Due diversi modi per festeggiare Messiaen

31 Maggio 2008 § 0 commenti § permalink

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Il prossimo 10 dicembre saranno passati 100 anni dalla nascita di Olivier Messiaen, e gli omaggi hanno da tempo cominciato ad apparire un po’ ovunque. Qui vorrei ricordarne due, di taglio molto diverso: il film di Olivier Mille, intitolato La Liturgie de cristal, del 2002, da poco pubblicato in DVD nella bella collana “Juxtapositions” (The Crystal Liturgy, Ideale Audience 2007), e un buffo quanto incongruo articolo che gli ha recentemente dedicato il «Nouvel Observateur».

Il film di Mille è un bellissimo omaggio. Comincia con una lunga sequenza di canyon dello Utah, per poi ripercorrere la vita creativa di Messiaen per ampi capitoli, utilizzando frammenti di interviste, scene di paesaggio ed esecuzioni musicali. Ci sono tutti gli aspetti della lunga e per molti versi sorprendente vita di Messiaen: l’ornitologo serissimo, appassionato, spesso quasi infastidito dalla sufficienza con cui talvolta era (e per molti versi tuttora è) considerato questo aspetto della sua creatività. Lo studioso di discipline filosofiche e spirituali, con il capitolo sul Giappone, e l’indissolubile legame con le immagini e i motivi della fede cattolica. Messiaen compositore, dalla classe di Dukas alle prime creazioni, il campo di prigionia e la genesi del Quatuor puor la fine du temps, poi le tante fasi e la straordinaria ricchezza e varietà del suo catalogo, compreso il periodo americano e il vasto affresco di Des Canyons aux Etoiles (con delle belle riprese del Mount Messiaen, la montagna che gli fu dedicata nello Utah nel 1978). E ancora: Messiaen didatta, con gli interessanti frammenti di lezione al Conservatorio. E sopra tutto, molta bellissima musica, dal Catalogue des oiseux al San Francesco d’Assisi. Tutto in un’ora, sinteticamente riassunto ma non imbottito d’informazioni. Il DVD comprende anche tre frammenti di un precedente documentario di Mille su Messiaen, Des canyons aux étoiles, le Mode d’Olivier Messiaen, del 1997, fatto di interviste a interpreti, amici e allievi. Un invito ad approfondire e a conoscere, proprio come dev’essere un omaggio.

messiaenboulezopNei tanti inserti di intervista si ritrova il Messiaen immaginifico, quasi serioso nelle spiegazioni – ma con un filo di spirito sornione e un vistoso piacere nell’essere ascoltato e ammirato – intelligente e privo del timore di sembrare presuntuoso. Le prime parole che gli si sente dire sono:

Je suis musicien d’abord, bien entendu, compositeur de musique, professeur de composition, organiste, pianiste, aussi rythmicien – j’ai fait des études particulier des rythmes, surtout sur la métrique grecque et les decî-tâlas de l’Inde antique – mais je suis également ornithologue, et ornithologue professionnel et de métier, et ça fait plus de trente ans que je note des chants d’oiseaux pas seulement en France et dans toutes le provinces de France, mais dans tous les pays où j’ai pu voyager au cours de mes concerts.

La cosa che più piace e sorprende della sua intelligenza, è la capacità di portare all’interno del discorso musicale delle “immagini strutturali” (non saprei come chiamare altrimenti dei procedimenti di composizione basati su impressioni visive e auditive) provenienti da mondi ad essa estranei, fossero mondi della biologia (il canto degli uccelli, prima di tutto, ma anche una certa visione della storia naturale), dell’etnografia (la musica giapponese, il gamelan) o della filosofia e della religione (per esempio l’idea del “principio della vetrata”, cioè dell’utilizzo di una moltitudine di colori allo scopo di comunicare un unico colore complessivo). Tra gli esecutori che il film mostra, Ivonne Loriod (la sua seconda moglie), Kent Nagano (giovanissimo), Pierre-Lauren Aimard, e naturalmente Pierre Boulez.

boulezE proprio quest’ultimo trova un modo tutto particolare di ricordare Messiaen in occasione del centenario. Il «Nouvel Observateur» lo intervista in un articolo intitolato “Messiaen, mon Maitre”, e lui ricorda serenamente di aver definito la musica del suo maestro “musique de bordelle”: doveva farlo, era una giusta ribellione, dice. Poi aggiunge anche che in realtà nessuno lo seguiva nelle sue manie, in particolare il canto degli uccelli, la musica religiosa e quella d’organo. È così che Boulez continua a diffondere l’immagine di un bizzarro bigotto, un accademico con dei lati geniali e capace di grandi composizioni, alternate però a delle cose impresentabili e retrive («Messiaen ne compose pas, il juxtapose» ha persino scritto a suo tempo il suo caro allievo). Quanto ha fatto male, alla comprensione di Messiaen questa interpretazione? E perché in Francia non sembra essere possibile liberarsi dei pareri ex chatedra di Boulez? Basta osservare il senso di libera creatività che comunica Messiaen e il chiuso accademismo delle immagini di Boulez direttore per capire che le cose stanno esattamente al contrario. Boulez ha l’aria di un cardinale che officia i suoi misteri con gesti imperiosi e oscuri. Se poi si volessero confrontare le composizioni dei due, beh le cose si mettono anche peggio. Ma è davvero ancora così inevitabile confrontarsi con lui su tutta la musica contemporanea francese?

