30 Aprile 2011 § § permalink
Un gruppo di scrittori, poeti, critici, alcuni rapper, molti studenti: non esattamente il ritratto di una pericolosa cellula terroristica. Eppure nel tendone in cui dovevano riunirsi per festeggiare la conclusione del Palestine Festival of Literature (PalFest), la rassegna dedicata alla scrittura che da quattro anni si svolge, tra incredibili difficoltà, in territorio palestinese, sono stati lanciati dei lacrimogeni dall’esercito occupante. Da quelle parti le cose vanno così, e nessuno sembra stupirsi più di tanto.
Sobborgo di Silwan, a sud di Gerusalemme, quartiere a larga maggioranza palestinese su cui negli ultimi anni si sono concentrati nuovi piani di espansione delle colonie israeliane e un progetto per l’ampliamento di un parco archeologico contestato dai residenti; luogo di forti tensioni e frequenti scontri; luogo di violazione dei diritti umani secondo gli osservatori stranieri, che denunciano il reiterato arresto di bambini da parte della polizia e dell’esercito occupante. Per guadagnare un po’ di sostegno da parte della stampa internazionale contro i preoccupanti progetti dei coloni, è stato issato un tendone, luogo di ritrovo e di scambio di informazioni. È proprio qui che, con un certo coraggio e forse anche con un po’ di senso di sfida, il 20 aprile si è chiuso il festival che per cinque giorni ha riunito, come ogni anno, migliaia di persone intorno alle forze della letteratura palestinese e ad alcuni illustri e meno illustri ospiti stranieri.
Nato nel 2008, il PalFest ha avuto tra i suoi fondatori e sostenitori nomi importanti della letteratura di tutto il mondo, come lo scrittore nigeriano Chinua Achebe, John Berger, Harold Pinter (scomparso nel 2008), il premio Nobel Seamus Heaney, il poeta ‘nazionale’ palestinese Mahmoud Darwish, e molti altri. Gli organizzatori lo definiscono ‘festival itinerante’, cosa che naturalmente, in un paese in cui la difficoltà di spostamento è uno dei segni più tangibili dell’occupazione, assume un significato tutto particolare: quest’anno ha portato nei diversi luoghi delle manifestazioni (Nablus, Jenin, Betlemme, Ramallah, Hebron e Gerusalemme) scrittori e scrittrici come l’egiziana Adhaf Soueif, l’americana Alice Walker (l’autrice di Il colore viola), il pakistano Mohammed Hanif (Il caso dei manghi esplosivi, Bompiani 2009) e molti altri, e li ha fatti incontrare con gli scrittori locali e con il pubblico, in una serie di workshop, letture, dibattiti.
L’appuntamento conclusivo era per le 19.30 sotto il tendone di Silwan, ma gli scontri sono cominciati alcune ore prima, l’aria era irrespirabile per i lacrimogeni e molti ospiti erano stati trattenuti ai posti di blocco, così tutto sembrava essere andato in fumo. E invece hanno aspettato che il fumo si disperdesse, che gli scontri cessassero, e quando ormai era quasi notte sotto quel tendone ci si sono davvero seduti, e hanno letto le loro benedette poesie, e hanno fatto i loro benedetti discorsi, e hanno suonato le loro benedette canzoni. Ne parla un articolo dell’Economist, lo si può leggere anche in alcuni blog e siti come i coraggiosi Rete Eco – Ebrei contro l’occupazione o Invisible Arabs della giornalista Paola Caridi. Se ne può sentire l’atmosfera, tutta particolare, nel video postato dagli organizzatori del Festival su Youtube.
Sono i momenti in cui la letteratura e le arti si riprendono il loro valore di ponte sospeso fra le persone e i luoghi, fra personale e collettivo, allontanandosi da quella fruizione un po’ solipsistica e consumistica che sempre più stanno assumendo nelle nostre vite. Piacerebbe pensare che queste iniziative siano ben viste se non addirittura sostenute dagli occupanti israeliani, poiché ogni occasione di incontro e crescita culturale rappresenta anche un freno al diffondersi del cancro estremista e integralista. Ancora una volta non è così, e viene da chiedersi se non ci sia un metodo in questa sistematica volontà di ostacolare la crescita sociale della popolazione palestinese, in questa obliterazione delle proprie radici culturali, del proprio tessuto sociale e del proprio paesaggio a cui la si vuole spietatamente costringere.
