A Parigi, in casa di Nadia

30 Giugno 2008 § 0 commenti § permalink

stravinsky-e-nadia-boulangerÈ difficile sopravvalutare l’influenza che Nadia Boulanger ha avuto sulla musica del Novecento. I suoi Mercoledì, durante i quali una cinquantina di studenti e ammiratori, celebri e meno celebri, invadevano il celebre appartamento di rue Ballu 36 – una casa letteralmente traboccante di libri, partiture, strumenti, fotografie e cimeli – sono ormai entrati nella leggenda. “Mademoiselle”, come era affettuosamente definita, vi teneva banco con le sue dottissime analisi, gli ascolti di nuove composizioni, la conversazione sempre elevata e brillante, ma in nessun caso sciatta o salottiera; con i suoi occhiali a pince-nez, così professorali e inconsueti su un volto femminile; con la sua profonda intimità intellettuale con molte delle maggiori menti artistiche del secolo. Fauré, Stravinsky, Valèry, Cocteau, Gershwin, Bernstein, la principessa di Polignac, Szeryng fra i tantissimi frequentatori; un’intera generazione di compositori americani tra i suoi allievi (gli “americani a Parigi” degli anni Venti): Carter, Copland, Piston, Thomson ecc., ma anche molti direttori d’orchestra (Baremboim e Gardiner per fare tre nomi “recenti”); pianisti, come il grande Dinu Lipatti; ma osservare la lista dei frequentatori e degli allievi è sorprendente per l’impressionante escursione temporale e culturale dei suoi ammiratori, da Jaques Ibert a Piazzolla, da Menotti a Philip Glass o a Quincy Jones. Prima donna a dirigere una grande orchestra come la New York Philarmonic, Nadia Boulanger ha rappresentato per anni il concetto stesso di cultura musicale; poi qualcosa ha cominciato a cambiare. La sua distanza dalle tecniche della serialità (distanza nutrita di rispetto e di competenza, come sempre nel suo caso) l’ha resa invisa ai giovani rampanti degli anni Sessanta e Settanta, Boulez in testa, che cominciarono a parlare sprezzantemente del suo entourage come di un mondo di bolsi accademici (la “boulangerie” lo definivano, con una battuta che grazie alla sua facile rozzezza diventò presto celebre).

dvd_boulangerÈ una storia che ci viene oggi raccontata dal riversamento in DVD di un film del 1977 di Bruno Monsaingeon intitolato proprio Mademoiselle, e girato su pellicola in b/n in occasiuone dei novant’anni della Boulanger. Il film dura 80 minuti circa, e se non fosse per il suo altissimo valore documentario si potrebbe dire che è un’opera minore di questo grande regista documentarista. Ma assistere a una lezione della Boulanger, già molto anziana, ascoltare il suo francese coltissimo e perfetto, ammirare l’esibizione naturale e continua di “clartè” del suo pensiero, la prontezza con cui risponde alle domande, a volte un po’ fumose o vagamente petulanti, dell’intervistatore ne fanno uno spettacolo straodinario. Accompagnano la visione due commentatori d’eccezione: il misterioso Igor Markevitch, e il grande Leonard Bernstein, naturalmente seduto al pianoforte.

Racconta Monsaingeon nelle note di copertina che originariamente il film si apriva con una scena di Love Story, il film drammatico/sentimentale di Arthur Hiller che a partire dal 1970 ha fatto piangere generazioni di innamorati. Nella trama del drammone, lei, la semplice e bellissima musicista (Ali MacGraw), per sposare lui (Ryan O’Neal), ricco e altoborghese, aveva rinunciato alla borsa di studio a Parigi a cui tanto teneva; lui aveva rinunciato al patrimonio di famiglia e alla brillante carriera connessa. La scena, tagliata dal DVD per una questione di diritti, era quella, precedente al sacrificio, in cui lei comunicava a lui che sarebbe partita per la Francia: aveva finalmente ottenuto la possibilità di andare a studiare a Parigi con la celebre Nadia Boulanger. Cosa non si fa per amore.

