29 Dicembre 2007 § § permalink
Oceana è il penultimo dei Cantos ceremoniales di Pablo Neruda, una lunga lirica ricca di simboli e di metafore erotiche, forse la più appassionata della raccolta pubblicata a Buenos Aires nel 1961 (in italiano si può leggere nella traduzione di Giuseppe Bellina, edita da Passigli nel 2005). Passaggi oscuri e intrisi della personale epica di Neruda vi si alternano a versi di splendida luminosità. Una lunga invocazione, rivolta indirettamente all’amatissima Matilde, in cui la donna viene paragonata a una divinità marina, all’oceano stesso, al suo totalizzante e violento potere sul cuore del poeta.
Tengo hambre de no ser sino piedra marina,
estatua, lava, terca torre de monumento
donde se estrellan olas ya desaparecidas,
mares que fallecieron con cántico y viajero.
(Ho fame di non essere che pietra marina, | statua, lava, torre ostinata di monumento | dove s’infrangono onde ormai scomparse, | mari che morirono con cantico e viaggiatore.)
La commissione a Osvaldo Golijov, datata 1996, si deve a quello stesso Helmuth Rilling che quattro anni dopo lo spingerà a scrivere la Pasión Según San Marcos, che otterrà un’autentica ovazione alla prima di Stoccarda, e che nel marzo del 2008 potrà essere ascoltata a Ferrara. Golijov – nato nel 1960 in Argentina da una famiglia di origine askenazita (proveniente da Romania e Ucraina) – è nel frattempo diventato uno dei più popolari compositori della scena americana. La Deutsche Grammophon ha inciso tre dischi di sue composizioni (e non nella collana di contemporanea!), la sua ultima opera, Ainadamar ha vinto due Grammy, ha scritto le musiche per l’ultimo film di Coppola Un’altra giovinezza [Youth Without Youth] e mille altre cose. Le tappe che contraddistinguono il cursus honorum di un compositore di successo negli Stati Uniti, ma che non sempre spianano la strada al riconoscimento in Europa.
Oceana è una sorprendente composizione, che mescola in un particolare e per molti versi astuto sincretismo elementi barocchi, neoclassici, stilemi della musica pop e di diverse tradizioni popolari. Golijov prende 4 frammenti dalle 11 stanze del testo di Neruda, li organizza in tre “ondate” corali, un’aria solistica e un Corale finale, inframmezzandoli con due “richiami” virtuosistici per la voce sola della splendida cantante world argentina Luciana Souza e un gruppo di chitarre e arpa. Le prime tre parti corali possono ricordare, nel loro impeto travolgente, la Turba della Passione secondo San Matteo di Bach (verosimilmente in omaggio a Rilling e al contesto della commissione), a cui però si aggiunge un senso di tempestoso e ritmico riflusso, di immediato riferimento marino. Devo confessare che al primo ascolto questa molteplicità di segnali estetici divergenti lascia molto perplessi, e si fatica a capirne la cifra personale.
L’impaginazione del disco, del resto, non aiuta. Alla “cantata” Oceana segue un lavoro per quartetto d’archi in due movimenti, intitolato Tenebrae, interpretato dal Kronos Quartet, e la raccolta si chiude con i Three Songs per soprano e orchestra, cantati meravigliosamente da Dawn Upshaw. Se in Tenebrae, che dovrebbe in qualche modo ispirarsi alle meravigliose Leçons de Ténèbres di François Couperin, si ascoltano cadenze barocche alternate a passaggi quasi pop, dove l’ostinato si confonde con il riff, le tre liriche per soprano rimandano a mondi molto diversi: in Lúa descolorida, per esempio, si sente il fin troppo facile rimando all’aria che nella Rusalka di Dvořák la protagonista rivolge alla luna, ma altrove si sente Mahler (per esempio nella bella ninnananna Close Your Eyes), e via dicendo.