È la storia che racconta nei suoi libri uno dei fondatori e sostenitori del Festival, Raja Shehadeh, scrittore e avvocato nato a Ramallah. Il disgregarsi di una società in stretto rapporto con il territorio, l’umiliazione di una borghesia istruita, fatta di professionisti, commercianti e possidenti terrieri, costretta a emigrare o a vivere in un contesto sempre più contrassegnato dalla violenza e dalla coercizione, e ad assistere infine all’affermazione dell’integralismo, la peggiore delle medicine, quella che uccide il paziente insieme ai sintomi del suo male.
Uno dei suoi libri, in particolare, racconta la storia degli ultimi decenni in Palestina da un punto di vista unico e pregnante, quello del paesaggio e della sua trasformazione. Riprendendo un’antica tradizione palestinese, quella della sarha, il vagabondaggio disintossicante che l’uomo si concede una volta all’anno, Shehadeh ama le lunghe camminate, e ne Il pallido dio delle colline (EDT 2010) racconta 7 di questi viaggi a piedi fra le colline e i wadi della Cisgiordania, distribuite nell’arco degli ultimi venticinque anni; ricorda le luci della civile Jaffa di quando era piccolo, poi lo spostamento coatto verso Ramallah, luogo fino ad allora destinato alla villeggiatura, la scoperta delle colline, con i loro ulivi, i terrazzamenti, il fresco dei rifugi per il bestiame. E poi lentamente il disgregarsi del tessuto sociale, l’abbandono delle terre, la comparsa degli insediamenti sempre più invadenti, l’occupazione e la frammentazione del territorio, gli espropri. Tutto però scandito dal passo di chi cammina e osserva, e camminando e osservando in qualche modo riflette e sorpassa. Un libro che mi ha aiutato molto a capire come stanno le cose al di là delle notizie di cronaca e dei libri di storia. E soprattutto un libro guidato da quella stessa disperata fiducia nella parola e nel pensiero che ha spinto pochi giorni fa un gruppo di pazzi a sfidare la sorte e il rancore dei propri nemici per andare ad ascoltare poesie sotto un tendone che sapeva ancora di gas lacrimogeno.
La foto di Raja Shehadeh è di Chris Boland, ed è stata scattata a Cambridge nel marzo scorso; la persona dietro di lui è lo scrittore inglese Robert Macfarlane.
22 Febbraio 2011 § § permalink
Che cosa si può dire di Giuliano Ferrara che improvvisa una lezione di storia della musica in difesa del suo datore di lavoro, e lo fa citando dalla Breve storia della musica di Massimo Mila? Già si sapeva che Mila non rappresentò esattamente il culmine, la summa dell’esegesi verdiana. Ma leggere il Mila che spiega il melodramma italiano in antitesi al Romanticismo europeo (per via di semplificazione), è già di per sé abbastanza triste; leggerlo poi attraverso la rimasticatura sgangherata di Ferrara, è davvero sconfortante. L’articolo vale il tempo della lettura, perché dimostra una volta di più la distanza del mondo intellettuale italiano dalla musica; mai e poi mai Ferrara avrebbe potuto impancarsi storico dell’arte e tenere una concione squinternata su Piero della Francesca, o della letteratura scrivendo della morale in Manzoni, senza coprirsi di ridicolo. La citazione di Mila gli serviva ovviamente per fare ironia sull’ ”azionismo” di cui tanto si parla nelle ultime settimane, ma la quantità di sciocchezze, ‘elixir’ e tutto il resto, è abbastanza palese. La traduzione dell’idea di ‘paese del melodramma’, come luogo dell’amore innalzato a fine supremo, esclusiva patria dell’opera buffa e dello spasso solare, rappresenta veramente una falsificazione incredibile sia del melodramma ottocentesco, sia dell’Italia di oggi. Se infatti le notti di Arcore sarebbero più degne di Offenbach (orrore, un tedesco!) che del Donizetti buffo, l’atmosfera cupa e rabbiosa che domina l’Italia di oggi è effettivamente degna del Donizetti più disperato e del Verdi più severo. Fingere di dimenticare quanto preciso sia stato il ritratto impietoso, moralmente nettissimo e acuto, che il melodramma ottocentesco ha fatto del potere, della violenza politica, dell’asservimento popolare e della cortigianeria interessata, è veramente da bestie. Dispiace dirlo, ma è anche attraverso queste uscite che colui che vorrebbe farsi amare dal suo padrone come un Marchese di Posa, e che spesso è stato ritratto dai suoi nemici come uno Iago, finisce per manifestarsi come un semplice Marullo.