Rule, England!

24 Aprile 2008 § 0 commenti § permalink

sgeorge

Potrebbe la nostra epoca, quella della globalizzazione e dei sincretismi, assistere alla nascita di nuove forme di nazionalismo culturale, anche nelle democrazie più avanzate? Viene da chiederselo sfogliando l’ultimo numero del serissimo The Spectator, il settimanale della destra conservatrice inglese. “England Rides Again”, strilla il titolo di copertina, accompagnato dalla foto di un cavallo che balza agilissimo montato da un fantino vestito da corse di Ascot. È il numero speciale dedicato al St George’s Day, la “giornata nazionale” inglese. Il fantino ricorda l’iconografia tradizionale, che raffigura San Giorgio sul suo cavallo rampante nell’atto di uccidere il drago. Ma qual è il drago che il nuovo St George conservatore sente il bisogno di uccidere? Il numero non lo dice ma lo lascia immaginare: gli anni di governo laburista, l’eccessivo filoeuropeismo, la visione globalizzata del mondo conteporaneo, tutto quello che negli ultimi anni ha impedito agli inglesi di proclamarsi con il dovuto orgoglio supremamente, profondamente, unicamente English. English, neppure British.

Decine di pagine di rivendicazione accorata della propria diversità in pericolo, in voluto spregio a ogni politically correct, nelle quali si rispolvera persino il concetto di “accoglienza”: l’Inghilterra non ha bisogno di dimenticare la superiorità della propria civiltà per sentirsi aperta alle altre culture del mondo; alla base della sua cultura c’è l’accoglienza nei confronti dello straniero; naturalmente lo straniero dovrà mostrarsi in grado di capire la superiorita della cultura inglese, ed ecco dunque il fluent english richiesto obbligatoriamente agli stranieri che si trasferiranno nel Regno Unito, secondo una legge recentemente votata in parlamento. E qui, al lettore italiano, potrebbe ogni tanto balenare l’ombra grifagna di Bossi. Ma dietro la commozione nostalgica e agguerrita dei conservatori inglesi, c’è naturalmente un retroterra ben diverso dalla miserabile dottrina leghista: la terra perduta è uno sterminato impero e una cultura dominante sul mondo intero, non una fantomatica regione neoceltica. Ma sfogliando la rivista c’è un articolo che può incuriosire più degli altri. Si tratta di una pagina firmata da Roger Scruton, filosofo e intellettuale di marcata appartenenza conservatrice, che fra le sue molteplici abilità (è giornalista, conduttore radiofonico, romanziere e molto altro), vanta quelle di compositore e musicologo. Sulla figura di Scruton si potranno imparare molte cose consultando il suo profilo su wikipedia, compreso il messaggio email pubblicato dal Guardian che lo rivelava al soldo della Japan Tobacco International – forse per fare un po’ di sana propaganda al vecchio, buon vizio del fumo.

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Ma nell’articolo dello Spectator, Scruton parla della cultura inglese da un altro punto di vista. Ad essere qui lamentata è la mancanza di interesse da parte delle istituzioni pubbliche nei confronti della grandezza della musica inglese. In una carrellata storica che parte da Elgar, vero scopritore con le sue Enigma Variations e con i Sea Pictures della peculiare voce musicale inglese, passando per le tre generazioni successive che vengono individuate in quella Elgar-Vaughan Williams-Dolmetsch (quest’ultimo per il suo lavoro di riscoperta della musica Tudor), quella Britten-Walton-Tippett, e quella attuale, meno compatta e definita, dei Tavener-Holloway-Birtwistle. Specialmente nel caso della prima generazione, si tratta di compositori attraverso cui Scruton sente passare l’esaltazione dello “English way of live”: un sistema di valori in cui “i conflitti sono risolti attraverso la legge e le scuse educate, più che attraverso la forza” (e sicuramente su questo Gandhi avrebbe qualcosa da dire) – in contrapposizione all’aggressività del nazionalismo tedesco, e presumibilmente ai suoi rumorosi compositori, da Wagner e Bruckner in poi.

Mai, nell’intero articolo, è citata anche solo incidentalmente la possibilità che in Inghilterra siano negli ultimi quarant’anni nati suoni diversi e diverse culture, altrettanto singolari, rappresentative e presumibilmente anche più rivoluzionarie. Mai sono nominati i Beatles, i Pink Floyd, il rock “progressive” – figurarsi l’esistenza di un Britpop. Come se tutto questo non rappresentasse alcun nuovo valore, alcuna credibile revisione dell’Arcadia inglese. Ma anche un’altra cosa potrebbe stupire. Un buon quarto dell’articolo è dedicato al sostegno a un festival inglese dimenticato dalle istituzioni in nome del Politically correct: l’English Music Festival, che si tiene nell’Oxfordshire tra il 23 e il 27 maggio. Leggere il cartellone di questo festival, che ha come motto “The Spirit of England’’ lascia abbastanza perplessi. E chissà se sarebbe contento, il cosmopolita, curiosissimo Britten, di essere messo sotto una teca di vetro, o meglio sotto una teiera di Royal Albert porcelain.

