José Cura, visitato in camerino pochi minuti prima del suo debutto nel micidiale ruolo di Otello (mai cantato per intero neppure alle prove), fosse soprattutto preoccupato dall’omogeneità del cerone nero, a suo avviso fondamentale per la credibilità del personaggio. E vengono in mente i tragicomici impasti multicolori sui volti sudati di mille tenori al momento degli applausi. Lo spavento di incontrare per i corridoi del retropalco i ballerini seminudi “anneriti” per le danze dell’Aida o di tante altre opere, o i fosforescenti ceroni gialli degli aiutanti del boia Pu Tin Pao che fumano una sigaretta appoggiati alla porta dell’ingresso artisti, in mezzo ai passanti di tutti i colori veri.
Vale la pena di rimpiangere? Forse no. Che i modi della rappresentazione riflettano le mode culturali e il dibattito politico è più che naturale, in fondo. È solo un pezzetto dello scontro fra chi vuole lo spettacolo come fonte di riflessione, e chi lo desidera simile a una bolla rassicurante nella quale riposarsi dal confronto con la contemporaneità – un po’ come i bambini vogliono le favole sempre uguali. Penso che una buona parte degli spettatori oscillino fra un estremo e l’altro, anche perché si può fare pessima riflessione sul presente e pessima ripetizione del passato.
È probabile però che sul cambio di gusto nel trucco e parruco teatrale, più che la correttezza politica poté la tecnologia: le rappresentazioni vanno in streaming nei cinema, sono riprese in dvd e in televisione, e la telecamera indaga da vicino le espressioni. Quegli occhi da orco che venivano disegnati sui volti dei cantanti, quei colori inverosimili da clown triste che ti facevano urlare di paura e poi scoppiare a ridere se incontrati d’improvviso al bar di fronte al teatro, erano nati per essere visti da lontano. Oggi il trucco dev’essere come gli occhiali multifocali, buoni per tutte le distanze di lettura (ma se non sei abituato cadi dalle scale e ti fai malissimo). E tutto deve essere verosimile (ma solo nel campo dell’immagine perché quell’uomo, truccato o meno, santo cielo, sta cantando invece di parlare!).
E poi tutto si veste di blabla politico, storico, culturale eccetera e uno non ci si raccappezza più. Basta leggere le centinaia di commenti al lungo articolo nel NYTimes. Ci sono perle di gallettismo elettronico come “E far cantare Otello a un nero, no?”. Come se piazzare un decente “Esultate!” fosse una questione di colore della pelle. Eppure, mi si dice, il razzismo nei teatri d’opera esiste eccome! Probabilmente è vero. In ogni caso non so se valga la pena di piangere la (momentanea?) scomparsa dei ceroni colorati. Si può invece spero impunemente notare come ogni scelta, oggi, persino in quella meravigliosa macchina o capsula del tempo che è il teatro d’opera, sia spaventosamente complicata. E come tutto ciò che diventa troppo difficile si avvicini pericolosamente al comico. Finché al mondo ci saranno persone complicate, ci sarà materia per la commedia. Provate a semplificare, e zac! subito scatta la tragedia.
30 Marzo 2012 § § permalink
Alban Berg — Ludwig van Beethoven, Concerti per violino e orchestra, Isabelle Faust, Claudio Abbado, Orchestra Mozart. Harmonia Mundi
Il più bello dei concerti di Beethoven e il concerto più attonito e siderale del Novecento. Sullo stesso disco. Come non esserne incuriositi? In genere un artista che voglia dire la sua sul concerto per violino di Beethoven (o su quello di Berg) lo incide con tutte le cure che può, e poi lo circonda con qualche brano più o meno originale, ma scelto per non rubare la scena al pezzo forte. Per accompagnare quello di Beethoven una volta andavano fortissimo le due Romanze, e devo dire onestamente che non mi è mai sembrata una grande idea; oggi si cercano accostamenti meno tono-su-tono, perché c’è tono e tono. Ma Berg e Beethoven? Non che non abbiano nulla in comune, ma mostrare il filo che li lega richiede un gran lavoro di pensiero e di stile, e poi con un programma così per più di un’ora non si tocca mai terra. Insomma, la cosa rivela una certa ambizione.