15 Febbraio 2010 § § permalink
Sabato scorso Tuttolibri, l’inserto librario della Stampa, apriva con una replica di Ferdinando Camon alle critiche piovute sul giornale torinese dopo l’infelice intervista a Buscaroli del 6 febbraio. Fra i siti più battaglieri, segnalo Nazione Indiana, su cui il dibattito è diventato acceso e interessante. La replica di Camon consiste di poche righe che possono essere lette anche sul suo sito.
Non scriverò di nuovo al giornale, per evitare di ricevere risposte come quella, non firmata e un po’ sommaria, inviata dalla redazione di Tuttolibri (inserita fra i commenti del precedente post); e per non alimentare una polemica tutto sommato abbastanza marginale. Mi limito tuttavia a qualche appunto.
Ciò che la replica di Camon e quella privata ricevuta dalla redazione hanno in comune è il fatto di citare Primo Levi, così come si faceva nell’intervista; non conosco i rapporti di Quaranta con Levi, lessi molti anni fa il libro/intervista di Camon allo scrittore. Mi dispiace che un autore complesso e profondissimo come lui venga ormai utilizzato come ‘patente’ antirazzista; lo si è fatto per anni con Pasolini e l’antifascismo: quando si voleva dire qualcosa veramente di destra, si aggiungeva una citazione di Pasolini e il messaggio diventava “dico una cosa di destra ma non sono di destra, e ho letto gli stessi libri della sinistra’.
La cosa triste è che il pezzo di Camon si impernia su un ragionamento palesemente viziato. L’intervista di Bruno Quaranta a Buscaroli viene da lui paragonata all’operazione che Armando Cossutta fece sul Mein Kampf di Hitler. “Era un libro tabù: nessuno lo stampava, nessuno poteva leggerlo” scrive Camon. E già qui ci sarebbe da obiettare. Mein Kampf era un libro tabù, ma regolarmente ristampato e venduto in migliaia di copie attraverso una fittissima rete di distribuzione; non c’era bancarella italiana su cui – dieci, venti o trent’anni fa – frugando tra i libri usati, non saltasse fuori un’edizione di quel pattume senza indicazione di tipografia o editore. Era venduto sottobanco anche da molte librerie, bastava conoscere. Ma era un circuito semiclandestino, senza alcuna garanzia editoriale; l’operazione di Cossutta fu dunque prima di tutto filologica e critica. » Read the rest of this entry «
20 Ottobre 2009 § § permalink
Chi lo ha seguito nel corso degli ultimi due anni probabilmente si era già accorto che qualcosa stava succedendo. The Rest is Noise, il blog di Alex Ross, è una delle più importanti iniziative personali offerte dalla rete nel campo della critica musicale. Avviato se non ricordo male nel 2003, per almeno 4 anni ha rappresentato una fonte sempre interessantissima di informazioni, riflessioni e recensioni dal mondo della musica classica (ma con parecchie ‘digressioni’ in altri territori musicali e culturali). Nel frattempo il suo libro prendeva forma e così, accanto alle bellissime ‘classifiche’ dei dischi più rilevanti, accanto ai tanti approfondimenti, alle sempre un po’ malinconiche foto di paesaggio, comparivano di volta in volta bellissimi stralci storico-musicologici dedicati a Strauss, a Mahler o a Nuncarrow. Poi, mentre l’uscita del libro si avvicinava, i post hanno cominciato a rarefarsi. Era evidente che il cosiddetto ‘daytime work’, il lavoro che ci aiuta a campare, stava soffocando quello sul blog; per periodi di intere settimane sono comparse solo le recensioni e gli articoli che Ross scriveva per il “New Yorker”, ogni tanto lasciava addirittura la mano a un amico e collega, per tenere in vita il sito in sua assenza. Dopo l’uscita del libro le cose peggiorarono addirittura: il successo ha portato con sé le presentazioni, le traduzioni, le revisioni, i premi e via dicendo. Insomma, tutto lasciava presagire che Ross avrebbe mollato la rete, l’amica che l’aveva aiutato a crescere in questi anni.
