Alcuni giorni fa, il Magazine del “Corriere della Sera” ha pubblicato la traduzione di un bellissimo articolo di Tom Wolfe. Si trattava di un chilometrico, iperbolico e pirotecnico pezzo scritto da Wolfe per ricordare il geniale editore Clay Felker e gli anni d’oro del “New York Magazine”. Purtroppo non l’ho trovato né sul sito del Corriere né su nessun altro sito in italiano, ma questo è l’originale pubblicato dal “New York”. Si parla degli anni migliori del giornalismo di costume, quando l’indagine sulla stratificazione sociale, gli stili di vita e l’individuazione di status è diventata un’arte e un genere letterario. E si parla anche della nascita dell’articolo che ha proiettato lo stesso Wolfe nel firmamento del giornalismo di costume americano; l’articolo che ha creato la definizione poi abusata di Radical chic, e assestato una mazzata micidiale alla coppia più elegante di New York: quella formata da Leonard e Felicia Bernstein.
Riassumo in breve il passaggio dedicato a quell’avvenimento, famosissimo ma sempre divertente. Wolfe una mattina bighellonava nella redazione di una rivista concorrente (Harper’s), quando su un tavolo avvista un cartoncino d’invito; curioso come dev’essere un cacciatore di costumi, lo apre e rabbrividendo scopre che riguardava un party nel celebre attico dei Bernstein a Park Avenue, organizzato in sostegno delle Pantere Nere. La crème dell’alta società bianca che invita le Pantere Nere a un party! Il massimo dell’esausto da stravizi che cerca il brivido perduto con il massimo della gioventù muscolosa e furiosa!
Naturalmente Wolfe si presenta dai Bernstein con in tasca un registratore e tenendo ben visibili una penna e un taccuino (così dice lui, ma i Bernstein hanno sempre sostenuto che si fosse del tutto mimetizzato). Ne nasce uno dei reportage più memorabili degli anni Settanta: occuperà praticamente tutto il numero dell’8 giugno 1970 del “New York”, e insieme a un altro pezzo di feroce satira sociale diventerà molti anni dopo il libro Radical Chic & Mau-Mauing the Flak Catchers, tradotto in italiano da Castelvecchi con il titolo Radical chic. I Bernstein non perdoneranno mai Wolfe e il coraggioso Felker, e ancora molti anni dopo la loro figlia si lamenterà del “tradimento” di avere introdotto un registratore a un party privato. L’articolo è di incredibile perfidia, intelligenza e brillantezza, com’era il Wolfe degli anni della Fiera delle vanità; anche solo la copertina della rivista, che raffigura tre signore un po’ fané, in abito da sera ma con il pugno guantato delle Pantere, è roba da distruggere una credibilità sociale. I pensieri che Wolfe fa esprimere ai padroni di casa non sono da meno. “Piaceranno alle Pantere queste tartine di Roquefort coperte da briciole di noci?”
Se oggi mi viene in mente questo articolo non è solo grazie al pezzo del Corriere, ma perché mi è capitato di leggere il breve appello di Daniel Barenboim, firmato da decine e decine di intellettuali e artisti, e pubblicato sull’ultimo numero della “New York Review of Books”. Scorrere i nomi che hanno sottoscritto l’appello fa una certa impressione: quanta parte dell’establishment culturale! Per una volta, indubbiamente grazie a Barenboim, anche il mondo della musica e ben rappresentato. L’appello dice una cosa semplice come l’acqua fresca: “tanti anni di guerra in Medio Oriente hanno provato che non è così che si arriva alla pace. Fate la pace, please. Dimenticate il passato e create le condizioni per un futuro che rispetti i diritti di tutti, di una e dell’altra parte”. Che strano messaggio. Perché la crème dell’aristocrazia culturale pensa che mettere la firma sotto un documento così possa fare qualcosa per la pace in Palestina? Barenboim ha scritto libri, collaborato con grandi intellettuali come Edward Said, pubblicato diversi ottimi articoli e appelli, persino fondato un’orchestra che raccoglie giovani musicisti delle due parti. Ha una consapevolezza storica e politica che sembra essere ben distante da quella di tanti artisti che lanciano generici messaggi pacifisti; anche per questo un appello così scialbo proprio non riesco a capirlo.
E si affaccia, naturalmente, il dubbio perfido che questo moderatismo genericamente pacifista, imperante nel mondo delle arti ormai da molti anni, ben rafforzato dalla vacuità melodiosa di mille musicisti da “La vita è bella”, impegnati a suonare in playback per Obama o all’Auditorium per Veltroni, siano il nuovo cultural chic contemporaneo. Meno ridicolo del radical chic, forse; sicuramente un bersaglio più difficile anche per il più pungente dei satiristi sociali. Ma comunque una forma di vacuità artistica e intellettuale altrettanto sgradevole. Ma naturalmente è solo un dubbio.
Nella foto in alto, Tom Wolfe negli anni di Radical Chic (non conosco l’autore della foto). Più in basso, il famoso numero di “New York Magazine” quasi totalmente dedicato all’articolo sul party dai Bernstein. Più in basso ancora, Daniel Barenboim prova con la West-Eastern Divan Orchestra, l’orchestra formata da giovani palestinesi e israeliani (foto proveniente da Intermezzo, che ringrazio).
Non comincia in maniera festosa il bicentenario della nascita di Mendelssohn. In un articolo di Jessica Duchen pubblicato ieri sull’«Independent» di Londra, si racconta infatti di un mistero legato allo strettissimo rapporto affettivo che legò il compositore al leggendario soprano Jenny Lind, che secondo un importante musicologo, Curtis Price, potrebbe gettare una luce fosca sulle circostanze della morte di Mendelssohn.
Il mistero avrebbe origine da un “affidavit”, una dichiarazione sottoscritta da Otto Goldschmidt, allievo di Mendelssohn e marito di Jenny Lind, depositato nell’archivio della Mendelssohn Scholarship Foundation (oggi ospitato dalla Royal Academy of Music di Londra), attraverso il quale nel 1896 dichiarava di avere distrutto una lettera del compositore alla cantante; nella lettera, datata 1847, Mendelssohn confessava il suo violento amore alla donna, le chiedeva di fuggire insieme a lui in America e minacciava il suicidio in caso di rifiuto. Scrive la Duchen: “Lind, come si può immaginare, rifiutò. Pochi mesi dopo il compositore era morto”.
Il documento di Goldschmidt avrebbe dovuto rimanere segreto per 100 anni, e dunque fino al 1996, ma per qualche strano motivo continuerebbe a essere tenuto nascosto, nonostante le insistenze di diversi studiosi, tra cui l’autrice dell’articolo. Nel 1847, l’anno della misteriosa lettera e della morte di Mendelssohn, Jenny Lind era ancora nubile (si sarebbe sposata cinque anni dopo), ma Felix era legato da dieci anni a Cécile Jeanrenaud in quello che è sempre stato descritto dall’agiografia romantica come un matrimonio straordinariamente felice; dall’unione erano già nati cinque figli.