Confesso di non essere riuscito a seguire il percorso suggerito, e ho cominciato ad ascoltare il secondo pezzo: Beethoven, subito; “qui si parrà la tua nobilitate”. Isabelle Faust non è certo David Oistrach. Il suo ingresso dopo il meraviglioso e cullante tema, con quegli arpeggi esili, intonatissimi ed eleganti, è un ingresso a piedi scalzi. Com’è lontana l’ampiezza, la risonanza con cui i violinisti della generazione di Oistrach si facevano largo tra l’orchestra: la loro era un’affermazione di spessore, di profondità. Quella che mette in scena Isabelle Faust non è una battaglia, lei non si prende sulle spalle le tragedie del mondo. Ma appena ci si abitua a questa presenza più delicata, dialogante, femminile verrebbe da dire, ciò che colpisce è il fraseggio. Un’eleganza, una cura per la linea melodica che ti conquista, ti spinge a cercare quel suono che a volte rasenta l’inudibile. E qui Abbado l’aiuta meravigliosamente: io dei pianissimo così non ricordo di averli mai sentiti nel conerto di Beethoven. E non solo nel Larghetto: anche nel primo movimento. E quella cadenza bella e un po’ sconcertante, in dialogo con i timpani? E gli arpeggi sulle fermate? In nessun momento pensi di essere di fronte alla più bella interpretazione del concerto, ma neppure per un momento riesci a distrarti da questo bellissimo suono dell’orchestra e del solista, dal tutt’uno che sembra troppo intelligente per essere stato davvero pensato. Solo il Rondò rivela un po’ la trama di questa stoffa meravigliosa: Abbado è bravissimo nel mantenere il suono leggero, compatto e fresco nei movimenti veloci, ma sembra non volersi mai abbandonare all’estasi dionisiaca della danza, e il Rondò di questo concerto a volte mi sembra averne bisogno. Tuttavia, in questo rifiuto dell’abbandono sono perfettamente in linea, il direttore e la solista. L’effetto non è quello della freddezza, quanto quello della stilizzazione. Il meraviglioso dialogo col fagotto, per dire, scorre via senza stupore, ma è toccante lo stesso: è tutto così bello che non c’è bisogno di fermarsi, sembra dire.
Ma dopo un’emozione estetica tanto aerea, c’è ancora spazio per il concerto di Berg, anche lui così lontano dalla creta dell’esistenza, così concentrato sul sublime e l’ultraterreno? Forse era meglio seguire la strada indicata dal disco. E invece no. Un altro ingresso in pianissimo, composto e sereno nella sua fragilità, e di nuovo non si smette di fissare quella linea che si snoda nella complicata geografia che l’orchestra gli disegna intorno. È la memoria di un angelo, proprio come dice il titolo. Il suono dell’insieme a volte è così bello e compatto che si lascia scomparire il violino come si farebbe guardando un treno che entra in una galleria, sicuri di ritrovarlo puntuale dall’altro lato, esattamente nel momento che pensavamo. Quando il corale ci dice Es ist genug, è abbastanza, sono pronto, proprio nel momento in cui pensi che eleganza, però non è commovente, scopri che ti ha toccato di nuovo in profondità, perché l’eleganza sa colpirti come un pugno, solo che non lo senti arrivare.
Io non so dire se questa o quella è la migliore interpretazione di questo o quello, e non sono portato a fare classifiche che ambiscano a varcare la soglia di casa; però quando qualcosa non ti lascia come ti ha trovato, quella cosa sta facendo il lavoro che una volta era affidato alla bellezza.
19 Gennaio 2012 § § permalink
Gustav Leonhardt se n’è andato lunedì scorso. Chi vedendo copertine come questa prova qualche emozione, sa bene chi e che cosa scompare con lui:
20 Luglio 2011 § § permalink
Da alcune settimane, l’esclusivo parterre dei critici musicali italiani si è arricchito di un nuovo arrivo. Lo spazio è quello della pagina dedicata alla musica dall’inserto domenicale del “Sole 24ore”, che già ospita gli storici articoli di un colto e monumentale reazionario come Quirino Principe e le dotte lezioni-recensioni di Carla Moreni (sulle quali Fierrabras aveva già espresso qualche riserva alcuni anni fa). La firma fa pensare alle scorrerie dei pirati o, in alternativa, ai calendari da cucina e agli oroscopi: Barbanera, niente di meno.