E poi viene da riflettere: è pensabile una cosa del genere in Italia? Un festival di sola musica italiana? Neppure i cartelloni dei più provinciali teatri di tradizione di tanti anni fa si sono spinti così in là. Un Olandese volante, una Carmen, un Tristano e Isotta, magari in traduzione con tanto di Dancairo, Brangania e altri ridicoli nomi italianizzati, hanno sempre sentito il bisogno di metterli. Per non parlare della musica contemporanea, che se isolata da un minimo di contesto internazionale apparirebbe quasi inevitabilmente nei suoi aspetti più miseri e provinciali. Questa però è la situazione oggi, e visti i chiari di luna politici, del domani non si sa. Forse il festival della musica sinfonica padana è già alle porte.

Una fontana di lacrime al Barbican

15 Aprile 2008 § 0 commenti § permalink

Ainadamar al Barbican Centre di Londra in forma di concerto – e devo dire che risulta difficile immaginarla in scena, tanto poca azione drammatica quest’opera da camera contiene. La storia ha per protagonista Margarita Xirgu, la grande attrice catalana che riparò a Cuba prima del franchismo e diffuse in America Latina, dopo la fucilazione del poeta nel 1936, il teatro di Federico García Lorca. L’opera si articola in tre scene della durata complessiva di circa un’ora e mezza.

La prima scena (o “immagine”, come la definisce Golijov) si svolge in un teatro di Montevideo, dove Margarita, ormai vicina alla
morte, ricorda a un’allieva l’incontro con Lorca e tenta di
trasmetterle il giusto pathos per interpretare il personaggio di
Mariana Pineda. La seconda scena si concentra intorno al personaggio di Lorca, e Margarita immagina la scena della sua fucilazione vicino alla “Fontana delle lacrime”, la Ainadamar del titolo. La terza scena è un crescendo onirico di identificazione tra il poeta, il personaggio, l’attrice e l’allieva, culminante nella famosa “ballata” della Mariana Pineda “Io sono la libertà” (Yo soy la Libertad porque el amor lo quiso!…).

La prima osservazione da fare è che il libretto di David Henry Hwang è molto brutto e antidrammatico, e l’effetto era impietosamente amplificato dai sopratitoli inglesi e dall’arrivo dei versi di Lorca, che spiccano come diamanti nella sabbia. Per un buon tratto dell’opera si percepisce un forte intento didattico (tutto è spiegato, raccontato, quasi come in una cantata sovietica), e alcuni trasporti lirici sulla Revolucion suonano davvero piuttosto ingenui.

La musica è Golijov al quadrato. Chi non ama i compositori che fanno leva sui sentimenti lasci stare Golijov: da questo punto di vista la sua musica è quasi spudorata. La sua forza è uno strano miscuglio di intelligenza, senso della forma, ricerca espressiva e, appunto, spudoratezza sentimentale. Se si pensa ai fischi che Henze riceveva in teatro per opere come Boulevard Solitude, che in confronto ad Ainadamar è praticamente il Wozzeck, ci si chiede che fine abbiano fatto tutti quegli intransigenti e attivissimi guardiani del progresso artistico. Il pubblico, come ormai succede quasi regolarmente per questo tipo di musiche, era letteralmente entusiasta, e si è spellato le mani e arrochito la voce per una buona decina di minuti.

Certo, al successo hanno contribuito molto le belle e drammaticissime voci di Dawn Upshaw (Margarita), Kelley O’Connor (García Lorca), e lo spettacolare cantante gitano Jesús Montoya, nella parte del traditore Ruiz Alonso. L’orchestra non era a proprio agio, e si potevano spesso percepire dei forti problemi di equilibrio tra le voci amplificate, l’orchestra, il gruppo di flamenco amplificato e il coro femminile. Un equilibrio delicatissimo, che richiede inevitabilmente un attento lavoro al banco di missaggio, più che le istruzioni di un direttore, per quanto bravo come Robert Spano.