Due diversi modi per festeggiare Messiaen

31 Maggio 2008 § 0 commenti § permalink

messiaen_cristal

Il prossimo 10 dicembre saranno passati 100 anni dalla nascita di Olivier Messiaen, e gli omaggi hanno da tempo cominciato ad apparire un po’ ovunque. Qui vorrei ricordarne due, di taglio molto diverso: il film di Olivier Mille, intitolato La Liturgie de cristal, del 2002, da poco pubblicato in DVD nella bella collana “Juxtapositions” (The Crystal Liturgy, Ideale Audience 2007), e un buffo quanto incongruo articolo che gli ha recentemente dedicato il «Nouvel Observateur».

Il film di Mille è un bellissimo omaggio. Comincia con una lunga sequenza di canyon dello Utah, per poi ripercorrere la vita creativa di Messiaen per ampi capitoli, utilizzando frammenti di interviste, scene di paesaggio ed esecuzioni musicali. Ci sono tutti gli aspetti della lunga e per molti versi sorprendente vita di Messiaen: l’ornitologo serissimo, appassionato, spesso quasi infastidito dalla sufficienza con cui talvolta era (e per molti versi tuttora è) considerato questo aspetto della sua creatività. Lo studioso di discipline filosofiche e spirituali, con il capitolo sul Giappone, e l’indissolubile legame con le immagini e i motivi della fede cattolica. Messiaen compositore, dalla classe di Dukas alle prime creazioni, il campo di prigionia e la genesi del Quatuor puor la fine du temps, poi le tante fasi e la straordinaria ricchezza e varietà del suo catalogo, compreso il periodo americano e il vasto affresco di Des Canyons aux Etoiles (con delle belle riprese del Mount Messiaen, la montagna che gli fu dedicata nello Utah nel 1978). E ancora: Messiaen didatta, con gli interessanti frammenti di lezione al Conservatorio. E sopra tutto, molta bellissima musica, dal Catalogue des oiseux al San Francesco d’Assisi. Tutto in un’ora, sinteticamente riassunto ma non imbottito d’informazioni. Il DVD comprende anche tre frammenti di un precedente documentario di Mille su Messiaen, Des canyons aux étoiles, le Mode d’Olivier Messiaen, del 1997, fatto di interviste a interpreti, amici e allievi. Un invito ad approfondire e a conoscere, proprio come dev’essere un omaggio.

messiaenboulezopNei tanti inserti di intervista si ritrova il Messiaen immaginifico, quasi serioso nelle spiegazioni – ma con un filo di spirito sornione e un vistoso piacere nell’essere ascoltato e ammirato – intelligente e privo del timore di sembrare presuntuoso. Le prime parole che gli si sente dire sono:

Je suis musicien d’abord, bien entendu, compositeur de musique, professeur de composition, organiste, pianiste, aussi rythmicien – j’ai fait des études particulier des rythmes, surtout sur la métrique grecque et les decî-tâlas de l’Inde antique – mais je suis également ornithologue, et ornithologue professionnel et de métier, et ça fait plus de trente ans que je note des chants d’oiseaux pas seulement en France et dans toutes le provinces de France, mais dans tous les pays où j’ai pu voyager au cours de mes concerts.

La cosa che più piace e sorprende della sua intelligenza, è la capacità di portare all’interno del discorso musicale delle “immagini strutturali” (non saprei come chiamare altrimenti dei procedimenti di composizione basati su impressioni visive e auditive) provenienti da mondi ad essa estranei, fossero mondi della biologia (il canto degli uccelli, prima di tutto, ma anche una certa visione della storia naturale), dell’etnografia (la musica giapponese, il gamelan) o della filosofia e della religione (per esempio l’idea del “principio della vetrata”, cioè dell’utilizzo di una moltitudine di colori allo scopo di comunicare un unico colore complessivo). Tra gli esecutori che il film mostra, Ivonne Loriod (la sua seconda moglie), Kent Nagano (giovanissimo), Pierre-Lauren Aimard, e naturalmente Pierre Boulez.