Se attraverso l’ascolto di questo disco si cercherà di capire se Golijov sia o meno quel grande compositore di cui spesso si sente parlare, la risposta non è né immediata né facile. Sicuramente possiede una grande abilità tecnica – ottimo, per esempio, è il suo uso delle voci, e non stupisce che trovi interpreti di così alto livello; è chiaramente molto bravo nel mescolare i linguaggi e nel moltiplicare i rimandi; non ha paura di abbandonarsi a momenti che rasentano il kitsch o il sentimental-pop; possiede un vocabolario poetico e creativo molto vasto. È una voce originale? Sicuramente sì: per esempio riferimento simultaneo kletzmer e latino-americano, giustificato dalla storia familiare di emigrazione, è dotato di un discreto fascino e conduce a sonorità interessanti e in qualche modo inattese. Se tutto questo basti o no a farne una voce importante della musica d’oggi, è giusto che ognuno lo decida da sé. Personalmente nutro qualche dubbio, ma sono più che disposto a modificare questa opinione, in futuro.
Nella foto, Osvaldo Golijov; © Sara Evans, 2002.
O. Golijov, First Wave: “Oceana nuptial, cadera de las islas” (Ocèana nuziale, fianchi delle isole), Atlanta Symphony Orchestra and Chorus, dir. Robert Spano (reg. 2004)
oceana_firstwave
29 Novembre 2007 § § permalink
Lorraine Hunt è stata una splendida mezzosoprano, amata dal pubblico della musica barocca per le sue tante interpretazioni di Händel e Monteverdi con Christie, McGegan, Jacobs e altri; nel 1999 aveva sposato il compositore Peter Lieberson, cominciando a dedicarsi anche alla musica contemporanea e dando voce a molti compositori delle ultime generazioni. La ricorda ora un disco molto bello, che raccoglie cinque sonetti di Pablo Neruda tratti dai Cien sonetos de amor (1959), musicati e a lei dedicati da Lieberson. Lo stile è decisamente eclettico, con brevi puntate nella popular e un solido vocabolario post e neoromantico; ma la caratteristica che più colpisce di questi cinque brani, al di là di qualsiasi considerazione stilistica, è la profonda sensualità da cui sono pervasi. Trascinato dai testi di Neruda, Lieberson costruisce una meditazione su amore e morte, sulla gioia attonita del possesso e sulla paura della perdita. I Neruda Songs sono il risultato di una commissione della Los Angeles Philarmonic, e sono stati registrati da James Levine con la Boston Symphony Orchestra nel 2005, dal vivo. Meno di un anno dopo Lorraine Hunt Lieberson, come volle firmarsi dopo il matrimonio, è scomparsa per le complicanze di un cancro al seno. Al momento della registrazione lottava da tempo contro la malattia, eppure non c’è ombra di esagerazione o affettazione dolorosa nel suo canto: pensoso e appassionato, lo si direbbe invece. Anche quando il testo si fa fortemente drammatico, rimane quel distacco che i versi neobarocchi di Neruda consentono; versi bellissimi, come questi del sonetto XCII, intitolato Amor mío, si muero y tú no mueres (Amore mio, se io muoio e tu non muori):
Pero este amor, amor, no ha terminado,
y así como no tuvo nacimiento
no tiene muerte, es como un largo río,
sólo cambia de tierras y de labios.
(Però questo amore, amore, non è finito: | e così come non ha avuto nascita | non conosce la morte e, come un lungo fiume, | cambia solo di terra e di labbra).
Nella foto, Lorraine Hunt Lieberson fotografata nel 2003 da Richard Avendon (per il «New Yorker»).
P. Lieberson, Ya eres mia. Reposa con tu sueño en mi sueño (Ormai sei mia. Riposa col tuo sonno nel mio sonno), ms. L.H. Lieberson, Boston Symphony Orchestra, dir. James Levine (2005)
ya_eres_mia
6 Novembre 2007 § § permalink
Devo ammettere la mia passione per i documentari. Quando il regista è una persona sensibile e intelligente, raramente li si guarda senza provare delle emozioni paragonabili a quelle che si provano con un buon film. Questo su Henze, parte di una riuscita collana di Arthaus Musik intitolata Composers of our time, mi è sembrato particolarmente bello. Henze si lascia intervistare parlando spesso per metafore, cercando parole che talvolta si ha l’impressione che non abbia più grande interesse a trovare, con quell’atteggiamento un po’ ludico e un po’ acido che spesso i compositori hanno dopo una certa età, quando non hanno più voglia di battaglie e polemiche ma si tolgono comunque qualche soddisfazione. La responsabilità più forte del compositore, dice a un certo punto, è quella di “costringere a essere creativi”; questa frase già da sola renderebbe, a mio avviso, preziosa la visione.