La sorpresa è arrivata con un post del 14 ottobre. “The Rest is Noise” fa come l’Araba fenice, e si incenerisce per rinascere: ecco dunque Unquiet Thoughts, Pensieri inquieti – è il titolo del bellissimo primo Song del primo libro di arie e canti pubblicato da John Dowland (First Book of Songs and Ayres, 1597), in cui Dowland decide di non tacere, e anzi di “tell the passions of desire / Which turns mine eyes to flood, mine thoughts to fire”, esprimere le passioni del desiderio che tramutano gli occhi in diluvio e i pensieri in fuoco.
È un salto in avanti o un passo indietro?
Ma oltre a segnalare il nuovo e senz’altro interessante blog di Ross, vale forse la pena di notare alcune cose. “Unquiet Thoughts” è uno dei molti blog ospitati dal sito del “New Yorker”, cioè di uno dei migliori periodici letterari americani. Una colonna della cultura americana, ma una colonna fatta di carta, con tutto quello che ne consegue. Il sito del “New Yorker” riflette le difficoltà e le speranze di tutti i siti dei periodici cartacei di alto livello: non raccolgono pubblicità (o ne raccolgono poca), rappresentano un costo spesso poderoso, ma semplicemente non possono non esistere. Fino a un paio d’anni fa il sito del “TLS”, il più aristocratico tra i grandi periodici letterari, era quasi una pagina fissa; se volevi ti abbonavi (per posta) e loro oltre a mandarti il giornale imbustato nel nylon ti davano l’accesso a una cosiddetta ‘versione elettronica’, in realtà un pesante file pdf dell’impaginato prestampa; ora il sito del “TLS” è stato riassorbito nel grande calderone del sito del “Times” (nella rubrica ‘entertainment’!), arricchito e democratizzato nell’offerta gratuita (Murdoch permettendo), ma sempre con un forte riferimento alla carta stampata. » Read the rest of this entry «
15 Luglio 2009 § § permalink
Mentre alcuni nuovi pezzi di Fierrebras non vogliono proprio scriversi da soli, ci sono mille notizie dal mondo della musica che mi piacerebbe condividere. Notizie che riflettono quanto esso sia complesso, articolato e un poco pazzo. Eccone tre di ieri.
La prima è una bella inchiesta del New Music Box, il sito internet dell’American Music Center, dedicata alla buona salute di cui godono – in un mercato discografico sconvolto dalla crisi economica e di idee – le etichette indipendenti specializzate nella produzione e distribuzione di musica contemporanea. Il loro modello di business non è certo quello delle major (i compositori o gli sponsor normalmente pagano la produzione del disco) ma il loro insostituibile compito è ricambiato da un successo che sta assumendo le dimensioni di un boom. Contro qualsiasi fosca previsione.
La seconda e la terza sono collegate. Un articolo del Times ci racconta del primo sciopero proclamato dai lavoratori del Festival di Bayreuth. Si tratta di 60 macchinisti e di un centinaio di lavoratori a contratto che contestano la legalità dei contratti firmati dall’ex direttore del Festival, Wolfgang Wagner. E così, mentre si lavora per mandare in scena l’ennesimo, sontuoso Tristan und Isolde, davanti alla consueta platea luccicante di uomini politici, magnati della finanza e alta borghesia internazionale, scopriamo che la paga oraria di un macchinista, di un elettricista o di un attrezzista impegnati sul palcoscenico è di circa 4 euro. Contemporaneamente, un articolo pubblicato sul sito di Bloomberg ci informa del fatto che Peter Gelb ha guadagnato nel 2008 circa 1,5 milioni di dollari con il suo lavoro di General Manager alla Metropolitan Opera di New York, con un incremento rispetto all’anno precedente del 36%. Che cosa c’entra? Boh, ognuno si faccia il suo parere.
5 Luglio 2009 § § permalink
Che regalo può scegliere l’avvocato Brusatti Coronèo per il compleanno della giovane ed elegante moglie? Si era deciso per una collana d’oro con pendaglio a forma di farfalla, ma ora ha letto che può fare cafone. Poi, in studio, ha trovato il Wall Street Journal e gli è venuta un’idea fantastica.