boulezE proprio quest’ultimo trova un modo tutto particolare di ricordare Messiaen in occasione del centenario. Il «Nouvel Observateur» lo intervista in un articolo intitolato “Messiaen, mon Maitre”, e lui ricorda serenamente di aver definito la musica del suo maestro “musique de bordelle”: doveva farlo, era una giusta ribellione, dice. Poi aggiunge anche che in realtà nessuno lo seguiva nelle sue manie, in particolare il canto degli uccelli, la musica religiosa e quella d’organo. È così che Boulez continua a diffondere l’immagine di un bizzarro bigotto, un accademico con dei lati geniali e capace di grandi composizioni, alternate però a delle cose impresentabili e retrive («Messiaen ne compose pas, il juxtapose» ha persino scritto a suo tempo il suo caro allievo). Quanto ha fatto male, alla comprensione di Messiaen questa interpretazione? E perché in Francia non sembra essere possibile liberarsi dei pareri ex chatedra di Boulez? Basta osservare il senso di libera creatività che comunica Messiaen e il chiuso accademismo delle immagini di Boulez direttore per capire che le cose stanno esattamente al contrario. Boulez ha l’aria di un cardinale che officia i suoi misteri con gesti imperiosi e oscuri. Se poi si volessero confrontare le composizioni dei due, beh le cose si mettono anche peggio. Ma è davvero ancora così inevitabile confrontarsi con lui su tutta la musica contemporanea francese?

Una fontana di lacrime al Barbican

15 Aprile 2008 § 0 commenti § permalink

Ainadamar al Barbican Centre di Londra in forma di concerto – e devo dire che risulta difficile immaginarla in scena, tanto poca azione drammatica quest’opera da camera contiene. La storia ha per protagonista Margarita Xirgu, la grande attrice catalana che riparò a Cuba prima del franchismo e diffuse in America Latina, dopo la fucilazione del poeta nel 1936, il teatro di Federico García Lorca. L’opera si articola in tre scene della durata complessiva di circa un’ora e mezza.

La prima scena (o “immagine”, come la definisce Golijov) si svolge in un teatro di Montevideo, dove Margarita, ormai vicina alla
morte, ricorda a un’allieva l’incontro con Lorca e tenta di
trasmetterle il giusto pathos per interpretare il personaggio di
Mariana Pineda. La seconda scena si concentra intorno al personaggio di Lorca, e Margarita immagina la scena della sua fucilazione vicino alla “Fontana delle lacrime”, la Ainadamar del titolo. La terza scena è un crescendo onirico di identificazione tra il poeta, il personaggio, l’attrice e l’allieva, culminante nella famosa “ballata” della Mariana Pineda “Io sono la libertà” (Yo soy la Libertad porque el amor lo quiso!…).

La prima osservazione da fare è che il libretto di David Henry Hwang è molto brutto e antidrammatico, e l’effetto era impietosamente amplificato dai sopratitoli inglesi e dall’arrivo dei versi di Lorca, che spiccano come diamanti nella sabbia. Per un buon tratto dell’opera si percepisce un forte intento didattico (tutto è spiegato, raccontato, quasi come in una cantata sovietica), e alcuni trasporti lirici sulla Revolucion suonano davvero piuttosto ingenui.

La musica è Golijov al quadrato. Chi non ama i compositori che fanno leva sui sentimenti lasci stare Golijov: da questo punto di vista la sua musica è quasi spudorata. La sua forza è uno strano miscuglio di intelligenza, senso della forma, ricerca espressiva e, appunto, spudoratezza sentimentale. Se si pensa ai fischi che Henze riceveva in teatro per opere come Boulevard Solitude, che in confronto ad Ainadamar è praticamente il Wozzeck, ci si chiede che fine abbiano fatto tutti quegli intransigenti e attivissimi guardiani del progresso artistico. Il pubblico, come ormai succede quasi regolarmente per questo tipo di musiche, era letteralmente entusiasta, e si è spellato le mani e arrochito la voce per una buona decina di minuti.