Jenny Lind è una figura quasi leggendaria della storia dell’opera. L’“usignolo svedese”, come era soprannominata, oltre a una capacità vocale che le fruttò una precoce fama in tutto il mondo (celebre è rimasto il suo tour americano organizzato da P.T. Barnum, che le versò una cifra colossale per oltre 150 concerti) doveva essere dotata di un discreto fascino, se fra i sui grandi ammiratori si ricordano anche Hans Christian Andersen e Frederic Chopin. Il primo ruolo a cui è legata la sua carriera è quello di Agathe nel Freischütz di Weber; nel 1847 sarà Amalia alla prima mondiale dei Masnadieri di Verdi a Londra. Per lei Mendelssohn sognava di scrivere un’opera ispirata alla Lorelei, e se non riuscì mai a realizzare questo desiderio, per la sua voce scrisse nel 1846 la parte di soprano nel meraviglioso oratorio Elias. In fondo, che sotto il sublime religioso ci sia un fondamento erotico non è certo una cosa nuova; anzi, è per molti versi rassicurante. Per un anno, dopo la morte del compositore, Jenny non riuscì a riavvicinarsi all’oratorio; lo fece di nuovo nel 1848, raccogliendo più di 1000 sterline con cui creò proprio la Mendelssohn Scholarship Foundation, una fondazione votata alla protezione dei giovani compositori e musicisti. Quella stessa che oggi non sembra voler rivelare la verità sul rapporto tra lei e il compositore.
Ma perché tanto mistero? Che cosa c’è di scandaloso in questa storia? Assolutamente nulla, se si osserva la cosa con occhio disincantato e moderno. Che Mendelssohn non fosse quella figura di romantico e in fondo felice sognatore che lo schmalz Biedermeier tramanda si sapeva da tempo; i danni che questa caricatura borghese ha fatto alle ricezione della sua musica sono gravi, forse pari all’odio che il nazismo gli dimostrò per motivi razziali. Nell’articolo della Duchen, il violoncellista Steven Isserlis – che scopriamo essere lontano parente di Mendelssohn – invita all’ascolto del Quartetto in fa minore (op. 80), per rendersi conto di quanto potesse essere tormentata la sua musica (la sua anima?) sotto la superficie. Ma per qualche oscura ragione, a duecento anni dalla nascita, non si vuole che su questo compositore si getti uno sguardo diretto e limpido. Non comincia in maniera festosa, dunque, il suo anniversario; ma non è detto che tutto il male venga per nuocere.
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Questa è forse la più bella delle arie che il soprano canta nell’Elias: “Höre, Israel!”, con cui si apre la seconda parte dell’oratorio. Il soprano è Elly Ameling, e Wolgang Sawallish dirige l’orchestra della Gewandhaus di Lipsia, nell’incisione Philips del 1968.
In altro a sinistra, Jenny Lind nel 1846, ritratta da Eduard Magnus (Berlino, Staatliche Museen zu Berlin, Nationalgalerie); a destra, Mendelssohn dieci anni prima nel ritratto di Theodor Hildebrandt (Berlino, Deutsches Historisches Museum).
Per un musicista (e più in particolare per un pianista) è un vantaggio essere mancini? Si tratta di un tema vecchissimo, sul quale ogni insegnante ha la propria teoria. Il mancino, come ogni portatore di una qualche diversità dalla maggioranza, ha sempre destato sospetti: in tutte le lingue che io conosca esistono vocaboli che mettono in relazione ciò che è “sinistro” con l’infido, il maligno (che non a caso zoppica, e naturalmente dal piede sinistro). Ci sono insegnanti che con incredibile perseveranza e crudeltà hanno costretto gli allievi mancini a scrivere con la destra; in campo musicale, esistono strumenti a corda per mancini (con le corde, e dunque le relative strutture di sostegno, invertite), e ultimamente c’è anche chi costruisce pianoforti per mancini, anche se la cosa può sembrare totalmente folle.
Ma naturalmente c’è anche l’altra versione. E meno male. Il mancino è portatore di una diversità che, come ogni diversità, può costituire uno straordinario vantaggio non solo per lui, ma per la società intera. D’altro canto non si tratta certamente di una caratteristica rara: si stima che il dieci per cento della popolazione mondiale sia mancino. Ma tornando all’interrogativo iniziale, per un pianista è un vantaggio oppure no? Un piccolo aiuto può venirci da un curioso articolo di Pierre Ruhe pubblicato dall’«Atlanta Journal-Constitution», il principale quotidiano di Atlanta (ringrazio Bart Collins per la segnalazione). Curioso perché non sembra essere stato suscitato dalla comparsa di un nuovo studio o da una dichiarazione di qualche scienziato, ma probabilmente solo dal desiderio di presentare il direttore principale ospite della Atlanta Symphony Orchestra, Donald Runnicles, da un diverso punto di vista; ciò nonostante l’articolo contiene molte informazioni interessanti.
Come molti destri, la mia personale opinione, per esempio, si basava sul luogo comune che essendo la mano destra, tradizionalmente, quella dell’agilità, lo studio del pianoforte potesse rivelarsi particolarmente impegnativo per un mancino; è probabile che l’argomento comporti (inconsciamente) un testo sottotraccia: la mano destra è quella dell’agilità perché la musica è stata composta da musicisti destri per interpreti destri. La sorpresa sta invece nello scoprire che non solo molti grandissimi pianisti erano o sono mancini (Vladimir Horowitz, Arthur Rubinstein, Glenn Gould, Daniel Barenboim, Radu Lupu, Leif Ove Andsnes), ma anche moltissimi grandi compositori; la lista comprende C.P.E. Bach, Beethoven, Schumann, Brahms, Rachmaninoff e Scriabin. E allora, come la mettiamo?
Ma l’articolo si spinge oltre, e afferma che l’essere mancino per un pianista è un vantaggio, come spiega Russel Young, direttore del dipartimento di opera e teatro musicale della Kennesaw State University:
[Se sei mancino] leggi la musica stampata sulla pagina dal basso verso l’alto. Una volta che hai compreso la linea di basso, ne ricavi un’idea più solida della struttura armonica, dato che la mano destra il più delle volte è occupata dal libero andamento melodico.
Non poteva mancare l’opinione dello scienziato. Samuel Wang, docente di Neuroscienze a Princeton, e coautore di Il tuo cervello. Istruzioni per l’uso e la manutenzione (Mondadori 2008) – il pazzo titolo dell’edizione americana era Welcome to Your Brain: Why You Lose Your Car Keys But Never Forget How to Drive and Other Puzzles of Everyday Life – ci spiega che la prevalenza (addirittura!) dei mancini tra i pianisti di massimo livello è un fatto scientificamente prevedibile, poiché suonare a quel livello “è estremamente impegnativo, e qualsiasi vantaggio, per quanto piccolo, si mette subito in forte evidenza”; e prosegue:
I pianisti devono coordinare l’attività di entrambi gli emisferi del cervello, dal momento che ciascuno di essi è responsabile per il movimento di una separata mano. [Nel campo del linguaggio] un mancino su sette coordina il linguaggio attraverso entrambi gli emisferi, mentre tra i destri il rapporto è di uno a venti. Questo comporta il vantaggio di avere il doppio di “spazio disponibile” cerebrale per governare il linguaggio, e può spiegare la quantità di mancini verbalmente dotati – vengono in mente Clinton e Obama.