C’è scritto che un signore di Harrisburg, Pennsylvania, tale Martin Murray, un dilettante di violino sposato da meno di due anni, per il settantesimo compleanno della moglie (!) si è rivolto a un’associazione nonprofit specializzata nell’intermediazione tra commissionari e compositori: Meet the Composer (MTC). Voleva una sonata per violino e pianoforte di un quarto d’ora circa, eseguibile da musicisti non professionisti di medio livello tecnico. Sorpresa: l’associazione l’ha messo in contatto con il più famoso dei compositori americani viventi, Philip Glass, e quest’ultimo ha accettato la commissione. Ne è nato un party di cui tutti gli amici ancora parlano a Harrisburg e dintorni; al momento del regalo, lui prende il violino, una pianista si siede al pianoforte, e arriva il grande dono. L’articolo, firmato da una certa Corinna da Fonseca-Wollheim, si intitola degnamente “Anche Bach ebbe bisogno di Goldberg”, riferendosi alle parole di un localmente noto compositore dell’Università dell’Arizona, Daniel Asia, che con apparente tranquillità ricorda come anche il Signor Goldberg (nome che negli Stati Uniti assume tutta una serie di connotazioni) sia tuttora ricordato per avere pagato a Bach una certa commissione.
A parte lo svarione storico (non ci fu mai un Signor Goldberg che commissionò una composizione a Bach) l’articolo si dilunga con il giusto piglio da giornale economico sulle dimensioni del fenomeno, e sugli aspetti finanziari (da quelle parti le commissioni le puoi scaricare dalle tasse); vuoi comprare un teschio di Hirst, sembra dirci la Fonseca-Wollheim? lascia stare! portati a casa un’opera di Adams, un quartetto di Corigliano (o una sonatina di Mr. Asia). Si parlerà di te nei secoli dei secoli. » Read the rest of this entry «
29 Giugno 2009 § § permalink
È da poco arrivato in libreria l’ultimo saggio di Marc Fumaroli, Chateaubriand. Poesia e terrore. Poderoso (circa 800 pagine), scritto con l’intelligenza, la chiarezza e l’estrema erudizione che sono consuete a questo coltissimo studioso; la veste tipografica è poi quella, ineccepibile e attraente, della collana ‘Il ramo d’oro’ della Adelphi. L’ho preso, l’ho sfogliato, ne ho letto un paio di pagine e poi l’ho riposto sullo scaffale del libraio. So che non riuscirei mai non dico a finirlo, ma neppure a superare il centinaio di pagine; nei libri di Fumaroli si entra come un grande museo, in ogni pagina c’è qualcosa da imparare, ma si fatica molto a capire dove ci stanno portando, e ogni tanto si sente il bisogno di cercare una finestra per capire dove ci si trova. Non è solo che non condivido per nulla le tesi di fondo di pressoché ogni suo libro, ben esposte in questo post di Luigi Castaldi; la verità è che difficilmente arrivo a cogliere l’ideologia antimoderna, perché è lo stile a tradirla prima di ogni ragionamento, e non riesco a entrare in sintonia con una scrittura che sembra fatta unicamente per sé stessa.
Scrivo questo non solo per il libro, ma perché alcuni giorni dopo avere visto il libro, mi sono imbattuto in una recensione pubblicata da Libération alla nuova fatica letteraria dell’instancabile Fumaroli, uscita nel frattempo in Francia. Firmato da Philippe Lançon e intitolato spiritosamente Il mangiatore d’ozio (con un gioco di parole sul ‘mangiatore d’oppio’ di de Quincey), si tratta di un pezzo feroce e talvolta eccessivamente sarcastico, scritto tuttavia con quel coraggio e quella spregiudicata serietà che sempre si vorrebbe trovare in una recensione. Vi si dicono cose che non valgono solo per Fumaroli – che Lançon definisce “il più intelligente dei vecchi tromboni”, ma che si potrebbero facilmente trasferire a una buona parte della nostra ‘cultura erudita’. Ne traduco qui il passaggio più interessante:
Se finora abbiamo seguito volentieri Fumaroli nella sua fumisteria erudita è prima di tutto perché lui è il più intelligente dei vecchi tromboni. O, per dirla secondo le convenienze, degli ‘antimoderni’. Questa categoria piena di distinzione, divisa tra il dandysmo e la malinconia aggressiva, è stata analizzata da Antoine Compagnon (Gallimard). È una categoria vivificante, poiché striglia per bene l’idiozia moderna; educativa, poiché precisa la presenza dei morti; ma sovente sterile, perché il suo sguardo è falsato da troppa cattiva fede ed ebbrezza nostalgica. In breve, l’‘antimoderno’ passa il suo tempo a denunciare ciò che lo circonda mentre contempla degli antichi affreschi in un’antica caverna. Quando un martello pneumatico fa un buco, è come nella celebre scena del film Roma, di Fellini: buona o cattiva che sia, l’aria entra nella caverna e cancella tutto – e i commenti prima di tutto.