Questa firma che si suppone corsara è comparsa la prima volta il 3 luglio scorso sotto una piuttosto sgangherata stroncatura di un doppio cd contenente gli Studi brillanti op. 740 di Czerny e gli Studi trascendentali di Liszt eseguiti da Fred Oldenburg: il commento era da antologia della “non critica” italiana: “Il confronto con Liszt è perdente in partenza sotto tutti i punti di vista e poi nessun allievo potrebbe aspirare di arrivare [sic!] a un livello esecutivo simile (per gli studi di Czerny). Come dare un automobile a pedali a un pilota di formula uno”. Come se si trattasse di una gara fra Czerny e Liszt; non una parola su chi suona e come lo fa.
La domenica successiva però Barbanera torna all’arrembaggio, e anche questa volta lo fa scegliendo un tema non esattamente di ‘avanguardia’. L’articolo è un pavido rimbrotto al fantasma di Herbert von Karajan, in occasione del riversamento in cd dei Concerti Brandeburghesi da lui incisi con i Berliner 47 anni fa (!); se il soggetto è già quasi archeologia, l’argomentazione dell’articolo non potrebbe essere più muffosa, e raggiunge il suo apice di apnea intellettuale quando, in riferimento alla grande corrente di riscoperta della ‘musica antica’, scrive: “Doveroso precisare che, a nostro parere, dopo anni di ricerca e affinamento, si è arrivati a un ottimo compromesso che consente di apprezzare della musica piacevole e ben scritta, come in fondo è la musica barocca.” Musica piacevole e ben scritta: ma dove, mi chiedo, nell’intero mondo della stampa quotidiana, si potrebbero leggere parole come queste, se non in un giornale locale della provincia più profonda, che magari affida una rubrica di musica al parroco che un po’ di musica l’ha masticata in seminario, o al professore di pianoforte del locale conservatorio?
Terza puntata, il 17 luglio, e terzo brivido: una specie di stroncatura di un’incisione di tre concerti per pianoforte di Mozart eseguiti al fortepiano da Ronald Brautigam, con la Kölner Akademie. Qui le argomentazioni non sono più solo muffose, sono decrepite e squinternate. » Read the rest of this entry «
9 Dicembre 2009 § § permalink
Fra le molte cose di cui avrei voluto scrivere in queste settimane di lontananza da Fierrabras, almeno le impressioni provenienti dall’ascolto di un disco vorrei non tralasciarle. Si tratta dell’incisione dei 24 capricci per violino solo di Niccolò Paganini fatta da Thomas Zehetmair per la ECM.
Di incisioni dei Capricci ne ho sentite tante, ma devo dire che questa è davvero particolare. Zehetmair possiede una tecnica che lascia senza fiato, ma non è questo ciò che più colpisce. Il suo è un Paganini violento, secco, più fantastico che elegante; i suoni sembrano tutti inclinare verso lo strappato, verso gesti di forza al tallone più che delicate volate alla punta dell’arco. Il suono è quasi sempre aspro di colofonia – la pece che tiene aderenti i crini dell’archetto alla corda – e poco propenso a perdersi nel cantabile. Per intendersi, all’opposto della diabolica eleganza di Salvatore Accardo o di Mintz.