Lasciando da parte quest’ultima considerazione (poco prima ci era stato spiegato con fierezza che sei degli ultimi dodici presidenti degli Stati Uniti erano mancini), a seguire quest’articolo sembrerebbe dunque che la risposta alla domanda di partenza sia affermativa. Certo, mi piacerebbe sentire quanti maestri di pianoforte sono d’accordo, però l’argomento è interessante, perché al di là del vantaggio tecnico, si allude a una diversa “sensibilità” nei confronti del suono e della struttura della musica, cosa che si riflette nella scrittura e nell’interpretazione.
In ogni caso, l’articolo ci avverte che Runnicles, quando dirige la Atlanta Symphony, rovescia specularmente la disposizione dell’orchestra: “per sentire i bassi nella mia mano dominante, in analogia con quanto avviene al pianoforte”.
Venerdì 2 gennaio, a pagina 5 della «Repubblica» è apparso un breve articolo in cui Daniel Barenboim commenta la drammatica situazione della striscia di Gaza; non l’ho trovato sul sito del giornale, e così lo ricopio io stesso. È un intervento semplice e diretto, che affronta a viso aperto la tremenda difficoltà del conflitto (un “conflitto umano” lo chiama, con quella che mi sembra una bellissima espressione), indicando senza abbandonarsi al luogo comune pacifista l’esigenza inevitabile di una riapertura del dialogo. Barenboim è un musicista, non un politologo, ma scrive e agisce dimostrando la convinzione che nulla di ciò che accade ci possa essere estraneo, ben sapendo che la posizione privilegiata offertagli dallo straordinario livello artistico del suo lavoro può anche essere utilizzata per intervenire nelle grandi emergenze del momento. Ecco il testo:
Per il nuovo anno ho tre desideri. Il primo è che il governo israeliano si renda conto, una volta per tutte, che il conflitto in Medio Oriente non può essere risolto con mezzi militari. Il secondo, è che Hamas si renda conto che non è suo interesse servirsi della violenza e che Israele è qui per rimanere. Il terzo è che il mondo riconosca che questo è un conflitto diverso da tutti gli altri conflitti della storia. È un conflitto complesso e delicato come nessun altro; è un conflitto umano tra due popoli, entrambi profondamente convinti del loro diritto di vivere sul medesimo piccolo lembo di terra. Ecco perché né la diplomazia né l’azione militare possono risolverlo. Gli sviluppi degli ultimi giorni mi preoccupano terribilmente per molte ragioni, sia di natura politica che umana. Sebbene sia di per sé evidente che Israele ha il diritto di difendersi, l’implacabile e brutale bombardamento di Gaza da parte dell’esercito israeliano ha fatto nascere nella mia mente alcuni gravi interrogativi. Il primo è se il governo israeliano abbia il diritto di ritenere tutti i palestinesi colpevoli delle azioni di Hamas. Si può considerare l’intera popolazione di Gaza responsabile dei peccati di un’organizzazione terroristica? E poi, se l’uccisione di civili è inevitabile, qual è lo scopo di questi bombardamenti? Se l’obiettivo delle operazioni è quello di distruggere Hamas, allora la domanda più importante da porsi è se si tratta di un obiettivo raggiungibile. Se non lo è, l’intero attacco è non soltanto crudele, barbaro e riprovevole, ma anche insensato. Se invece fosse davvero possibile distruggere Hamas attraverso le operazioni militari, quale reazione Israele prevede che potrà verificarsi a Gaza una volta conseguito tale obiettivo? Un milione e mezzo di cittadini di Gaza non si inginocchieranno improvvisamente di fronte alla potenza dell’esercito israeliano. La recente storia di Israele mi porta a ritenere che se Hamas venisse distrutta, quasi certamente il suo posto verrebbe preso da un’altra organizzazione, un’organizzazione ancora più estremista, violenta e carica di odio nei confronti di Israele di quanto non sia oggi Hamas. Israele non può permettersi una sconfitta militare per paura di scomparire dalla carta geografica; tuttavia la storia ha dimostrato che tutte le vittorie militari hanno sempre lasciato Israele in una posizione politica più debole a causa dell’affiorare di nuovi gruppi estremisti. Non sottovaluto la difficoltà delle decisioni che il governo deve prendere ogni giorno, né l’importanza della sicurezza. Ciò nonostante, resto dell’idea che l’unico piano di sicurezza a lungo termine veramente attuabile sia quello di conquistare l’accettazione di tutti i nostri vicini. Mi auguro che il 2009 segni il recupero della famosa intelligenza da sempre attribuita agli ebrei. Mi auguro che coloro che detengono le chiavi del potere ritrovino la saggezza di Re Salomone e la impieghino per capire che palestinesi ed israeliani hanno gli stessi diritti umani. La violenza palestinese tormenta gli israeliani e non serve alla causa della Palestina; le ritorsioni dell’esercito israeliano sono inumane, immorali e non garantiscono la sicurezza di Israele. Come ho già detto, i destini dei due popoli sono inestricabilmente intrecciati, e li obbligano a vivere l’uno accanto all’altro. Essi devono decidere se vogliono che ciò sia una benedizione o una condanna.
Una posizione del genere, nella quale l’artista dimostra di essere umanamente radicato nella storia del presente, con competenze e convinzioni serie e fondate e il desiderio di discuterle pubblicamente, è un’eccezione. Gli artisti, anche quelli di ottimo livello intellettuale, generalmente sfuggono a qualsiasi discussione che li possa costringere a prendere una posizione, anche quando passano per “impegnati”.
Pochi giorni prima mi era capitato di leggere l’intervista di Giuseppina Manin a Claudio Abbado, pubblicata sul «Corriere della Sera» del 30 dicembre. Certo, il contesto è molto diverso; certo, il tono è volutamente più leggero; certo, si tratta di un’intervista e non di un articolo. Ma non è la prima volta che un musicista come Abbado, a cui la vita ha dato molte più possibilità di vedere, di incontrare e di conoscere che a gran parte di noi, esprime le sue opinioni sul presente con questa distanza aristocratica. Personalmente la differenza mi ha fatto una certa impressione, ma ognuno faccia le sue valutazioni. È una questione di tono, di rapporto con il mondo e con il presente storico. Una “questione umana” verrebbe da dire, parafrasando Barenboim.