Oltre al riferimento a una scena indimenticabile del cinema di Fellini, l’articolo ha portato con sé il ricordo indelebile di un altro articolo sulla questione ‘moderni e antimoderni’, ben più importante. Era il 1989, e Giulio Bollati aveva appena preso le redini della casa editrice Boringhieri (ribattezzata Bollati Boringhieri); nel giro di pochi anni avrebbe costruito un progetto editoriale di grande forza, tanto da lasciare una traccia duratura anche dopo la sua scomparsa. Ma naturalmente il 1989 è stato anche l’anno della cosiddetta ‘caduta del muro di Berlino’, e dell’inizio di un attacco frontale alla cultura progressista di cui i miserabili governanti attuali non sono che gli ultimi epigoni: in questo simili ai soldati che passano sul campo di battaglia per finire i feriti e, se possibile, derubarli. Era l’inizio di un’equazione, condotta in esibita cattiva fede, tra progressismo e stalinismo, fra Lumi e Terrore. Pietro Citati, in un articolo su Repubblica dedicato alla Normale di Pisa, si fece portavoce di questa prima ondata di vendette contro la cultura ‘egemone’ della sinistra; Giulio Bollati gli rispose, sempre sulla Repubblica, con questa ‘lettera aperta’ veramente memorabile.
Citati è un altro scrittore di cui forse non finirò mai un libro, pur avendone amato e studiato tanti scritti, pur ammirandone profondamente il controllo stilistico, pur riconoscendogli la statura del maestro. Ma la lettura di questo pezzo di Bollati (non l’ho trovato in internet, e dunque lo trascrivo qui), a oltre vent’anni di distanza dall’uscita, fa capire molte cose sulla cultura italiana di ieri e di oggi, oltre a essere una critica fortissima e intelligente ai tanti eruditi che si pongono sotto le protettive ma a loro volta indifese ali dei classici, rifiutando il rapporto vivo e dialettico con la modernità. E per tornare ai temi più consueti a Fierrabras, non è che nel campo musicale questi personaggi siano una rarità; anzi, direi che la chiusura, l’elitarismo, il distacco dal presente esibito nel linguaggio oltre che nella scelta degli argomenti siano la norma e il modello perfino tra i critici e i musicologi più giovani.
Il ritratto di François René de Chateaubriand che medita sulle rovine di Roma è quello famosissimo dipinto nel 1808-09 da Anne-Louis Girodet; l’originale è in una collezione privata, ma un’ottima copia d’epoca (a lungo ritenuta originale) è conservata al Musée d’histoire de Saint-Malo.
27 Maggio 2009 § § permalink
L’Italia sta marcendo in un benessere che è egoismo, stupidità, incultura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo: prestarsi in qualche modo a contribuire a questa marcescenza è, ora, il fascismo. Essere laici, liberali, non significa nulla, quando manca quella forza morale che riesca a vincere la tentazione di essere partecipi a un mondo che apparentemente funziona, con le sue leggi allettanti e crudeli. Non occorre essere forti per affrontare il fascismo nelle sue forme pazzesche e ridicole: occorre essere fortissimi per affrontare il fascismo come normalità, come codificazione, direi allegra, mondana, socialmente eletta, del fondo brutalmente egoista di una società.
Ho visto Pasolini. Un delitto italiano di Marco Tullio Giordana, e letto il romanzo-inchiesta pubblicato da Mondadori con lo stesso titolo; mi sono sembrati entrambi molto interessanti e al tempo stesso piuttosto deboli – anche se sono riusciti nell’intento di fare brevemente riaprire l’ormai impossibile inchiesta. Mi sono sembrati deboli perché indagano i fatti, come sempre è successo per questo delitto, sotto l’abbagliante cono di luce della personalità e dell’opera di Pasolini. Non credo sia un’operazione sbagliata nelle premesse – come si potrebbe, d’altro canto, isolare i fatti da quel contesto umano, politico e culturale di cui Pasolini era un protagonista di primissimo piano? Credo tuttavia che sia un’operazione destinata inevitabilmente al fallimento: troppo forte la tentazione di trovare una giustificazione e una predestinazione nelle parole di un poeta lucidissimo (non è affatto un ossimoro) e di un intellettuale violentemente determinato a indicare le tante vie e i tanti responsabili del disfacimento della società italiana. E cercare una predestinazione significa anche attenuare il senso di una perdita incolmabile e assurda, proprio nel momento in cui si manifesta la sua profondità e assurdità.