Dove la cosa si fa più evidente è nei primi 12 Capricci, quelli a mio avviso più sperimentali e artisticamente ricercati; all’ascolto ho sempre avuto il dubbio che la seconda parte della raccolta, fatta esclusione per il Tema con variazioni del Capriccio 24, non appartenga alla stessa linea creativa – la datazione della raccolta, pubblicata nel 1820, è attribuita a un lasso di tempo che va dal 1805 agl’anni 1817–18 – ma non ho mai trovato conferme al sospetto. Non sono né meno belli né più facili, ma la forma è diversa, più regolare nella contrapposizione cantabile-presto e da capo del cantabile. Così come nella precedente incisione (Teldec), Zehetmair fiorisce e varia tutti i da capo, dimostrando una grande capacità creativa e mimetica, nell’equilibrio tra rispetto del testo e invenzione. Ma le modifiche e le fioriture sono presenti anche nei primi 12, qua e là; mai una battuta di più o di meno, ma più di una licenza ben nascosta – le aggiunte per esempio dei suoni armonici, creativamente presenti nei concerti ma non inseriti dall’autore nei Capricci. » Read the rest of this entry «
15 Luglio 2009 § § permalink
Mentre alcuni nuovi pezzi di Fierrebras non vogliono proprio scriversi da soli, ci sono mille notizie dal mondo della musica che mi piacerebbe condividere. Notizie che riflettono quanto esso sia complesso, articolato e un poco pazzo. Eccone tre di ieri.
La prima è una bella inchiesta del New Music Box, il sito internet dell’American Music Center, dedicata alla buona salute di cui godono – in un mercato discografico sconvolto dalla crisi economica e di idee – le etichette indipendenti specializzate nella produzione e distribuzione di musica contemporanea. Il loro modello di business non è certo quello delle major (i compositori o gli sponsor normalmente pagano la produzione del disco) ma il loro insostituibile compito è ricambiato da un successo che sta assumendo le dimensioni di un boom. Contro qualsiasi fosca previsione.
La seconda e la terza sono collegate. Un articolo del Times ci racconta del primo sciopero proclamato dai lavoratori del Festival di Bayreuth. Si tratta di 60 macchinisti e di un centinaio di lavoratori a contratto che contestano la legalità dei contratti firmati dall’ex direttore del Festival, Wolfgang Wagner. E così, mentre si lavora per mandare in scena l’ennesimo, sontuoso Tristan und Isolde, davanti alla consueta platea luccicante di uomini politici, magnati della finanza e alta borghesia internazionale, scopriamo che la paga oraria di un macchinista, di un elettricista o di un attrezzista impegnati sul palcoscenico è di circa 4 euro. Contemporaneamente, un articolo pubblicato sul sito di Bloomberg ci informa del fatto che Peter Gelb ha guadagnato nel 2008 circa 1,5 milioni di dollari con il suo lavoro di General Manager alla Metropolitan Opera di New York, con un incremento rispetto all’anno precedente del 36%. Che cosa c’entra? Boh, ognuno si faccia il suo parere.
25 Giugno 2009 § § permalink
Fare un film su una composizione musicale è un compito difficile e pericoloso per un regista; farlo non avendo alcuna intenzione di illustrare, ma con il coraggio di aggiungere una sceneggiatura e una drammaturgia alla musica ed eventualmente al testo cantato, è un caso più unico che raro. Lascia dunque abbastanza stupiti scoprire la bellezza di un film come War Requiem di Derek Jarman, e accorgersi di quanto poco sia stata considerata questa pellicola fuori dalla Gran Bretagna, da parte sia degli appassionati di cinema sia da quelli di musica. Eppure non si tratta di un’opera minore; anzi, qualcuno sostiene che si tratti del suo massimo capolavoro.
Girato da Jarman e prodotto da Don Boyd nel 1989, War Requiem è una grandiosa lettura visuale e drammatica della composizione che Benjamin Britten scrisse nel 1961–62 per l’inaugurazione della cattedrale di Coventry restaurata dopo le bombe incendiarie sganciate dalla Luftwaffe nel 1940. Fatta eccezione per un lungo piano sequenza iniziale, la sua storia si dispiega sulla incomparabile incisione che Britten stesso ne fece, con l’amato Peter Pears, Dietrich Fisher-Dieskau e Galina Vishnevskaya nel 1963 (l’orchestra era la London Symphony); un tenore inglese, un baritono tedesco e una soprano russa, a rappresentare le tre grandi nazioni in guerra (anche se alla prima esecuzione, quella avvenuta nella nuova cattedrale di Coventry il 30 maggio del 1962, alla Vishnevskaya era stato impedito di partecipare dal ministro della cultura sovietico). Britten non era certo la persona più adatta né alle solenni celebrazioni di marca guerriera, né alle grandi architetture religiose, e come si sa ne ricavò una delle opere di più profonda e radicale denuncia nei confronti dell’assurdità e crudeltà della guerra che mai sia stata fatta attraverso la musica; una straordinaria riflessione sulla violenza, la morte, l’amore e la poesia che mi sembra non avere paragoni nell’intera storia della musica.