Questo brevissimo spezzone di film muto è stato girato nel dicembre 1928 negli studi della Columbia al Théâtre des Champs-Elysées, a Parigi, e mostra Igor Stravinsky mentre registra L’uccello di fuoco con l’Orchestre des Concerts Straram. È la prima delle tre registrazioni che Stravinsky fece del balletto, composto diciotto anni prima; ha 46 anni, ed è nel pieno del suo “periodo neoclassico” (è l’anno dell’Apollon musagète). Il filmato è molto interessante, perché mostra uno Stravinsky direttore ben più vigoroso di quello, più noto, delle registrazioni americane. La fonte che mi ha permesso di trovare questo filmato è un’interessantissima serie di 3 articoli di Scott Foglesong dedicata all’attività di Stravinsky come direttore, e in particolare alle sue registrazioni discografiche (i tre pezzi trattano rispettivamente: dagli inizi al 1938, le registrazioni mono degli anni 1950–60 e le registrazioni Columbia dei tardi anni ’50 e ’60).
Ma accanto all’interesse intrinseco del filmato e degli articoli, ben scritti e documentati, c’è un altro aspetto che mi preme sottolineare. Scott Foglesong scrive per il sito examiner.com, che rappresenta un esperimento molto interessante per quanto attiene all’informazione del futuro. Nato come versione web dell’Examiner, una rete di giornali locali gratuiti di proprietà del ricchissimo Philip Anschutz, il sito è diventato un esperimento di “giornalismo partecipativo” (citizen journalism); la storia di examiner.com la si può leggere riassunta in questo articolo. Foglesong, docente al conservatorio di San Francisco e a Berkeley, fa parte delle centinaia di “examiners” scelti dal sito (su autocandidatura) dapprima per raccontare la realtà locale e superlocale (si arriva fino ai problemi di quartiere), poi con uno sguardo sempre più diretto all’informazione generale, senza trascurare quella culturale. Oggi il sito ha 1,2 milioni di contatti al mese, e continua a crescere; i contenuti possono sembrare organizzati un po’ caoticamente, ma si sa che gli utenti di internet sono velocissimi a crearsi delle routine. Quello che viene spesso presentato come un remoto futuro, sembra dunque essere già fra di noi, e la citata voce di wikipedia presenta un quadro abbastanza impressionante. Lunga vita alla gloriosa informazione dei grandi media, ma sarebbe bene che cominciassero ad attrezzarsi…
Allevi ha risposto all’intervista in cui Ughi si diceva offeso dal concerto di Natale al Senato (vedi post del 24 dicembre). Come ha risposto? Con una Lettera Aperta. In fondo quello che riguarda lui riguarda l’Arte, e dunque due righe avvelenate nella pagina della Posta gli sarebbero sembrate da morti di fame. E cosa scrive, in questa Lettera Aperta? Fa l’Allevi. Una miscela di furberia, giovanilismo piagnone, autocommiserazione che poi diventa autoesaltazione per concludersi nell’autotrionfalismo più scatenato (spacciato per “visionarietà”).
Dunque comincia con una favoletta, quella del giovane compositore che va a un concerto della grande star Uto Ughi e ne resta tanto colpito da andare nel suo camerino a chiedergli un autografo: è l’unico autografo che Allevi abbia mai chiesto a un artista, ed è successo 10 anni fa. Che strana idea, quella diarrivare a 28 anni senza chiedere mai un autografo a nessuno, e poi improvvisamente chiederlo a Uto Ughi. Boh. In ogni caso, ottenuto il prezioso feticcio, Allevi torna nel suo monolocale; perché ci dà la metratura di casa sua? Perché ci vuole dire che è povero, è fuori dai giochi, non conosce nessuno del mondo rutilante dello spettacolo:
Io non avevo amicizie influenti, a stento arrivavo alla fine del mese, affrontavo grandi sacrifici per diplomarmi in Composizione e il biglietto del concerto l’avevo pagato. Ma ora avevo l’autografo di uno dei più valenti violinisti del mondo: lei, Maestro Ughi.
Ecco, praticamente la piccola fiammiferaia. Ma la fase dell’autocommiserazione dura poco. Mentre la “casta” difendeva i suoi onori e le sue ricchezze, Allevi studiava duramente, confortato dalla Fenomenologia di Hegel (!). Ed ecco che, all’improvviso arriva l’illuminazione. Allevi capisce la propria missione:
Perché costringere il pubblico del nostro tempo a rapportarsi solo a capolavori concepiti secoli fa, e perdere così l’occasione di creare una musica nuova, verace espressione dei nostri giorni, che sia una rigorosa evoluzione della tradizione classica europea? La musica cosiddetta «contemporanea», atonale e dodecafonica, in ogni caso non è più tale, perché espressione delle lacerazioni che agitavano l’Europa in tempi ormai lontani. Ecco allora il mio progetto visionario. È necessario uno sforzo creativo a monte, piuttosto che insistere solo sull’educazione musicale, gettando le basi di una nuova musica colta contemporanea, che recuperi il contatto profondo con la gente. Ho provato a farlo, con le mie partiture e i miei scritti. È stato necessario.
Il giochino è abbastanza semplice: si dice che la musica contemporanea è quella delle lacerazioni del passato, quella brutta e difficile, insomma quella derisa da Alberto Sordi nelle Vacanze intelligenti. E quindi il suo tentativo diventa quello di ricucire lo strappo, di ridare al presente una musica del presente. Ora, che il suo problema sia stato posto da gran parte dei compositori degli ultimi trent’anni (e più) lui non lo dice. Lui legge Hegel e capisce cosa deve fare; che ci sia stato un minimalismo americano, e poi un postminimalismo, che in Italia sia stata scritta della musica definita neoromantica, che mezzo mondo non navighi più nella scia di Boulez, Allevi fa finta di non saperlo, e in ogni caso non lo dice. Ed ecco che l’accusa di sfruttare l’ignoranza della gente diventa piuttosto ragionevole. Ma l’ardito innovatore si spinge più in là:
Da amante di Hegel, quindi, sapevo benissimo che l’ondata di novità avrebbe mandato in crisi il vecchio sistema e che i sacerdoti della casta, con i loro adepti, non potendo riconoscere su di me alcuna paternità, avrebbero messo in atto una criminale quanto spietata opera di «crocifissione di Allevi».
Ora, che Allevi sia stato addirittura “crocefisso” dai sacerdoti della casta è cosa alquanto difficile da sostenere: è coccolato e invitato da tutte le maggiori istituzioni musicali, è presentato a tutte le ore su tutti i canali televisivi e radiofonici come il nuovo Mozart e, con tutto il rispetto, non mi sembra che Ughi abbia la statura per impersonare il Salieri del film di Forman (e del dramma di Schaffer). Ma la sua rivoluzione parte dal basso, vuole dirci:
Non c’è alcuna macchinazione, tutto è assolutamente limpido e puro: le persone spontaneamente hanno scelto di seguirmi. Ma bisogna smettere di ritenere ignorante la gente «comune». Il pubblico cui si rivolgeva Mozart nel XVIII secolo era forse più colto del nostro?