Il film contiene alcuni brani molto belli tratti dagli scritti e le poesie di Pasolini, e così mi è tornato in mente il frammento sopra riportato, tratto dalla risposta che egli scrisse a due lettori del settimanale comunista “Vie nuove”. Era il 6 settembre 1962, e da due anni teneva una rubrica intitolata “Dialoghi con Pasolini”; “Vie nuove”, fondato nel 1946, era un periodico politico di taglio ‘popolare’, che si rivolgeva in particolare ai più giovani. In una lettera, due lettori torinesi gli avevano domandato perché secondo lui l’idea fascista esercitasse tanto fascino sui giovani, e Pasolini aveva risposto raccontando un aneddoto. Poco tempo prima aveva concesso un’intervista a una giornalista colta, determinata e di impostazione laica e liberale (oggi probabilmente si direbbe ‘di sinistra’). Erano andati insieme a Ostia, avevano parlato come amici, fatto il bagno insieme. Pasolini le aveva parlato apertamente di sé, e aveva amichevolmente ascoltato le confidenze che la donna gli aveva fatto. Lei aveva un figlio neofascista, con cui quotidianamente lottava e discuteva; era la sua spina nel fianco, il suo dolore. Al termine dell’intervista si erano salutati in amicizia, come persone accomunate da una ricerca ideale. Qualche settimana dopo, era uscito l’articolo: offensivo, indegno, colmo dei pregiudizi sulla sua persona che Pasolini detestava e a cui da sempre si ribellava. Tanto più indegno in quanto scritto da una persona che aveva gli strumenti per capire, e per fermare lo scempio. In conseguenza di questo, si chiedeva in che cosa consistesse il fascismo del presente, ed ecco arrivare questo passaggio straordinario e profondissimo.
Basta guardarsi attorno per vedere quanto fosse lucida questa visione. Il “benessere che è egoismo, stupidità, incultura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo”. L’articolo si chiudeva con una sorta di maledizione biblica, che forse si è nel tempo trasformata in mera premonizione. Il figlio fascista era la conseguenza e il ‘contrappasso’ del fascismo mascherato della madre, del suo prestarsi a “contribuire a questa marcescenza”. L’anatema è divertente e doloroso, con quell’eco da tragedia greca; divertente perché vagamente ironico, terribile perché offre a noi nipoti una desolante spiegazione della realtà durissima da cui siamo assediati, interiormente ed esteriormente: “Che vi vengano figli fascisti – questa la nuova maledizione – figli fascisti, che vi distruggano con le idee nate dalle vostre idee, l’odio nato dal vostro odio”.
Ancora una volta la bellissima foto non so di chi sia. Lo scoprirò, promesso. Il brano è tratto da quella miniera inesauribile di idee, stimoli e grande scrittura civile che è il “Meridiano” di Pasolini Saggi sulla politica e sulla società (Mondadori, 1999; la risposta alla lettera si trova alle pp. 1014–18).
6 Maggio 2009 § § permalink
Il 23 aprile scorso George Steiner ha compiuto ottant’anni. Sui giornali italiani sono apparsi alcuni articoli, come questa interessante ma, se posso permettermi, un po’ superficiale intervista di Nuccio Ordine per il “Corriere della Sera”: tra le cose più rilevanti che vi sono dette, l’invito a leggere le opere di D’Arrigo, un gigante ‘diverso’ della nostra letteratura. Ma l’articolo più bello che abbia letto da diversi anni su Steiner è apparso il 12 marzo scorso sul “New York Times”. Si tratta di una recensione del suo ultimo libro, una raccolta di articoli pubblicati sul “New Yorker” (George Steiner at the New Yorker, New Directions, 2009, traduzione italiana già in preparazione presso Garzanti).