Al testo latino della messa di Requiem, con il quale da ateo non si sentiva presumibilmente a proprio agio, Britten scelse di inframmezzare alcune poesie del più straziante e lirico dei poeti-soldati della prima guerra mondiale, Wilfred Owen, morto al fronte in circostanze tragiche una settimana prima della firma dell’armistizio. Si tratta di poesie che appartengono al cuore della letteratura inglese sulla Grande Guerra, intrise di un senso della pietà e di non pacificato dolore che rappresentarono il più violento urlo contro l’assurdità bellica che la letteratura dell’epoca abbia creato: il famoso Anthem for Doomed Youth (Inno per la gioventù condannata), o The Parable of the Old Man and the Young (La parabola del vecchio e il giovane), aspro sovvertimento del sacrificio di Isacco, o ancora la straordinaria, incompleta Strange Meeting (Strano incontro), in cui è descritto un allucinato e commovente incontro con un soldato nemico, sono liriche che racchiudono il pensiero di Britten sulla guerra più di qualsiasi dichiarazione genericamente pacifista. » Read the rest of this entry «
26 Aprile 2009 § § permalink
Questa volta ce l’ha fatta. Dopo essere arrivato nella rosa dei finalisti nel 2003 (con Three Tales, mica con un pezzettino!), 2004 e 2005 quest’anno Reich ha vinto il Pulitzer per la musica con Double Sextet, un pezzo per dodici strumentisti o per sestetto e nastro magnetico che sicuramente presto potremo ascoltare su cd o dal vivo (informazioni sul sito di Boosey).
Il premio consiste in 10.000 dollari e tanta pubblicità, dovuta soprattutto al prestigio di un nome legato alle altre sezioni, quelle per il giornalismo e la letteratura. Ciò detto, osservare la lista dei finalisti e dei vincitori fa un certo effetto. Menotti l’ha vinto due volte, con The Saint of Bleecker Street e con le musiche di The Consul (più una terza con il bel libretto per la Vanessa di Barber); Copland l’ha vinto con Appalachian Spring (era il 1945; pochi anni dopo invece dei premi sarebbero arrivate le bastonate governative); Ives con la Terza Sinfonia; Carter due volte con gli incredibili Secondo e Terzo Quartetto; e poi Virgil Thompson, Walter Piston, Ned Rorem, Colgrass, Del Tredici, Sessions, Harbison, Corigliano, Lieberson (quattro volte in finale, l’ultima con i bellissimi Neruda Songs, ma mai vincitore); John Adams va in finale nel 1998 con i Century Rolls, ma vince nel 2004 con il grande On the Transmigration of Souls. E ancora: Stucky, Ornette Coleman, David Lang, Aaron Jay Kernis. Certo, ce n’è per tutti i gusti; c’è anche qualche assenza – una per tutte, quella oggi vistosissima di Bernstein (fino a non molti anni fa decisamente meno vistosa).
Ma la cosa che mi colpisce di più è questa: potrò sbagliarmi, ma la lista rappresenta bene i gusti musicali e la vita concertistica del tempo; non solo per la quantità di musica più o meno bella ma comunque eseguita (!) che comprende, ma anche per gli alti e bassi dei diversi stili e dei compositori che li rappresentano nel corso degli anni. Dico questo perché non riesco a vedere niente di simile in Italia. Nessun premio ha un prestigio paragonabile, e fra quelli che hanno una certa importanza se non altro per il contesto (penso per esempio alla Biennale Musica di Venezia e ai suoi due Leoni d’oro) l’assegnazione dei riconoscimenti segue palesemente delle strade tutte particolari. Ma se uno guarda al desolante momento dei premi e dei concorsi negli altri campi dell’arte e della cultura in Italia, poi si chiede perché la situazione dovrebbe essere diversa per la musica. E infatti non lo è. Peccato.