Eppure era chiaro che nessuno si fosse mai detto offeso dal successo di Allevi. Ognuno ha il diritto di scrivere e di ascoltare quello che preferisce. Il problema nasce quando qualcuno ti dice che ciò che sta facendo è l’eccellenza di un certo ambito, ma qualsiasi considerazione stilistica, estetica e storica che abbia un minimo di costrutto indica platealmente il contrario. E qui, curiosamente, Allevi usa un argomento abbastanza inconsueto: invece di sostenere che non ha senso chiedersi se la sua musica sia “classica” o meno – si consideri che tutto nasce da un concerto al Senato spacciato per concerto classico di altissimo livello – usando la vecchia e alquanto usurata argomentazione della scomparsa delle distinzioni fra i generi musicali, dell’esigenza della contaminazione, del meticciaggio ecc., invece di fare tutto questo, lui rivendica la purezza razziale della sua musica:
È una musica colta che non può prescindere dalla partitura scritta e che rifiuta qualunque contaminazione, con le parole, con le immagini, con strumenti musicali e forme che non siano propri della tradizione classica. […] La mia è una musica classica, perché utilizza il linguaggio colto, la cui padronanza è frutto di anni di studio accademico. […] La mia non è una musica pop, perché non contempla alcun cantante, alcuna chitarra elettrica e batteria e non usa la tradizione orale, o una scrittura semplificata come mezzo di propagazione…
Insomma non è uno scherzo: Allevi vuole proprio affermare che la sua è la “musica classica” del presente e del futuro, e che l’unico motivo per cui una persona come Ughi – che con la musica contemporanea “lacerata” e dissonante ha lo stesso legame che potrebbe avere con l’heavy metal – lo rifiuta è perché Ughi è un Gran Sacerdote della casta passatista. Abbastanza incredibile.
Ma il vero capolavoro è la chiusa, dove sotto i lineamenti dell’artista del futuro si riaffacciano quelli, imbronciati, della piccola fiammiferaia: “Quel suo autografo che ho sempre conservato gelosamente, dopo tanti anni, per me ora non conta più niente”. Addio, Bruto Ughi!
Un altro caso che fa riflettere sul diritto di critica, e sulle regole connesse. Molti ricorderanno il nome di Gilbert Kaplan, l’ex giornalista e prodigio di Wall Street, che dopo aver fondato un giornale finanziario nel 1965 e averlo diretto per molti anni, riuscì a venderlo nel 1990 per 72 milioni di dollari, dedicandosi poi quasi a tempo pieno allo studio e alla direzione di un’unica composizione, la Seconda Sinfonia di Gustav Mahler. Il ritratto migliore l’ha fatto nel novembre scorso l’Economist. Kaplan aveva sentito per la prima volta nel 1965 la sinfonia diretta da Stokowski e ne era rimasto letteralmente fulminato; all’epoca non sapeva neppure leggere la musica, ma era già una personalità rilevante della finanza mondiale. Negli anni la sinfonia “Resurrezione” divenne per lui quasi un’ossessione: passa mesi tra lezioni private di musica e di direzione da musicisti come Bernstein, Solti e Slatkin per venirne a capo; nel 1982 affitta il Lincoln Center, paga un’intera orchestra (la American Symphony Orchestra) e dirige per la prima volta la sinfonia dei suoi sogni davanti a un pubblico di economisti giunti a New York per un importante convegno. Fin qui nulla di troppo strano; di facoltosi dilettanti è piena la storia, e Kaplan non è stato né il primo né l’ultimo a togliersi uno sfizio gigante come quello di dirigere un’orchestra pagandola. Ma la vicenda di questo strano e a modo suo geniale personaggio è andata ben oltre. Oggi non solo ha diretto più di 50 orchestre, fra cui tutte le migliori del mondo – Scala compresa, nel 1992 – ma ha inciso la Seconda di Mahler ben due volte, la prima con la London Symphony, la seconda per la Deutsche Gramophon con i Wiener Philharmoniker. E, come se non bastasse, il primo dei due dischi, inciso nel 1985 per la Conifer, ha venduto più di 180mila copie, superando di gran lunga qualsiasi altro direttore, da Bernstein ad Abbado.
Ma c’è di più. Nel 1992 compra da una biblioteca olandese la partitura autografa della sinfonia, e la pubblica in fac-simile. Colleziona le decine di partiture a stampa contenenti le annotazioni autografe di Mahler, pubblica una nuova edizione critica integrandone le informazioni più rilevanti, scrive numerosi saggi e articoli. Il mondo della musicologia è diviso, ma nessuna voce critica si fa sentire con particolare forza: Kaplan sembra essere persona troppo intelligente e influente per attirare vere antipatie. Fino a qualche giorno fa.
L’8 dicembre scorso, infatti, Kaplan dirige per la prima volta la “sua” sinfonia con la New York Philarmonic; non è un’orchestra qualunque: è l’orchestra che Mahler stesso, negli ultimi e difficilissimi anni di vita, accettò di dirigere stabilmente, lasciando Vienna. È anche l’orchestra/simbolo del grande Lenny, uno che di Mahler se ne intendeva. Oltre tutto nella serata dell’8 si celebrava il centenario del compositore, e il concerto rivestiva pertanto una rilevanza tutta particolare. La serata andò come le precedenti: tutti sanno che il gesto di kaplan non è né elegante né comunicativo, che le sue esecuzioni non sono certo impeccabili, che a volte stenta a mantenere il controllo della difficilissima partitura, e via dicendo; ma qualcosa nel lavoro di Kaplan attira il pubblico e la critica, e forse la pubblica proiezione dell’idea di un sogno che si realizza non è estranea alla questione; fatto sta che la sala è, come del resto in quasi tutti i concerti di Kaplan, totalmente piena fino agli ultimi ordini di posti. Il New York Times manda un suo critico, che scrive il pezzetto d’ordinanza con qualche freddezza e molte lodi. Tutto tranquillo, apparentemente.
Il 15 dicembre accade tuttavia l’imprevedibile. Uno strumentista dell’orchestra, il trombonista David Finlayson, apre un blog (Fin Notes) e scrive un post in cui manifesta tutto la sua indignazione per l’affronto subito dall’orchestra. Quello che scrive è quanto nessun critico ha mai avuto la voglia o il coraggio di scrivere: Kaplan non sa dirigere; è incapace di mantenere un tempo corretto, di dare una qualsiasi forma alle frasi, di realizzare le indicazioni dinamiche e di mantenere l’equilibrio sonoro; in numerosi passaggi solo la professionalità dell’orchestra lo salva dal disastro; persino la sua tanto sbandierata conoscenza enciclopedica della partitura è una bufala; insomma, il direttore è un autentico ciarlatano, paragonabile al personaggio interpretato da Brad Pitt in Prova a prendermi (Catch me if You can).