Vi si parla di un “problema George Steiner”, conducendo un’analisi intelligente e profonda del suo stile letterario, del suo talento critico e delle sue principali e ricorrenti idee. Vi si parla, in particolare, dei dibattiti che nel mondo anglosassone facevano seguito a ogni suo libro, con una parte della critica e del mondo accademico che lo riteneva un mezzo ciarlatano, e un’altra parte di entrambi i mondi (ma soprattutto una larghissima platea di lettori) che lo considerava uno degli ultimi depositari del grande e minacciato tesoro della cultura occidentale. Scrive in particolare Lee Siegel:
Celebrato come un bastione della cultura alta occidentale e ammirato per la sua sottigliezza morale da alcuni, Steiner fu attaccato come pomposo, pretenzioso e scientificamente inaccurato da altri. La sua più esaltante qualità era considerata il sapersi muovere da Pitagora, attraverso Aristotele e Dante, a Nietzsche e Tolstoj in un singolo paragrafo. Il suo difetto più irritante il sapersi muovere da Pitagora, attraverso Aristotele e Dante, a Nietzsche e Tolstoj in un singolo paragrafo.
Ciò che mi ha colpito di quest’articolo, non è stato solo il constatare quanto la nostra critica si dibatta in un’ormai atavica indolenza intellettuale, per cui di fronte a ogni dubbio meglio dire qualche parola generica di lode e lasciar cadere; ciò che mi ha colpito, dicevo, è la serenità con cui l’autore di grandi libri come After Babel (Dopo Babele, Garzanti) viene indagato e criticato, nonche l’acutezza con cui i suoi tic intellettuali vengono portati alla luce. Condivido molto di quello che l’autore scrive, ma questo non mi impedisce di collocare alcuni dei libri di Steiner tra le cose migliori che mi sia capitato di leggere (tre su tutti: oltre a Dopo Babele, la raccolta di saggi Nessuna passione spenta – Garzanti 1997– e, forse un po’ in subordine proprio per i difetti indicati nell’articolo, Grammatiche della creazione – Garzanti 2003); altri mi sono sembrati decisamente inferiori, ma in ogni caso mai privi di stimoli.
Vorrei citare la chiusura dell’articolo, che riguarda l’ossessione di Steiner nei confronti dell’Olocausto come prodotto vertiginoso e inspiegabile della civiltà culturalmente, artisticamente e filosoficamente più evoluta dell’intera storia dell’umanità. Il modo in cui Steiner si interroga affannosamente su come ciò sia potuto accadere, rappresenta per il lettore, secondo Siegel, un forte elemento di fascino e di interesse, ma non per il motivo che ci potremmo aspettare:
Recitare a memoria questi eleganti enigmi morali è stata la maniera di Steiner per spingere il lettore verso la cultura per poi fornirgli una via d’uscita. Dal fuoco prometeico discende la distruzione: se avete il tempo di dedicarvi ai tesori della cultura occidentale, bene; se non ce l’avete, consideratevi ugualmente fortunati. In sostanza l’orrore di Steiner per il fatto che gli strumenti della civiltà – il linguaggio e persino la stessa razionalità – sono stati anche gli strumenti della barbarie rappresenta un palliativo per la tormentata coscienza del lettore. Non avete finito il romanzo di Proust? Essere buoni, o almeno non mostruosi, è un traguardo migliore. Steiner potrà anche continuare a essere un problema per qualcuno, ma come critico ha efficacemente offerto una soluzione bifronte al vostro desiderio di conservare l’attaccamento alla cultura dopo le lunghe e piacevoli frequentazioni universitarie. Ha mantenuto i lettori nel mondo della letteratura e delle idee, e al tempo stesso li ha liberati dai sensi di colpa nel momento in cui il loro interesse si stava assottigliando.
Beh, questo è davvero recensire. Si potrà essere o non essere d’accordo, e anche esserlo a metà (la mia situazione); è tuttavia innegabile il fatto che così scrivendo si invita a riflettere e a osservare con attenzione sé stessi e il libro recensito.
Ma in ogni caso: buon compleanno, George!
2 Maggio 2009 § § permalink
Che dire di Abbado che, dopo avere ritualmente decantato la Cuba delle scuole e degli ospedali, a domanda risponde:
Però c’è il rovescio della medaglia, le violazioni dei diritti umani, i gulag…
«Ma dove? Quali?»
Niente, meglio non dire niente. Il cielo lo benedica e gli faccia fare tanta bella musica nei secoli dei secoli. Ma se qualcuno mi parla ancora di Abbado sensibile, Abbado impegnato, Abbado ecologista…