Sconvolgente, detestabile Gorecki

22 Marzo 2008 § 0 commenti § permalink

goreckiÈ da poco apparso in DVD un film di Tony Palmer del 1993, dedicato alla famosa, adorata e disprezzata insieme Terza sinfonia di Henryk Górecki, Symfonia piesni zalosnych, o “dei canti dolorosi”. Per sapere qualcosa di più su questa sinfonia e sull’immenso successo che portò al suo eccentrico autore, consiglio un breve articolo di Norman Lebrecht di poco più di un anno fa. Oggi, con la distanza critica che i quindici anni passati da quell’incredibile exploit consentono, forse si possono tracciare delle linee che rimandano questo brano alla crisi delle avanguardie, e alla nascita nell’Europa dell’Est di moltissime interessanti ricerche libere da qualsiasi vincolo estetico-politico. Non bisogna dimenticare che si tratta di un brano scritto a metà degli anni Settanta, nella Polonia di Jaruzelski, da un compositore inviso al regime, a cui veniva impedita qualsiasi partecipazione agli eventi musicali, qualsiasi possibilità di ascoltare le proprie composizioni più vaste. La sinfonia è insieme grandissima ed elementare, arcaica e post-moderna: può irritare la sua voluta semplicità strutturale e poetica, ma è veramente difficile non lasciarsi commuovere.

palmerE che dire del film di Palmer? Tony Palmer ha cominciato a girare film sulla musica prima che io nascessi, lavorato con grandissimi registi e fatto cose molto importanti. Come prendere allora un film di cinquanta minuti (la durata della sinfonia) che sovrappone immagini terribili di fame, miseria, disperazione e atroce violenza a quelle della London Sinfonietta diretta da Zinman con la splendida Dawn Upshaw, e a frammenti di intervista con il sornione compositore? Io l’ho trovato detestabile come qualsiasi colpo sferrato sotto la cintura, ma è praticamente impossibile non rimanerne in qualche modo sconvolti. Ho letto che nel 1993, alla prima proiezione del canale televisivo Channel Four (che lo aveva commissionato), fu definito da un dirigente “rubbish”; ma poi fu trasmesso al South Bank Show tra la commozione e le acclamazioni del pubblico. D’altro canto il gioco è terribilmente facile, e se un maestro navigato come Palmer l’ha voluto mettere comunque in atto, è forse perché ha capito che si trattava dello stesso colpo sotto la cintura che la musica di Gorecki sferrava. Andare dritto alla radice del dolore e della compassione, evitando qualsiasi mediazione o barriera difensiva eretta dalla cultura. Detestabile e incredibilmente commovente come può esserlo la musica, dunque; ma comunque non indifferente.

Ricordo di Cathy Berberian

5 Marzo 2008 § 1 commento § permalink

cathy3Venticinque anni fa, il 6 marzo 1983, scompariva Cathy Berberian. Figlia di genitori Armeni immigrati negli Stati Uniti, allieva di Giorgina del Vigo al Conservatorio di Milano (dopo gli studi americani), moglie di Luciano Berio dal 1950 al 1966, mezzosoprano sensibile e intelligentissimo, Catherine Anahid Berberian è stata uno dei grandi protagonisti della musica degli anni Sessanta e Settanta. Ascoltare oggi le sue tante (ma non tantissime) registrazioni mette di fronte a un misto di emozioni. Da un lato l’estrema duttilità della voce, un desiderio di ricerca e sperimentazione tutt’altro che comune nelle sue colleghe di allora come in quelle di oggi, la curiosità onnivora nei confronti di tutte le musiche, la grande sensibilità alla parola e al suono, una straordinaria musicalità; dall’altro quanto di indubitabilmente datato si portano dietro i protagonisti di un’epoca. Le sue interpretazioni monteverdiane, per esempio, anche quando accompagnate dal Concentus Musicus di Nikolaus Harnoncourt; il modo stesso di avvicinare la musica del passato, colta e insieme “prefilologica”. Il miglior modo per conoscerne le qualità e il carattere, oggi, è forse guardarsi la quinta puntata lo splendido documentario televisivo di Luciano Berio intitolato C’è musica & musica, del 1972, che ogni mezzo secolo la Rai manda in onda in piena notte. Il titolo della trasmissione era “Mille e una voce”, incentrata proprio sulla Berberian, e un sant’uomo nick-chiamato Cloppj l’ha divisa in cinque frammenti e caricata su Youtube; ecco il primo, e per vedere gli altri basta andare alla pagina di Cloppj e fare una ricerca con la parola “Berberian”.
Oltre alla Berberian e a un barbuto Berio, si potranno vedere un giovanissimo Bussotti, Donatoni, Boulez e tutta la combriccola di chi segnato (se non marchiato) la musica europea di quegli anni: splendori e miserie. Durante il programma si ascolta di tutto, dai Beatles (la sua famosa versione di Ticket to ride) a Purcell a Monteverdi al repertorio romantico (fra l’altro una divertente, bellissima “Près de rempart de Séville”) e, naturalmente, agli amatissimi contemporanei. Rimane dopo la visione una sensazione di una donna e musicista grandissima e fragile insieme. In ogni caso da studiare e riscoprire con affetto.

cathy2[Il 27 novembre del 1978, un concerto di madrigali al Piccolo Regio di Torino. Avevo undici anni…]

AGGIORNAMENTO [23/7/2008]: Tutti i video postati su YouTube dall’utente Cloppj sono stati rimossi su sollecitazione della “Chet Baker Foundation”. Era prevedibile che prima o poi accadesse, ma è veramente un peccato; strano che non si accorgano di quanto si fanno male da soli, i possessori di copyright, con questo tipo di politica. PS. Cloppj sta ricominciando, con un filo di prudenza in più, a inviare video con il nickname di Clopjj