Apriti cielo. La notizia viene ripresa con grande risalto dallo stesso New York Times che aveva mandato il suo critico benevolo, e scoppia il caso. L’opinione pubblica, se ha ancora senso definire così le molte reazioni che giungono ai siti dei giornali e ai blog, è divisa, così come del resto lo è anche la critica. Alcuni sostengono che Finlayson ha tutto il diritto di esprimere quella che, a giudicare dall’articolo del NYT, è l’opinione condivisa da gran parte dei suoi colleghi. Che lo sbaglio, caso mai, l’ha fatto il management dell’orchestra, invitando una figura come Kaplan a dirigere da un podio dell’importanza storica e artistica della NY Philharmonic. Altri sostengono invece che il comportamento del trombonista è ingiustificabile, e che scrivendo quello che ha scritto è venuto meno ai suoi doveri di fedeltà e discrezione nei confronti dei colleghi e dei suoi datori di lavoro. In molti invocano persino una punizione esemplare, la sospensione o il licenziamento. Tra le voci decisamente critiche nei confronti di Finlayson si leva anche quella, sempre acuta e severa, di Norman Lebrecht (che tuttavia non nasconde la sua vecchia amicizia con Kaplan – e che pochi giorni prima aveva scritto una sorta di peana per l’avvenimento newyorkese).
Chi ha ragione? Finlayson doveva tacere o aveva il diritto di scrivere quello che ha scritto? Il fatto che a un facoltoso dilettante come Gilbert Kaplan vengano concesse possibilità che a molti direttori ben più capaci di lui saranno sempre negate è uno scandalo o un fatto del tutto normale? È strano, ma dovendo dire la mia, io sceglierei entrambe le risposte. Finlayson forse poteva (o meglio doveva) scegliere mezzi più ortodossi per manifestare il suo disappunto, che avrebbe dovuto colpire per primo il sovrintendente dell’orchestra. Ma che la qualità effettiva degli interpreti sia così spesso dimenticata da coloro che per mestiere dovrebbero garantirla (o che dovrebbero vigilare su di essa), a tutto vantaggio di aspetti economici o di marketing, è indubbiamente scandaloso, anche non rivestendosi della palandrana del moralista. Zarin Mehta, il sovrintendente dell’orchestra ha negato all’intervistatore del NY Times qualsiasi pagamento da parte di Kaplan, ma tutti sanno benissimo che le istituzioni musicali americane hanno un dannato bisogno di denaro privato, e il sostegno di una figura come Kaplan non è certo qualcosa da mettere in secondo piano. Ciò non toglie che quel concerto suonava veramente stonato. Dimenticavo: Kaplan dirigeva con la bacchetta di Mahler: sua anche quella.
PS. Stamattina ho assistito a un pezzo del concerto di Giovanni Allevi nella sala del Senato della Repubblica Italiana. A parte i toni da cinegiornale Luce dei commenti televisivi, sono rimasto molto impressionato da quel che vedevo e sentivo. Che cosa c’entra? Mah, è difficile spiegare, eppure c’entra…
Mentre le emittenti radiofoniche dedicate alla musica classica stanno affrontando difficoltà economiche più o meno gravi in tutto il mondo, c’è n’è una che prospera, se non economicamente, in fatto di abbonati e ascoltatori. Si tratta della storica Concertzender, un’emittente olandese che, come la nostra coraggiosa amica Rete Toscana Classica, è ascoltabile anche attraverso la rete, ma a differenza di quest’ultima appartiene al circuito del Sistema radiofonico pubblico olandese (NPO — Nederlandse Publieke Omroep), e dipende quindi largamente da un contributo pubblico che si aggira intorno ai 500 mila euro annui. Concertzender può tuttavia contare anche su un nutrito gruppo di sostenitori privati, che contribuiscono sia con il lavoro volontario sia con aiuti economici al sostentamento della loro emittente amica. Oltre alla musica classica (con un canale dedicato all’antica) Concertzender trasmette musica world e jazz, oltre a registrare decine di concerti dal vivo per diffonderli in un canale streaming dedicato. Gli ascolti vanno bene e crescono, e i contatti via etere e via rete si aggirano intorno alle 600 mila unità, senza contare gli ascoltatori via cavo.
Bene, dovrebbero essere tutti felici di un gioiello del genere, vero? E invece no. Perché 600 mila ascoltatori sono davvero troppi, e danno fastidio. E dunque i dirigenti delle altre radio pubbliche hanno chiesto a gran voce allo stato il taglio dei finanziamenti a Concertzender. E, incredibile a dirsi, l’hanno ottenuto. Ieri l’altro è stato comunicato ai dipendenti dell’emittente che l’amministrazione pubblica ha deciso per la sospensione del finanziamento (attenzione, non a causa della crisi, ma per ridistribuire il contributo destinato a concertzender sulle altre emittenti attive – non di classica, ça va sans-dire). Gli ascoltatori di tutto il mondo si stanno mobilitando, ma l’efficacia della protesta è dubbia. I dirigenti e i collaboratori, invece, stanno facendo i loro conti per capire se sarà possibile proseguire le trasmissioni dopo il taglio del sostegno pubblico. Quello che gli ascoltatori vecchi e nuovi possono fare, è mandare un messaggio a questo indirizzo, dicendo con tutti i punti esclamativi del caso che quella del taglio dei finanziamenti è veramente una pessima idea.
E c’è anche da dire che la questione degli ascolti alti ma non abbastanza, dei finanziamenti e dell’indifferenza nei confronti della sostanziale scomparsa della musica classica (e jazz, e world di alto livello) dalle trasmissioni radio ricorda molto da vicino la più volte minacciata eliminazione del canale Auditorium della (ex) filodiffusione, ascoltabile purtroppo in poche città italiane via radio, e su tutto il territorio raggiunto dall’Adsl via internet. Che rabbia.
AGGIORNAMENTODEL 20 NOVEMBRE 2008
Qualcosa si muove. Dopo le proteste via internet arrivate da tutto il mondo, il ministro della cultura olandese ha dichiarato che farà pressione sul Nederlandse Publieke Omroep (NPO) perché i contributi a Concertzender non vengano sospesi. Qui la pagina in cui l’emittente annuncia la novità.