Il film, prodotto nel 2001 in occasione dei suoi 75 anni, è in buona parte girato nella sua splendida villa di Marino; così ordinata, ‘leccata’ verrebbe da dire, con il suo giardino in cui la natura non sembra avere più niente di misterioso, in cui tutto è così straordinariamente country, così intimamente borgese che quando gli si sente dire che nella sua vita molto è stato collegato all’“incertezza” verrebbe da non credergli. Ma sotto, per tutto il tempo, trascorre la sua musica, con una scelta oculatissima dei frammenti, in qualche caso davvero toccante. Come quando si parla dell’incontro con la Bachmann (o meglio, ancora una volta vi si allude), e per qualche decina di secondi si ascolta il primo Notturno di Nachtstücke und Arien, incredibilmente bello e misterioso. Allora anche l’idea dell’incertezza si chiarifica, e ogni stabilità si rende comprensibile come pacificazione a posteriori. In due brevi testimonianze appare anche Fausto Moroni, il compagno scomparso pochi mesi fa; anche in questo caso, una vaga sensazione di benessere familiare quasi borghese; ma ancora una volta è un’impressione che svanisce in una nebuloso senso di drammatica instabilità quotidiana.
Nel dvd compaiono Simon Rattle, Ingo Metzmacher, Oliver Knussen e molti altri, si ascolta splendida musica ed è compresa anche un’esecuzione integrale del Requiem (1990−93). Ma soprattutto si pensa alla musica, al suo passato e al suo presente; e non è poco.
30 Ottobre 2007 § § permalink
È strano come il concerto solistico, ben lungi dall’essere in qualche modo ridimensionato dalla fine di un mondo, quello del grande concertismo internazionale, continui a generare nei migliori compositori ispirazioni spesso più felici della musica per orchestra. Gli ultimi grandi divi-virtuosi si stanno spegnendo, nascono figure di volta in volta più “glamour” o più tecnicamente preparate, ma difficilmente si potrà ritrovare, almeno nel futuro prossimo, quel particolare carisma che il solista conquistava con l’appartenere a un mondo che aveva qualcosa da dire, che rappresentava qualcosa oltre a se stesso. Eppure di quel mondo si nutriva la forma stessa della musica: difficile pensare al ruolo, alla voce che il violino “porta” nel concerto di Brahms senza Joachim, o al violoncello di Sostakovic senza il rimpianto Rostropovich.
Eppure il concerto solistico continua la sua strada, con dei momenti di altissima ispirazione. The Dharma at Big Sur è uno di essi. Scritto per l’eccezionale violino elettrico a cinque corde di Tracy Silberman, dimostra quanta strada continui a fare John Adams senza lasciarsi acciuffare dall’etichettatrice della critica, cercando, sperimentando e più di una volta trovando. Due movimenti per un totale di 27 minuti circa, organico ricco, forma complessa e colma di ricercatezze, tante citazioni e omaggi ma scarsissima propensione alla parodia. Un pezzo veramente bellissimo, che non ci si stanca di riascoltare, che non rifugge il pathos ma senza neoromanticismi. In Italia lo suona (e bene, dice chi lo ha ascoltato) Francesco D’Orazio.
Ora lo si può ascoltare in un prezioso doppio cd, accostato a un’altra e diversissima composizione recente di Adams, My Father knew Charles Ives. Un pezzo più riflessivo (si tenga conto del fatto che The Dharma at Big Sur era stato scritto per l’inaugurazione della Walt Disney Hall) ma sempre caratterizzato dalla stessa controllata estroversione; una voglia di comunicare senza svendere la propria personalità creativa. Ma al tempo stesso un altissimo controllo delle dinamiche, della strumentazione, dello stile. Più ricco del precedente di omaggi alla tradizione musicale americana (a Copland più di tutti), fitto di riferimenti autobiografici e familiari, con quella tendenza all’epicizzazione del privato che solo gli americani sanno avere (è per questo che amano tanto Mahler?). Tre movimenti per 26 minuti circa di musica; misterioso il motivo della ripartizione in due cd dei contenuti (naturalmente il costo è quello di un singolo). Una delle migliori cose che abbia ascoltato di recente.