Gli ossimori di Tüür

11 Febbraio 2008 § 0 commenti § permalink

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Ci sono musicisti che sono quasi ossessionati dall’“architettura” della composizione. Le loro opere comunicano attraverso la contrapposizione di masse e di elementi lineari; il suono viene da loro plasmato con meticolosità alla ricerca di quel difficile piacere che solo la percezione di una forma ben costruita può dare. Mi sembra che l’estone Erkki-Sven Tüür sia uno di loro. Il suo nuovo disco contiene tre lavori composti tra il 2001 e il 2005, più uno che risale al 1990, molto diverso dagli altri – le note di copertina farebbero pensare che in origine ne fosse previsto un quinto dal titolo Litany, di cui però nel disco non c’è traccia. L’ultimo pezzo della raccolta, Oxymoron, dà il titolo all’intero disco, indicando con efficacia uno degli aspetti salienti della composizione di Tüür: la ricerca del contrasto e della “varietà nell’unità”, allargata a tutti i parametri della composizione.

Il disco si apre con Salve Regina, una composizione del 2005 per coro maschile e ensemble strumentale. Una composizione che subito mostra quella particolare cifra estetica che rende le opere di Tüür, pur nella loro relativa eterogeneità, abbastanza inconfondibili e preziose. Uno strano miscuglio di arcaismo e ricerca che, se si può ritrovare in diversi compositori di area baltica (prima di tutti Pärt, da cui Tüür è stato inizialmente molto influenzato), in lui trova una declinazione tutta particolare. In questo caso si materializza in una cantillazione vicina al gregoriano, punteggiata e frammentata dagli interventi strumentali, con esiti stilisticamente molto interessanti. Segue Ardor, forse il pezzo più bello del disco: un vero e proprio concerto per marimba e orchestra interpretato dal grande virtuoso portoghese Pedro Carneiro (che del pezzo è anche dedicatario). Qui lo stile si fa più eclettico, e si sentono le influenze di compositori come Penderecki e Ligeti, nei riferimenti micropolifonici degli archi e nelle contrapposizioni fra masse dense di eventi musicali apparentemente caotici e improvvisi richiami all’ordine.

oxymoronDedication, un breve lavoro per violoncello e pianoforte del 1990, sembra del tutto fuori contesto, stretto com’è fra due ben più complesse composizioni; vi si sente un gusto lineare e appena ripetitivo che apparentemente porta lontano dal gusto per le contrapposizioni architettoniche degli altri brani: ma anche qui, il discorso è inframmezzato da dei glissando sulla cordiera del pianoforte che, pur con un effetto che oggi suona forse un po’ scontato, riconducono alla sua passione per le contrapposizioni e gli “scontri” acustici. Chiude la raccolta il pezzo più complesso del disco, Oxymoron, una composizione per grande ensemble scritta nel 2003 su commissione del Klangspuren Festival di Schwaz, in Austria (il sottotitolo infatti è Music for Tirol). Un lavoro vasto e difficilissimo (quasi 20 minuti senza soluzione di continuità), fatto di una scrittura densissima e molto controllata, ma con momenti di indubbio effetto e, ancora una volta, di grande varietà interna, tanto che quando a cinque minuti dalla fine il brano comincia a essere ritmato da una batteria con effetti che sembrano rimandare al rock progressivo dei primi anni Ottanta, la cosa non riesce più a stupire. Come ci spiega il compositore nelle note di copertina, si tratta del primo brano in cui utilizza un nuovo metodo di composizione, definito “scrittura vettoriale”; dal poco che ci è dato di capire, si tratterebbe di un sistema “non dogmatico” che permetterebbe “la sistematica combinazione di caratteristiche eterogenee o contrastanti nel materiale tonale e nel progredire della musica”. Di nuovo un contrasto, ma questa volta di carattere per così dire “etico”: il riferimento a un nuovo sistema di composizione di carattere paramatematico, degna di un programma di sala anni Settanta, contrapposta a una grande libertà espressiva e a un meticoloso controllo formale. Nonostante tutte queste apparenti stranezze e spigolosità intellettuali, Tüür rimane uno dei compositori più complessi e affascinanti delle ultime generazioni; musica sicuramente non facile, ma che non cerca la difficoltà fine a se stessa, e che meriterebbe di poter essere ascoltata più spesso nelle nostre sale da concerto.