In un mondo in cui la musica torna ad essere uno strumento di comunicazione politica con sempre maggiore frequenza, non può stupire quanto è successo ieri l’altro nella capitale dell’Ossezia del Sud, Tskhinvali. Mentre ancora le diplomazie internazionali discutono sulla realtà del ritiro russo dal territorio osseto (o georgiano, a seconda di come si voglia leggere questa difficilissima crisi), Valeri Gergiev ha diretto l’Orchestra Filarmonica di San Pietroburgo davanti al municipio cittadino, gravemente danneggiato dal bombardamento georgiano. Ne scrive, sulla Repubblica di oggi, in terza pagina, l’inviato Renato Caprile, con un tono che fa trapelare un certo filoatlantismo; il pezzo si chiude con la traduzione del discorso tenuto da Gergiev prima del concerto, prima in russo e poi in inglese. Nella versione di Caprile, Gergiev dice una cosa che non viene comfermata da nessun altro dei numerosi giornali stranieri che hanno dedicato spazio alla notizia. “Sono qui per testimoniare tutto il mio dolore. Sono osseto come voi e come voi spero che cose del genere non si ripetano mai più. Ma tutto il mondo deve sapere di questa distruzione e dei nostri duemila morti”: questo è quello che avrebbe detto Gergiev (“Poi per fortuna la parola passa finalmente alla musica”, chiosa l’inviato di Repubblica). I duemila morti sono quelli che la diplomazia russa tenta di far accreditare come conseguenza dell’attacco georgiano; un dato tutto da provare, su cui molto si discute. Se è corretta la versione di Caprile, Gergiev avrebbe fatto un’affermazione tutt’altro che portatrice di pace.
Gergiev è nato a Vladivkavkaz, capitale dell’Ossezia del Nord (e dunque di quella parte del territorio osseto compreso nella Russia); anche sua moglie Natalya è osseta, e per la piccola e contestata repubblica indipendente caucasica, il frenetico direttore d’orchestra è il figlio più illustre, l’artista che riscatta agli occhi del mondo un intero popolo oppresso. Su queste basi non c’è da dubitare sulla sincerità di un gesto di inconsueta forza e di indubbio coraggio. Ma naturalmente c’è dell’altro.
Il concerto è stato presentato ai media come un solenne requiem per i morti del bombardamento georgiano; un grande concerto per la pace, trasmesso in diretta dalla televisione russa. Il legame fortissimo tra Gergiev e Putin è noto (“sono parenti” dice Caprile; in realtà Gergiev ha fatto da padrino alle due figlie di Putin, e questi ha ricambiato facendo altrettanto per uno dei figli di Gergiev). Un’amicizia saldissima, che ha come conseguenza gesti plateali di sostegno e appoggi meno vistosi ma altrettanto significativi. Quello che viene da chiedersi è quale sia il valore di un concerto per la pace in cui si afferma con forza il ruolo di salvatore della Russia di Putin, e in cui si accredita internazionalmente la versione russa, mentre ancora è dubbio se i combattimenti siano davvero cessati, quale sia il numero delle vittime, se vi sia stata o meno una qualche forma di “pulizia etnica”, e da quale parte sia stata condotta.
Un gesto per la pace che è in realtà uno straordinario gesto dalla valenza prettamente, violentemente politica. In una piazza interamente russa, la maggiore istituzione musicale russa suona due autori russi, Čaikovskij e Šostakovič, per ricordare le vittime russe. Tutto questo all’interno di quello che i georgiani considerano ancora proprio territorio, e dove comunque si suppone (e si spera) che ancora risieda una parte di comunità georgiana. Le composizioni scelte non sono meno cariche di significati politici: la Quinta di Čaikovskij e la Settima di Šostakovič, due sinfonie legate per motivi diversi a un evento centrale della storia russa, l’assedio nazista a Leningrado. L’equiparazione tra i due momenti storici è stata poi espressamente ribadita da Gergiev. Tskhinvali come Leningrado. Se non è politica questa…
Ciò che potrebbe stupire è la prudenza con cui gran parte dei media internazionali hanno trattato il concerto, prudenza che ricalca per molti versi quella tenuta nei confronti dell’intera crisi osseta. Tutta questa esaltazione del ruolo di salvatore della Russia, tutto questo sventolare di bandiere russe e di valori russi a sostegno di una minuscola repubblica che si proclama indipendente? Ma indipendente da chi, solo dalla Georgia o proprio da tutti? Ma quello che importa qui non è certo stabilire a chi spetti il ruolo di invasore e a chi quello di carnefice, quanto sottolineare come ancora una volta la musica sia diventata un potente mezzo di propaganda politica, in un processo nel quale alle note sono sovrapposti significati che finiscono per annegarle in uno spaventoso frastuono di cingolati. Anche se tutto fosse stato fatto con le migliori intenzioni.
AGGIUNTADEL 14 NOVEMBRE 2008. Ecco il link al video di Youtube dove in inglese Gergiev parla effettivamente dei 2000 morti dell’attacco giorgiano.
Nella prima foto, il pubblico assiste al concerto di Gergiev a Tskhinvali. Foto di Joao Silva per The New York Times.
Mettiamo che uno voglia capire come è andato l’Otello diretto da Muti a Salisburgo. Mettiamo che apra il «Sole24ore». Carla Moreni: “Quanto è nuovo, audace, tragico e radicalmente diverso da tutte le interpretazioni mai sentite di Otello questo di Riccardo Muti a Salisburgo”; e giù, una sbrodolata sul cavaliere solitario (“straordinariamente solo, su una strada di teatro che nessun altro poi percorrerà”), propagatore incompreso del bello, attorniato da una manica di incapaci. E ancora: “Quando c’è Riccardo Muti sul podio, e sempre di più negli ultimi tempi, come in un gesto di deliberata solitudine o solipsismo, la clessidra del teatro parte solo dal podio”. Ma accanto al registro lirico, Moreni usa anche quello sarcastico, principalmente nei confronti del regista e della sua orrenda pedana di plexiglas: “lì ha luogo quasi sempre l’azione. Tutti fermi, impalati come manichini”. Boh, che strano, questa storia dei cantanti impalati mi ricorda qualcosa… Ma no, andiamo avanti. La compagnia di canto: mediocre, incapace di seguire la siderale visione del Maestro. Ancora un’offesa al Grande: lui, incompreso, solo, geniale e sconfitto. Gli impongono una compagnia mediocre. A parte Alvarez, dice Moreni, “gli altri sono corretti”, ma la loro correttezza “non è di Verdi”, come a dire, ‘non è di Muti’. Ma che strano, anche questa cosa delle regie e dei cast mediocri mi ricorda qualcosa… Ma no, dev’essere stata una serata meravigliosa. Che peccato non essere lì. Grazie di avercelo raccontato con tanta passione, Moreni.
Mettiamo poi che il nostro amico apra la Repubblica. “Muti illumina la violenza di Otello” urla il titolo. Dino Villatico: “a prevalere è lo scatenarsi di una violenza esasperata, sul limite della rottura degli equilibri sonori e del rumore. Ma proprio per questo il capolavoro verdiano sembra acquistare una luce nuova: lo scavo nell’ inferno delle passioni, come sempre sospese nell’ irreale di un mondo come lo si vede e non come è, proietta un’ombra cupa, amarissima sulla visione che l’ ultimo Verdi ha della vita. Verdi, sotto la bacchetta di Muti, è il compositore della disperazione senza speranza”. La disperazione senza speranza! Ah, come dev’essere stato profondo, questo spettacolo! Come il mare, profondo ed infinito! Però Villatico sullo spettacolo è più prudente “Sulla scena si vede uno spettacolo bellissimo, ma non di uguale forza interpretativa”. Un colpo al cerchio e uno alla botte. È bello ma non tanto bello quanto quello che fa Muti, e la sua ottima compagnia di canto (“dolcissima, incantevole” Desdemona, “un personaggio complesso” Otello, “sottile, diabolico e per nulla trucido” Jago). Insomma, una grande serata, anche sul fronte vocale. È Moreni che, come al solito, è un po’ ipercritica.