Certo, al successo hanno contribuito molto le belle e drammaticissime voci di Dawn Upshaw (Margarita), Kelley O’Connor (García Lorca), e lo spettacolare cantante gitano Jesús Montoya, nella parte del traditore Ruiz Alonso. L’orchestra non era a proprio agio, e si potevano spesso percepire dei forti problemi di equilibrio tra le voci amplificate, l’orchestra, il gruppo di flamenco amplificato e il coro femminile. Un equilibrio delicatissimo, che richiede inevitabilmente un attento lavoro al banco di missaggio, più che le istruzioni di un direttore, per quanto bravo come Robert Spano.

Ricordo di Cathy Berberian

5 Marzo 2008 § 1 commento § permalink

cathy3Venticinque anni fa, il 6 marzo 1983, scompariva Cathy Berberian. Figlia di genitori Armeni immigrati negli Stati Uniti, allieva di Giorgina del Vigo al Conservatorio di Milano (dopo gli studi americani), moglie di Luciano Berio dal 1950 al 1966, mezzosoprano sensibile e intelligentissimo, Catherine Anahid Berberian è stata uno dei grandi protagonisti della musica degli anni Sessanta e Settanta. Ascoltare oggi le sue tante (ma non tantissime) registrazioni mette di fronte a un misto di emozioni. Da un lato l’estrema duttilità della voce, un desiderio di ricerca e sperimentazione tutt’altro che comune nelle sue colleghe di allora come in quelle di oggi, la curiosità onnivora nei confronti di tutte le musiche, la grande sensibilità alla parola e al suono, una straordinaria musicalità; dall’altro quanto di indubitabilmente datato si portano dietro i protagonisti di un’epoca. Le sue interpretazioni monteverdiane, per esempio, anche quando accompagnate dal Concentus Musicus di Nikolaus Harnoncourt; il modo stesso di avvicinare la musica del passato, colta e insieme “prefilologica”. Il miglior modo per conoscerne le qualità e il carattere, oggi, è forse guardarsi la quinta puntata lo splendido documentario televisivo di Luciano Berio intitolato C’è musica & musica, del 1972, che ogni mezzo secolo la Rai manda in onda in piena notte. Il titolo della trasmissione era “Mille e una voce”, incentrata proprio sulla Berberian, e un sant’uomo nick-chiamato Cloppj l’ha divisa in cinque frammenti e caricata su Youtube; ecco il primo, e per vedere gli altri basta andare alla pagina di Cloppj e fare una ricerca con la parola “Berberian”.
Oltre alla Berberian e a un barbuto Berio, si potranno vedere un giovanissimo Bussotti, Donatoni, Boulez e tutta la combriccola di chi segnato (se non marchiato) la musica europea di quegli anni: splendori e miserie. Durante il programma si ascolta di tutto, dai Beatles (la sua famosa versione di Ticket to ride) a Purcell a Monteverdi al repertorio romantico (fra l’altro una divertente, bellissima “Près de rempart de Séville”) e, naturalmente, agli amatissimi contemporanei. Rimane dopo la visione una sensazione di una donna e musicista grandissima e fragile insieme. In ogni caso da studiare e riscoprire con affetto.

cathy2[Il 27 novembre del 1978, un concerto di madrigali al Piccolo Regio di Torino. Avevo undici anni…]

AGGIORNAMENTO [23/7/2008]: Tutti i video postati su YouTube dall’utente Cloppj sono stati rimossi su sollecitazione della “Chet Baker Foundation”. Era prevedibile che prima o poi accadesse, ma è veramente un peccato; strano che non si accorgano di quanto si fanno male da soli, i possessori di copyright, con questo tipo di politica. PS. Cloppj sta ricominciando, con un filo di prudenza in più, a inviare video con il nickname di Clopjj

Dudamel e la bacchetta magica

6 Dicembre 2007 § 0 commenti § permalink

Per il suo debutto con la New York Philharmonic, Gustavo Dudamel ha ricevuto dalle mani di Barbara Haws, storica e conservatrice dell’orchestra, una delle tre preziosissime bacchette utilizzate da Leonard Bernstein. Questo per capire quale assurda aspettativa si sia creata intorno al giovane direttore venezuelano. La bacchetta del mago; una cosa più alla Harry Potter che alla Dukas. Dudamel l’ha usata per tutte e quattro le serate alla Avery Fisher Hall; in programma, la “Sinfonia India” di Chávez (pezzo eseguito con la NYP da Bernstein nel 1961), il Concerto per violino di Dvorák con Gil Shaham e la Quinta di Prokof’ev. Il «New York Times» ci avverte che alla quarta sera, martedì scorso, poco prima della fine, la bacchetta di Bernstein s’è rotta. Niente di personale, si dice.