Il filosofo e il neurologo

3 Febbraio 2008 § 0 commenti § permalink

sacksIn un precedente post avevo accennato a quello che un battage pubblicistico molto intenso – e un indubbio interesse suscitato dal tema – aveva annunciato come uno dei migliori libri sulla musica del 2007: Musicophilia: Tales of Music and the Brain, di Oliver Sacks. Capita ora che TLS, uno dei più seri settimanali di recensioni librarie del mondo (è l’inserto letterario del «Times»), pubblichi nel numero del 18 gennaio scorso una severa stroncatura, firmata da Jerry Fodor, filosofo e congnitivista americano, docente alla Rutgers University.

fodorL’articolo, intitolato “Mental Notes”, critica l’approccio di Sacks seguendo una linea non nuova ai suoi detrattori: vi si sostiene infatti che la rassegna di casi clinici presentati, e la “fissazione” che Sacks condivide con molti neurologi di chiedersi “dove” risiedano, all’interno del cervello umano, determinate funzioni, non solo non aiuti a capire i maggiori problemi dell’apprendimento e del pensiero, ma eviti di proposito alcune delle domande più importanti che il tema sollecita. Fodor, con un colpo vagamente sotto la cintura (ma di indubbio effetto), si riferisce alla fascetta editoriale del libro (e le stesse parole sono state riportate da quasi tutta la stampa che lo ha presentato), dove si afferma: “La musica è irresistibile, coinvolgente e indimenticabile, e in Musicophilia Oliver Sacks ci spiega perché”. Ma praticamente sin dalle prime righe, Fodor ci avverte che Sacks non ha affatto mantenuto la promessa: “Da un lato, molto di quello che Sacks dice sulla musica è banale […]. Dall’altro, molto di quello che dice sul cervello si rivela essere una neurochiacchiera [neurobabble]”. “[Nel libro] ci sono parecchi casi clinici che si rivelano, per molti versi, interessanti e sorprendenti; ma è difficile capire che cosa farne”. E qui già si comincia a capire il senso della critica: a molti sarà infatti capitato, leggendo un qualunque lavoro di Sacks (o vedendo uno dei film o delle opere che i suoi libri hanno ispirato), di rimanere affascinati dalla ricchezza di implicazioni e dagli aspetti sorprendenti che il disagio mentale comporta; ma in molti di questi casi era veramente difficile capire che cosa essi potessero suggerirci al di là della curiosità e di un interesse generico. Fodor su questa linea è letteralmente spietato: “Sacks è prodigo negli aneddoti, ma avaro nella teoria. Colleziona casi clinici come altri fanno con i francobolli”.

Le domande che Sacks evita – e che sicuramente non sono appassionanti solo un cognitivista come Fodor, ma anche per gran parte delle persone interessate alle cose della musica – sono tutt’altro che collaterali: che cosa distingue e caratterizza la musica, quale musica, cosa la rende tanto importante per l’essere umano, e così via. “Credo che il problema consista nel fatto che Sacks (così come molti altri suoi colleghi neuroscienziati) è quasi ossessivamente preoccupato di scoprire dove, nel cervello, le cose risiedano. Quello che ha in mente […] è soprattutto il confronto fra le ipotesi cliniche sulle localizzazioni dei danni cerebrali con i risultati delle scansioni di risonanza magnetica del cervello. Questo modo di condurre la ricerca sul cervello ha sempre incontrato il favore dei chirurghi, che molto appropriatamente ritengono necessario sapere quali pezzetti di cervello possono asportare, e quali no”. E ancora, per concludere: “Non credo ci sia nulla di male in questa strategia di ricerca; ma molto spesso conduce alla mancanza di interesse nei confronti delle domande sul meccanismo: in questo caso, nei confronti dei problemi relativi al meccanismo psicologico le cui operazioni presiedono alla percezione, all’esecuzione e alla composizione musicale”. È probabile che la polemica avrà un seguito, ma bisogna ammettere che è tutt’altro che infondata.

Ancora su musica e politica

6 Gennaio 2008 § 0 commenti § permalink

internazionaleQual è stato il canto su cui si è combattuta la rivoluzione d’Ottobre? Se a qualcuno venisse subito in mente L’Internazionale, potrebbe non essere del tutto nel giusto. Se ne parla in un capitolo intitolato “Parole e immagini” di un libretto molto interessante e ben scritto di Marcello Flores (1917. La Rivoluzione, Einaudi 2007):

Un’altra battaglia importante che si svolge sui simboli è quella per la canzone della rivoluzione. Sono la MarsiglieseL’Internazionale a contendersi l’identità dei partecipanti alle manifestazioni di piazza e alle dimostrazioni pubbliche, dove le canzoni costituiscono un momento di mobilitazione e, al tempo stesso, di emotività collettiva. La Marsigliese prevale a febbraio anche se in numerose occasioni sarà una sua versione particolare – la Marsigliese operaia – a essere intonata dalle masse riunite.

La Marsigliese operaia, ci informa una nota del libro, intonava sulla musica dell’inno rivoluzionario francese (del 1796) un testo scritto nel 1875 da Pëtr Lavrov, uno dei leader del populismo. Si tratta di parole altrettanto sanguigne dell’originale (anche se il testo della Marsigliese, così come tutt’ora si canta nelle cerimonie ufficiali, e persino più violento e feroce): “Rigettiamo il vecchio mondo | Scuotiamoci dai piedi la sua cenere! | Non ci serve il vitello d’oro | L’odiato palazzo dello zar!” e così via, con il ritornello “Alzati, levati, popolo operaio! | Uomo affamato, vai contro il nemico! | Che riecheggi l’appello alla vendetta popolare! | Avanti! Avanti! Avanti! ecc.”