Ma il nostro amico si vuole documentare, e compra anche il Corriere. Va beh, Paolo Isotta. Uffah! Però dicono che sia colto, che diamine, leggiamo! “Il meglio diretto che abbia mai ascoltato (Riccardo Muti)”. Addirittura! e con tanto di parentesi, casomai qualcuno avesse dei dubbi. Isotta non riesce a comprendere le contestazioni al tutto sommato pregevole e onesto regista, e cerca conforto in “una straordinaria pagina del Gibbon su Costanzo II”. Con il risultato che non riusciamo a spiegarcele neanche noi, le contestazioni. Ma la musica? “Quest’ Otello concertato da Muti è di un suono sontuoso, rutilante eppur trasparente, che fa vibrare tutta la sala dai vertici dell’ottavino alle note gravissime del cimbasso”. Diavolo di un Isotta. Il cimbasso. C’è sempre qualcosa da imparare. Un euro speso bene. E la compagnia? Ottima, e dove non lo è lo diventerà. Che vuol dire lo diventerà? “Antonenko: diciamo che se non è oggi un Otello perfetto lo sarà domani”. Ma certo, chi lo ha scelto ha peccato per preveggenza. È la passione: si sa, non tollera attese.
Ora il nostro amico è preparatissimo. Ha maturato la sua idea. Che spettacolo! Che direttore! La disperazione dell’ultimo Verdi! Senza speranza! Può affrontare qualsiasi discussione: è come se quel 1° agosto di Salisburgo, benedetto da Apollo e da Dioniso, ci fosse stato anche lui al Grosses Festspielhaus. Ma a Roma non se lo farà scappare, il grande spettacolo. Sarà lì, il 6 dicembre. Il giorno prima di Sant’Ambrogio. Muti è un grande, non è vendicativo.
Mettiamo ora che il nostro amico compri un biglietto di treno, e passi la frontiera. A Chiasso, per far piacere a Arbasino, o dal Frejus, o da dove vuole lui. Mettiamo che si trovi a chiacchierare con un appassionato d’opera inglese, o tedesco, o francese, o americano. Il discorso cade sull’Otello di Salisburgo. Questa la so, dirà il nostro omino: “Ah, la meraviglia, la solipsistica grandezza del direttore, la disperazione senza conforto dell’ultimo Verdi! Peccato il cattivo regista, che ha ingessato i cantanti; peccato la compagnia, con luci e ombre, forse non all’altezza del grande direttore! ma si sa, i grandi direttori, come eroi romantici, devono lottare contro le avversità del destino. E il destino aveva scelto per loro quei cantanti”.
Mettiamo ora che invece di incontrare l’ammirazione dei suoi interlocutori li veda sganasciarsi dalle risate. Mettiamo che aprano le loro valigie, e gli mettano davanti agli occhi tutti i giornali del mondo, o meglio quei pochi fra i giornali o siti internet del mondo che non ignorano quel club per miliardari sprassolati che si chiama Festival di Salisburgo! Il nostro amico forse mastica un po’ di lingue e, piano piano, cercherà di decifrare gli articoli che gli squadernano di fronte.
Orrore! Come in un incubo, come nello specchio deformante di un luna-park! tutte le sue certezze in fumo! ma come è stato possibile? Neanche uno che capisca la disperazione dell’ultimo Verdi! Il grandioso solipsimo del nostro direttore, il Grande Diseredato! NZZ: “Riccardo Muti è responsabile di molti problemi: semplicemente, suona così forte da non lasciare spazio a nessuno”. Ignoranti! Bloomberg: “La compagnia restava imbambolata, il più vicino possibile alla ribalta, con gli occhi fissi a Muti… Il Verdi di Muti è esplosivo, teso e carico di energia grezza. Ma è anche fracassone, brutale e sgradevolmente autocratico”. Dannati americani, cosa possono capire della clessidra del teatro! Non se lo meritano, a Chicago! La Berliner Zeitung: “Niente da dire: Riccardo Muti viene da una lunga tradizione verdiana. Ma è proprio questo il problema: non viene soltanto, lì rimane e non fa che riprodurla”. Come? E il “nuovo, audace” Otello di Moreni? Berlinesi provinciali, cosa ne sanno loro di innovazione! Per fortuna il Figaro non ci tradisce con parole simili ai nostri beneamati, ma per il resto è un disastro. Il Tagesspiegel? “Quello che [Riccardo Muti] fa di una delle partiture più intelligenti e avanzate rasenta lo scandalo. Si tratta del solito trucco: finché suoni fortissimo, nessuno si accorge di nulla”. Screanzati! E il cimbasso, dove lo mettiamo? Ma non è finita. Basta fare una ricerca su internet: uno sfacelo. Nessuno trova le parole alate, i trasporti lirici dei nostri critici. Se non si fosse trattato di un’unica recita, si potrebbe dire che la critica italiana non ha visto lo stesso spettacolo degli altri.
Come mai? Come è potuto succedere, si chiederà il nostro omino sbeffeggiato? Può essere che la nostra gloriosa e coltissima critica sia macchiata di sordido provincialismo? Oppure sono questi tedeschi, questi austriaci, questi inglesi e americani che non capiscono il vero genio musicale, perso su una strada di teatro che nessun altro poi percorrerà?
Mistero fitto. E neppure una riga del Gibbon a darci una mano.
APPENDICEDEL 9 AGOSTO 2008: aggiungo la Frankfurter Allgemeine Zeitung (FAZ), e la sua severissima stroncatura, intitolata “Un carrozzone di esibizionismo musicale”: “Il maestro, fedele alla sua fama di spregiatore del teatro di regia, si è anche premurato che il regista se ne stesse obbediente in riga” (ma porca miseria, bisogna andare a Francoforte per leggere questa semplice verità? Forse Moreni non la sa?); e ancora: “Riccardo Muti ha condotto i navigati Wiener Philharmoniker come un carrozzone di lusso attraverso questa opera profonda ed ambigua. Tanto sportivo, veloce, liscio, e furbesco, da farci pensare che ad ogni battuta ci dicesse «qui mi trovo a mio agio». Tutto risuonava di un sound monotono ma risplendente, che aveva una sola qualità: il volume forte. Un carrozzone di esibizionismo musicale sotto il cui ingombro i cantanti, tra i quali il ben preparato, anche se del tutto privo di colore, Otello di Aleksandr Antonenko, non potevano che soffrire”. Ma a noi italiani, cosa ci manca per poter leggere degli articoli così?
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