Meditazioni amorose

29 Novembre 2007 § 1 commento § permalink

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Lorraine Hunt è stata una splendida mezzosoprano, amata dal pubblico della musica barocca per le sue tante interpretazioni di Händel e Monteverdi con Christie, McGegan, Jacobs e altri; nel 1999 aveva sposato il compositore Peter Lieberson, cominciando a dedicarsi anche alla musica contemporanea e dando voce a molti compositori delle ultime generazioni. La ricorda ora un disco molto bello, che raccoglie cinque sonetti di Pablo Neruda tratti dai Cien sonetos de amor (1959), musicati e a lei dedicati da Lieberson. Lo stile è decisamente eclettico, con brevi puntate nella popular e un solido vocabolario post e neoromantico; ma la caratteristica che più colpisce di questi cinque brani, al di là di qualsiasi considerazione stilistica, è la profonda sensualità da cui sono pervasi. Trascinato dai testi di Neruda, Lieberson costruisce una meditazione su amore e morte, sulla gioia attonita del possesso e sulla paura della perdita. I Neruda Songs sono il risultato di una commissione della Los Angeles Philarmonic, e sono stati registrati da James Levine con la Boston Symphony Orchestra nel 2005, dal vivo. Meno di un anno dopo Lorraine Hunt Lieberson, come volle firmarsi dopo il matrimonio, è scomparsa per le complicanze di un cancro al seno. Al momento della registrazione lottava da tempo contro la malattia, eppure non c’è ombra di esagerazione o affettazione dolorosa nel suo canto: pensoso e appassionato, lo si direbbe invece. Anche quando il testo si fa fortemente drammatico, rimane quel distacco che i versi neobarocchi di Neruda consentono; versi bellissimi, come questi del sonetto XCII, intitolato Amor mío, si muero y tú no mueres (Amore mio, se io muoio e tu non muori):

Pero este amor, amor, no ha terminado,
y así como no tuvo nacimiento
no tiene muerte, es como un largo río,
sólo cambia de tierras y de labios.

(Però questo amore, amore, non è finito: | e così come non ha avuto nascita | non conosce la morte e, come un lungo fiume, | cambia solo di terra e di labbra).

Nella foto, Lorraine Hunt Lieberson fotografata nel 2003 da Richard Avendon (per il «New Yorker»).

P. Lieberson, Ya eres mia. Reposa con tu sueño en mi sueño (Ormai sei mia. Riposa col tuo sonno nel mio sonno), ms. L.H. Lieberson, Boston Symphony Orchestra, dir. James Levine (2005)