Insomma, sono tre le canzoni della rivoluzione del ’17, e le diverse fazioni se le contendono o rinfacciano a vicenda. Per i socialisti radicali la Marsigliese era la musica della rivoluzione borghese, e dunque le contrapponevano L’Internazionale, ma nei moti di febbraio è la versione russa dell’inno francese a prevalere. Solo in seguito, e tra alterne vicende, L’Internazionale comincerà ad avere la meglio, fino a che, nell’Ottobre, il Soviet non ne fa il proprio inno ufficiale. Subito i bolscevichi se ne appropriano (si tenga conto che il suo valore simbolico era tutto particolare, in quanto inno operaio) e obbligano a cantarlo ovunque. E allora i socialisti radicali gli contrappongono la Marsigliese operaia, e questo balletto continuerà a lungo. Incidentalmente, si tenga conto del fatto che il testo dell’Internazionale era stato scritto da Eugéne Pottier nel 1871 per celebrare la Comune di Parigi, e che fino a che, nel 1888, Pierre Degeyter non scriverà la musica che tutti conosciamo, i versi erano cantati sulla musica della Marsigliese. L’Internazionale (naturalmente nella sua traduzione russa) resterà l’inno nazionale dell’Unione Sovietica fino al 1941, quando fu sostituita e finì per essere adottata come inno del PCUS.

Nel 1917 il meccanismo fu lo stesso che si verificò per la bandiera rossa: l’appropriazione dei simboli, da parte di una o dell’altra delle fazioni rivoluzionarie, acquisiva un’importanza strategica. Nessuno voleva rinunciare a un motivo particolarmente felice e significativo, anche se proprio le alterne vicende dimostrano che, in realtà, esso non apparteneva a nessuno. Era una gara ad accaparrarsi un frammento di emotività, disputata con il massimo possibile della freddezza.

L’oceano di Golijov

29 Dicembre 2007 § 0 commenti § permalink

oceanaOceana è il penultimo dei Cantos ceremoniales di Pablo Neruda, una lunga lirica ricca di simboli e di metafore erotiche, forse la più appassionata della raccolta pubblicata a Buenos Aires nel 1961 (in italiano si può leggere nella traduzione di Giuseppe Bellina, edita da Passigli nel 2005). Passaggi oscuri e intrisi della personale epica di Neruda vi si alternano a versi di splendida luminosità. Una lunga invocazione, rivolta indirettamente all’amatissima Matilde, in cui la donna viene paragonata a una divinità marina, all’oceano stesso, al suo totalizzante e violento potere sul cuore del poeta.

Tengo hambre de no ser sino piedra marina,
estatua, lava, terca torre de monumento
donde se estrellan olas ya desaparecidas,
mares que fallecieron con cántico y viajero.

(Ho fame di non essere che pietra marina, | statua, lava, torre ostinata di monumento | dove s’infrangono onde ormai scomparse, | mari che morirono con cantico e viaggiatore.)

La commissione a Osvaldo Golijov, datata 1996, si deve a quello stesso Helmuth Rilling che quattro anni dopo lo spingerà a scrivere la Pasión Según San Marcos, che otterrà un’autentica ovazione alla prima di Stoccarda, e che nel marzo del 2008 potrà essere ascoltata a Ferrara. Golijov – nato nel 1960 in Argentina da una famiglia di origine askenazita (proveniente da Romania e Ucraina) – è nel frattempo diventato uno dei più popolari compositori della scena americana. La Deutsche Grammophon ha inciso tre dischi di sue composizioni (e non nella collana di contemporanea!), la sua ultima opera, Ainadamar ha vinto due Grammy, ha scritto le musiche per l’ultimo film di Coppola Un’altra giovinezza [Youth Without Youth] e mille altre cose. Le tappe che contraddistinguono il cursus honorum di un compositore di successo negli Stati Uniti, ma che non sempre spianano la strada al riconoscimento in Europa.

Oceana è una sorprendente composizione, che mescola in un particolare e per molti versi astuto sincretismo elementi barocchi, neoclassici, stilemi della musica pop e di diverse tradizioni popolari. Golijov prende 4 frammenti dalle 11 stanze del testo di Neruda, li organizza in tre “ondate” corali, un’aria solistica e un Corale finale, inframmezzandoli con due “richiami” virtuosistici per la voce sola della splendida cantante world argentina Luciana Souza e un gruppo di chitarre e arpa. Le prime tre parti corali possono ricordare, nel loro impeto travolgente, la Turba della Passione secondo San Matteo di Bach (verosimilmente in omaggio a Rilling e al contesto della commissione), a cui però si aggiunge un senso di tempestoso e ritmico riflusso, di immediato riferimento marino. Devo confessare che al primo ascolto questa molteplicità di segnali estetici divergenti lascia molto perplessi, e si fatica a capirne la cifra personale.

osvaldo_golijov_2L’impaginazione del disco, del resto, non aiuta. Alla “cantata” Oceana segue un lavoro per quartetto d’archi in due movimenti, intitolato Tenebrae, interpretato dal Kronos Quartet, e la raccolta si chiude con i Three Songs per soprano e orchestra, cantati meravigliosamente da Dawn Upshaw. Se in Tenebrae, che dovrebbe in qualche modo ispirarsi alle meravigliose Leçons de Ténèbres di François Couperin, si ascoltano cadenze barocche alternate a passaggi quasi pop, dove l’ostinato si confonde con il riff, le tre liriche per soprano rimandano a mondi molto diversi: in Lúa descolorida, per esempio, si sente il fin troppo facile rimando all’aria che nella Rusalka di Dvořák la protagonista rivolge alla luna, ma altrove si sente Mahler (per esempio nella bella ninnananna Close Your Eyes), e via dicendo.