21 Dicembre 2008 § § permalink
Un altro caso che fa riflettere sul diritto di critica, e sulle regole connesse. Molti ricorderanno il nome di Gilbert Kaplan, l’ex giornalista e prodigio di Wall Street, che dopo aver fondato un giornale finanziario nel 1965 e averlo diretto per molti anni, riuscì a venderlo nel 1990 per 72 milioni di dollari, dedicandosi poi quasi a tempo pieno allo studio e alla direzione di un’unica composizione, la Seconda Sinfonia di Gustav Mahler. Il ritratto migliore l’ha fatto nel novembre scorso l’Economist. Kaplan aveva sentito per la prima volta nel 1965 la sinfonia diretta da Stokowski e ne era rimasto letteralmente fulminato; all’epoca non sapeva neppure leggere la musica, ma era già una personalità rilevante della finanza mondiale. Negli anni la sinfonia “Resurrezione” divenne per lui quasi un’ossessione: passa mesi tra lezioni private di musica e di direzione da musicisti come Bernstein, Solti e Slatkin per venirne a capo; nel 1982 affitta il Lincoln Center, paga un’intera orchestra (la American Symphony Orchestra) e dirige per la prima volta la sinfonia dei suoi sogni davanti a un pubblico di economisti giunti a New York per un importante convegno. Fin qui nulla di troppo strano; di facoltosi dilettanti è piena la storia, e Kaplan non è stato né il primo né l’ultimo a togliersi uno sfizio gigante come quello di dirigere un’orchestra pagandola. Ma la vicenda di questo strano e a modo suo geniale personaggio è andata ben oltre. Oggi non solo ha diretto più di 50 orchestre, fra cui tutte le migliori del mondo – Scala compresa, nel 1992 – ma ha inciso la Seconda di Mahler ben due volte, la prima con la London Symphony, la seconda per la Deutsche Gramophon con i Wiener Philharmoniker. E, come se non bastasse, il primo dei due dischi, inciso nel 1985 per la Conifer, ha venduto più di 180mila copie, superando di gran lunga qualsiasi altro direttore, da Bernstein ad Abbado.
Ma c’è di più. Nel 1992 compra da una biblioteca olandese la partitura autografa della sinfonia, e la pubblica in fac-simile. Colleziona le decine di partiture a stampa contenenti le annotazioni autografe di Mahler, pubblica una nuova edizione critica integrandone le informazioni più rilevanti, scrive numerosi saggi e articoli. Il mondo della musicologia è diviso, ma nessuna voce critica si fa sentire con particolare forza: Kaplan sembra essere persona troppo intelligente e influente per attirare vere antipatie. Fino a qualche giorno fa.
L’8 dicembre scorso, infatti, Kaplan dirige per la prima volta la “sua” sinfonia con la New York Philarmonic; non è un’orchestra qualunque: è l’orchestra che Mahler stesso, negli ultimi e difficilissimi anni di vita, accettò di dirigere stabilmente, lasciando Vienna. È anche l’orchestra/simbolo del grande Lenny, uno che di Mahler se ne intendeva. Oltre tutto nella serata dell’8 si celebrava il centenario del compositore, e il concerto rivestiva pertanto una rilevanza tutta particolare. La serata andò come le precedenti: tutti sanno che il gesto di kaplan non è né elegante né comunicativo, che le sue esecuzioni non sono certo impeccabili, che a volte stenta a mantenere il controllo della difficilissima partitura, e via dicendo; ma qualcosa nel lavoro di Kaplan attira il pubblico e la critica, e forse la pubblica proiezione dell’idea di un sogno che si realizza non è estranea alla questione; fatto sta che la sala è, come del resto in quasi tutti i concerti di Kaplan, totalmente piena fino agli ultimi ordini di posti. Il New York Times manda un suo critico, che scrive il pezzetto d’ordinanza con qualche freddezza e molte lodi. Tutto tranquillo, apparentemente.