ya_eres_mia

Lenny” Mahler e il senso di colpa

16 Novembre 2007 § 0 commenti § permalink

mahler_drummer

A diciassette anni dalla sua scomparsa, Lenny Bernstein non finisce di rappresentare una gallina dalle uova d’oro per l’industria discografica e una fonte di scoperte e piaceri per gli appassionati di musica. La diffusione del DVD ha fatto sì che le sue centinaia (o migliaia?) di ore di registrazione video possano uscire poco alla volta, continuando a riservare delle sorprese al grande pubblico. L’ultima serie di DVD pubblicata dalla Deutsche Grammophon comprende, per esempio, una bella integrale delle Sinfonie di Brahms, un documentario sulla vita di Bernstein e questo curioso “saggio” video: The Little Drummer Boy: an Essay on Gustav Mahler. Girato nel 1984 a più riprese e in diversi luoghi, è una lunga lezione di Bernstein sulla componente ebraica nella musica e nella vita interiore di Mahler. Una lettura spesso a senso unico, colma di una commovente identificazione del direttore con il suo compositore più amato, ricca di evidenti forzature ma anche di passaggi straordinari. Bernstein comincia a parlare di Mahler seduto al pianoforte in un caldo pomeriggio di maggio a Tel-Aviv; camicia completamente sbottonata su un torso sudato, aria da chi ha appena posato il bicchiere di whisky sul coperchio dello strumento. Ma poco dopo lo studio si trasferisce a Londra, in tutt’altro clima, e Lenny ora porta la stessa camicia, ma con sotto un dolcevita nero. Il piccolo tamburino del titolo e quello del Lied del Knaben Wunderhorn; il soldato-bambino che marcia verso la forca, disprezzato dai commilitoni per un’inesplicata colpa. E la colpa diventa subito la chiave per capire il dolore radicato nella musica di Mahler; la colpa di essere ebrei, la colpa di sentire tale condizione come una colpa; la colpa della conversione. Pieno di bellissima musica, il video si guarda e si ascolta come un saggio di Bernstein su se stesso, sul suo rapporto con la musica, con le radici ebraiche, con la colpa dell’assimilazione (e Candide fa continuamente capolino) esattamente come un saggio su Mahler. Un’ambiguità radicata nel modo di fare musica di un artista indimenticabile.

L’eredità di Gould

20 Ottobre 2007 § 0 commenti § permalink

gould_hereafter1Forse qualcuno poteva pensare che Bruno Monsaingeon avesse già detto tutto su Glenn Gould, dopo quattro libri e sei o sette film. Eppure Glenn Gould Hereafter è un grande piacere per gli occhi e la mente. Qui spezzoni editi e inediti di “girato” con Gould come protagonista (ce ne sono centiaia di ore molte delle quali mai viste se non all’epoca) si alternano a episodi che riguardano la posterità di un artista così particolare. Sei personaggi, fra cui una simpatica signora bolognese, raccontano il loro rapporto con Gould, la nascita della loro passione e il peculiare modo attraverso cui si esprime. La giovane pianista che si è fatta tatuare il tema del quartetto di Gould sulla schiena, l’anziana signora russa il cui ultimo scopo di vita è “gouldianizzare” il mondo, il giovane giapponese che recapita le lettere con destinatari giapponesi che Gould ha scritto e mai spedito, e altri ancora. Poteva derivarne un atto di adorazione stucchevole, un prodotto confezionato per i tanti maniaci del pianista-mito, e invece Monsaingeon riesce a costruire un film intelligente, ricco e commovente.

Il tema di fondo è quello dell’eredità, del retaggio che Gould ha lasciato alla posterità, della prodigiosa capacità epidemica che i virus di un artista di questo valore mantengono nel tempo. Dopo la visione rimangono nelle mente due considerazioni, fra le tante che il film solleva. La prima è che un artista che decide di presentare una precisa immagine di sé al mondo crea una più o meno grande barriera fatta di immagini, suoni e parole che ci danno la sensazione di conoscere, quasi di possedere interamente la sua anima. Ma guardandole molto da vicino, collazionandole con attenzione ci si accorge del trucco, del fatto che tutto è proiettato su uno schermo, e che fra questo schermo e l’artista sussiste un vuoto incolmabile. Così nasce il mistero, e così nascono le forme maniacali attraverso cui si cerca di colmarlo. Non diversamente che in amore, forse. La seconda è che effettivamente Gould ha rappresentato un tipo di artista con cui non smettiamo di dover fare i conti. Una delle scene più belle del film è uno dei famosi incontri fra Gould e Menuhin; i due artisti discutono della preminenza del concerto dal vivo o della registrazione in studio nella percezione musicale del futuro. La distanza che li divide è grande: due mondi le cui massime espressioni si sfiorano senza capirsi. Menuhin sopravviverà a Gould per quasi diciassette anni, la sua eredità artistica rimarrà per sempre altissima, tra le massime del Novecento; ma il retaggio umano, artistico e intellettuale di Gould giganteggia, superando il confine del secolo in cui è nato e disseminando il presente di quei molti dubbi e inquietudini che solo la grande arte sa (e forse deve) trasmettere.

J.S. Bach, Gavotta dalla Suite francese n. 6 (1971)

gavotte

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