18 Ottobre 2007 § § permalink
Non capita molto spesso di ascoltare una nuova opera con la sensazione di trovarsi di fronte a un lavoro di grande felicità espressiva e ricchezza culturale. È però il caso di Writing to Vermeer, l’opera composta da Louis Andriessen negli anni 1997–98 su commissione di De Nederlandse Opera di Amsterdam, dove ha debuttato nel 1999. La si può ora ascoltare in un doppio cd, molto ben confezionato dalla Nonesuch.
L’opera si compone di sei scene, nelle quali si intersecano diverse linee di articolazione drammatica, psicologica, intellettuale e musicale. La base è un affascinante libretto di Peter Greeneway, sostanzialmente privo di azione drammatica ma al tempo stesso dotato di un particolare crescendo ansiogeno, amplificato con grande sapienza drammaturgica da Andriessen. Tra il 16 e il 26 maggio 1672, tre donne scrivono sei lettere ciascuna a Johannes Vermeer, momentaneamente lontando da Delft per un viaggio d’affari all’Aja; Catharina Bolnes, moglie del pittore, Maria Thins, la di lei madre, e un’immaginaria modella di nome Saskia de Vries raccontano a Veermer i piccoli fatti della vita domestica quotidiana – un progetto di matrimonio fallito e un altro di cui si gettano le basi per la giovane Saskia, la vita dei figli dell’artista – cercando di fargli sentire quanto a loro manchi la sua presenza, pregandolo continuamente di tornare al più presto. Come sempre accade nei lavori in cui è coinvolto Greenaway, la trama procede per allusioni più o meno criptiche a fatti e circostanze che si riescono solo a immaginare in filigrana; per esempio la presenza di cinque fluidi che minacciano la serenità domestica della famiglia: la vernice, che un mattino la piccola Cornelia mangia per gioco, il latte, che continuamente viene versato, il sangue, che simbolizza l’assassinio e la violenza, e infine l’acqua, che negli ultimi secondi dell’opera sommergerà la scena.
Cinque elementi che rappresentano nella loro quotidianità la sotterranea minaccia che il mondo esterno, la storia e l’attualità recano all’apparentemente serena vita della famiglia Vermeer. La storia d’altro canto fa irruzione nell’opera anche attraverso dieci inserti sonori sapientemente incastonati nel dipanarsi del libretto, nei quali essa agisce come in un fondale che lentamente e pericolosamente si avvicina alla scena familiare fino a sommergerla nel finale. Si tratta di dieci momenti della cruenta storia olandese di quei giorni: la dura opposizione tra cattolici e protestanti, un’esplosione a Delft, il crollo del mercato dei tulipani, l’orribile assassinio di due diplomatici olandesi, l’invasione francese, fino all’inondazione con cui gli olandesi si difendono dai francesi, principale causa della rovina di Vermeer secondo i documenti storici. Questi inserti sono realizzati attraverso il live electronic di Michel vad der Aa, che compone cellule melodiche a suoni fortemente relistici: campane da chiesa, esplosioni, respiri affannosi, scrosci d’acqua, urla, passi.
La musica è altrettanto ricca di suggestioni, citazioni rimandi, ma cucita in un tessuto di grande coerenza e fascino; i nomi che vengono in mente o che Andriessen stesso cita nelle note di copertina del disco sono quelli di John Cage per le scelte strutturali e per diverse sonorità, ma anche Steve Reich in alcuni trattamenti delle tastiere, perfino Webern in alcuni momenti di forte rarefazione timbrica e melodica. Il suono combina in maniera davvero brillante la modernità estrema e le sonorità barocche delle esecuzioni filologiche, senza soluzione di continuità e in bellissimo trascolorare da una tavolozza all’altra; la vocalità ricorda talvolta Britten, ma è sempre molto naturale e sciolta. L’orchestra comprende un gruppo di archi inconsuetamente corposo per Andriessen (12 violini, 8 fra viole e violoncelli, due contabbassi), legni, ottoni, due arpe, due chitarre elettriche, due pianoforti e percussioni.
Su tutto domina la sensazione di una profonda comprensione dell’opera pittorica di Vermeer, di quella sospensione del tempo, di quella felicità esclusiva e venata di malinconia e ansia, nella quale l’esterno è sempre alluso (una lettera, una finestra, una porta aperta), ma al tempo stesso tenuto fuori dallo spazio artistico e psicologico; un lavoro in cui realismo e sogno sembrano fondersi in un’unità inscindibile. Un’opera davvero bellissima.