Il 15 dicembre accade tuttavia l’imprevedibile. Uno strumentista dell’orchestra, il trombonista David Finlayson, apre un blog (Fin Notes) e scrive un post in cui manifesta tutto la sua indignazione per l’affronto subito dall’orchestra. Quello che scrive è quanto nessun critico ha mai avuto la voglia o il coraggio di scrivere: Kaplan non sa dirigere; è incapace di mantenere un tempo corretto, di dare una qualsiasi forma alle frasi, di realizzare le indicazioni dinamiche e di mantenere l’equilibrio sonoro; in numerosi passaggi solo la professionalità dell’orchestra lo salva dal disastro; persino la sua tanto sbandierata conoscenza enciclopedica della partitura è una bufala; insomma, il direttore è un autentico ciarlatano, paragonabile al personaggio interpretato da Brad Pitt in Prova a prendermi (Catch me if You can).
Apriti cielo. La notizia viene ripresa con grande risalto dallo stesso New York Times che aveva mandato il suo critico benevolo, e scoppia il caso. L’opinione pubblica, se ha ancora senso definire così le molte reazioni che giungono ai siti dei giornali e ai blog, è divisa, così come del resto lo è anche la critica. Alcuni sostengono che Finlayson ha tutto il diritto di esprimere quella che, a giudicare dall’articolo del NYT, è l’opinione condivisa da gran parte dei suoi colleghi. Che lo sbaglio, caso mai, l’ha fatto il management dell’orchestra, invitando una figura come Kaplan a dirigere da un podio dell’importanza storica e artistica della NY Philharmonic. Altri sostengono invece che il comportamento del trombonista è ingiustificabile, e che scrivendo quello che ha scritto è venuto meno ai suoi doveri di fedeltà e discrezione nei confronti dei colleghi e dei suoi datori di lavoro. In molti invocano persino una punizione esemplare, la sospensione o il licenziamento. Tra le voci decisamente critiche nei confronti di Finlayson si leva anche quella, sempre acuta e severa, di Norman Lebrecht (che tuttavia non nasconde la sua vecchia amicizia con Kaplan – e che pochi giorni prima aveva scritto una sorta di peana per l’avvenimento newyorkese).
Chi ha ragione? Finlayson doveva tacere o aveva il diritto di scrivere quello che ha scritto? Il fatto che a un facoltoso dilettante come Gilbert Kaplan vengano concesse possibilità che a molti direttori ben più capaci di lui saranno sempre negate è uno scandalo o un fatto del tutto normale? È strano, ma dovendo dire la mia, io sceglierei entrambe le risposte. Finlayson forse poteva (o meglio doveva) scegliere mezzi più ortodossi per manifestare il suo disappunto, che avrebbe dovuto colpire per primo il sovrintendente dell’orchestra. Ma che la qualità effettiva degli interpreti sia così spesso dimenticata da coloro che per mestiere dovrebbero garantirla (o che dovrebbero vigilare su di essa), a tutto vantaggio di aspetti economici o di marketing, è indubbiamente scandaloso, anche non rivestendosi della palandrana del moralista. Zarin Mehta, il sovrintendente dell’orchestra ha negato all’intervistatore del NY Times qualsiasi pagamento da parte di Kaplan, ma tutti sanno benissimo che le istituzioni musicali americane hanno un dannato bisogno di denaro privato, e il sostegno di una figura come Kaplan non è certo qualcosa da mettere in secondo piano. Ciò non toglie che quel concerto suonava veramente stonato. Dimenticavo: Kaplan dirigeva con la bacchetta di Mahler: sua anche quella.
PS. Stamattina ho assistito a un pezzo del concerto di Giovanni Allevi nella sala del Senato della Repubblica Italiana. A parte i toni da cinegiornale Luce dei commenti televisivi, sono rimasto molto impressionato da quel che vedevo e sentivo. Che cosa c’entra? Mah, è difficile spiegare, eppure c’entra…
31 Ottobre 2008 § § permalink
Signora Madre, come faccio a farvi sentire quello che abbiamo suonato? Sapete leggere la musica, voi? Non posso far altro che aiutarmi con le immagini. Mi sembrava di spargere cipria sulle teste degli uomini seduti sui banchi della chiesa. Diffondevamo la nostra polvere profumata, la nostra spezia femminile su quella gente. Don Antonio ha scritto un concerto dove si sente schiumare la nostra indole di donne, presentata in tre fasi, prima la gaiezza, poi il languore, poi di nuovo l’euforia. Quest’uomo tira fuori dai nostri corpi suoni femminili, offre alle orecchie intasate di peli dei vecchi maschi la versione sonora delle donne, la nostra traduzione in suoni, così come la vogliono sentire i maschi. Eppure, nel dire questo non sono del tutto sincera. Oggi, ancora più di quanto avevo intuito durante le prove, ho sentito che stavo facendo qualcosa di più, don Antonio ci stava sforzando, ci stava facendo traboccare oltre noi stesse, precipitavamo oltre le balaustre, c’era qualcosa oltre la solita poesia aggraziata, oltre la frivolezza che si richiede ai nostri concerti, un fervore più scomposto, sfrontato, nei movimenti veloci, e uno sconforto disdicevole, senza consolazione nell’adagio.