Se attraverso l’ascolto di questo disco si cercherà di capire se Golijov sia o meno quel grande compositore di cui spesso si sente parlare, la risposta non è né immediata né facile. Sicuramente possiede una grande abilità tecnica – ottimo, per esempio, è il suo uso delle voci, e non stupisce che trovi interpreti di così alto livello; è chiaramente molto bravo nel mescolare i linguaggi e nel moltiplicare i rimandi; non ha paura di abbandonarsi a momenti che rasentano il kitsch o il sentimental-pop; possiede un vocabolario poetico e creativo molto vasto. È una voce originale? Sicuramente sì: per esempio riferimento simultaneo kletzmer e latino-americano, giustificato dalla storia familiare di emigrazione, è dotato di un discreto fascino e conduce a sonorità interessanti e in qualche modo inattese. Se tutto questo basti o no a farne una voce importante della musica d’oggi, è giusto che ognuno lo decida da sé. Personalmente nutro qualche dubbio, ma sono più che disposto a modificare questa opinione, in futuro.

Nella foto, Osvaldo Golijov; © Sara Evans, 2002.

O. Golijov, First Wave: “Oceana nuptial, cadera de las islas” (Ocèana nuziale, fianchi delle isole), Atlanta Symphony Orchestra and Chorus, dir. Robert Spano (reg. 2004)

oceana_firstwave

I libri che forse dovremmo leggere

19 Dicembre 2007 § 0 commenti § permalink

libriQuali sono stati i libri di argomento musicale più importanti del 2007? I giornali di tutto il mondo non lasciano molti dubbi, e mettono al primo posto, con una rassegna stampa imponente, The Rest is Noise, di Alex Ross. Uscito lo scorso ottobre negli Stati Uniti per Farrar, Straus and Giroux, il libro, che riporta il sottotitolo Listening to the Twentieth Century, è una bellissima storia della musica del Novecento condotta con taglio narrativo, piglio sicuro e grande capacità affabulatoria da un giovane critico newyorkese, che negli ultimi dieci anni si è segnalato come uno dei più sensibili cronisti e intenditori del rapporto tra musica e linguaggi contemporanei. Ross scrive sul New Yorker, una delle migliori riviste dell’intelligentsija americana, ma è anche più conosciuto, al di là di ogni confine geografico, per il suo influente blog che porta lo stesso titolo del libro. Lì ha cominciato, da ormai moltissimi mesi, ad annunciare il suo volume; da lì ha diffuso le sue recensioni, segnalazioni e analisi in tutto il mondo. Circa 600 pagine, suddivise in tre parti per quindici capitoli complessivi, su questo libro, che in italiano sarà pubblicato da Bompiani, torneremo presto. Basti dire che, anche senza prestare acriticamente fede alle tante recensioni encomiastiche che ha ricevuto, si caratterizza fin dalla prima, rapsodica lettura per la forza con cui tira le fila di un secolo di musica e lo immerge in una visione storica fatta di equilibrate sicurezze.
Accanto al libro di Ross, fra i più segnalati da tutti i giornali c’è il nuovo studio di Oliver Sacks, dedicato al rapporto tra musica e cervello umano: Musicophilia: Tales of Music and the Brain, pubblicato da Knopf, imprint del gigante Random Hause. Un altro bellissimo libro, di argomento molto vicino, è quello di Daniel Livitin: This is Your Brain in Music: Understanding a Human Obsession, pubblicato da Atlantic. Questi ultimi due testi sembrerebbero far pensare a un ritorno di interesse su un tema da molti anni trascurato dalla musicologia, e cioè quello della fisiologia e della neurologia dell’ascolto. Ma il fatto che vengano pubblicati da editori non specializzati in musica, e siano stati recensiti da giornali generalmente disattenti alla materia dispone ad altre riflessioni.
Si tratta davvero dei tre libri più importanti dell’anno? Molto probabilmente no, se li si analizza da un punto di vista strettamente musicologico. Ma ciò che più preme far notare è che si tratta di tre libri che hanno la forza di riportare la musica al centro del dibattito storico e scientifico, facendola uscire dalla nicchia dei musicofili e dei musicologi. E non è poco, se si pensa agli effetti che questo spesso superbo isolamento sta causando alla più ardua e necessaria tra le espressioni della creatività umana. Torneremo al più presto su ognuno di essi.