Chi scrive è Cecilia, fanciulla dell’Ospedale della Pietà; la Signora Madre è la figura materna che non ha mai conosciuto, essendo stata abbandonata appena nata sulla ‘ruota’ dell’Ospedale, così come quasi tutte le sue colleghe e convittrici; Don Antonio è naturalmente Vivaldi, il prete rosso che insegna violino alle ‘figlie di coro’ dal 1703 al 1740. È una delle lettere che compongono Stabat Mater, il nuovo libro di Tiziano Scarpa, costruito come un ‘romanzo di formazione’ che indaga la crescita umana e spirituale di una di quelle misteriosi e affascinanti figure che erano le ragazze degli Ospedali veneziani. In una curiosa Nota al termine del volume (curiosa in un opera di narrativa), Scarpa racconta il suo rapporto con la musica di Vivaldi, dei 200 CD del compositore che possiede, del suo essere venuto al mondo al reparto di maternità dell’Ospedale Civile di Venezia, che in quegli anni aveva sede nel palazzo in cui prima si trovava proprio l’Ospedale della Pietà. Quasi una predestinazione, vorrebbe dirci.
Ma Stabat Mater non è una biografia romanzata di Vivaldi né un romanzo storico; nella trama gli appassionati vivaldiani troveranno parecchie inverosimiglianze e falsificazioni: Scarpa ne è ben consapevole e le ammette senza difficoltà nella Nota, domandando indulgenza agli estimatori e agli esperti. Anche se l’arco temporale non è chiarissimo, la lettura porta infatti a pensare che sia l’esecuzione dell’oratorio Juditha Triumphans sia quella dei concerti delle ‘Quattro stagioni’‘ fossero avvenute poco dopo l’arrivo di Don Antonio all’Ospedale, cosa senz’altro non vera. Altre inverosimiglianze o falsificazioni riguardano i riferimenti (in qualche modo velati) a singole opere e così via. “Mi sono preso la libertà di fantasticare a partire da una suggestione storica, senza badare troppo alla verosimiglianza documentaria”, chiarisce ancora nella Nota.
Forse, le inverosimiglianze più grandi non sono da ritrovare negli aspetti storici e documentari, quanto in alcuni accenti, in alcune immagini e in alcuni pensieri che Cecilia scrive nelle sue lettere. La scena in cui Vivaldi porta le allieve in gita a un mattatoio e costringe Cecilia a uccidere con le sue mani un agnello è fortemente inverosimile; più di ogni questione cronologica. Ma anche in questo Stabat Mater è una fantasticheria: ciò che gli importava indagare e raccontare era presumibilmente la psicologia di una ragazza dell’Ospedale, la sua angoscia, la sua reclusione reale ed esistenziale, il rapporto con l’esterno e con le istituzioni, prima di tutto quella famigliare rappresentata dallo sconosciuto legame materno; e soprattutto l’influenza che una musica teatrale, rappresentativa, libera e passionale come quella di Vivaldi può portare in un animo complesso e ricettivo come questo. E in ciò riesce pienamente: il libro si legge tutto d’un fiato e lascia un segno. È la voce interiore di Cecilia che riesce a non essere un esercizio di stile, che prende corpo e ci parla direttamente. È un libro che verrebbe voglia di definire vivaldiano anche nel suo colpire fulmineamente e felicemente, senza troppa preoccupazione di completezza, verosimiglianza e rotondità.