Un altra bellissima tavola di Tom Gauld. Dedicata agli intellettuali?
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23 Giugno 2011 § 0 commenti § permalink
Freud, Onfray, Mozart e la musica degli intestini
16 Maggio 2011 § 3 commenti § permalink
Carissimo Dottore,
Grazie per la plaquette! Il fatto che Mozart amasse e coltivasse “gli scampanii da suino” mi era già noto, non so perché. Le spiegazioni che ne date non tollerano alcune obiezione. Analizzando numerosi musicisti ho notato un interesse particolare, risalente alla loro infanzia, per i rumori prodotti dagli intestini. Se lo si debba considerare come un caso particolare del più generale interesse nei confronti del mondo dei suoni, o invece si debba accettare che nel talento musicale (a noi sconosciuto) ci sia una forte componente anale, è un dubbio che lascio irrisolto.
Un cordialissimo saluto
Suo, Freud
La bizzarra osservazione secondo cui i musicisti sono particolamente interessati ai “rumori prodotti dagli intestini”, Freud la sostiene in una lettera indirizzata a Stefan Zweig il 25 giugno 1931 dalla cittadina di Pötzleinsdorf, vicino a Vienna, dove si trovava in villeggiatura. Che Freud non fosse affatto interessato alla musica è cosa ben nota; bisogna tuttavia dire che la lettera è particolarmente strampalata, e forse non a caso non è stata inclusa nella traduzione italiana del suo epistolario.
La cita invece, amputandola strategicamente, Michel Onfray nel suo formidabile Crepuscolo di un idolo, il libro che dedica alla sistematica e violentissima distruzione della credibilità di Freud, da poco tradotto in italiano. Vale la pena di citare per intero il paragrafo, che tira in ballo anche Mahler:
Freud non si abbandona a visioni del mondo quando propone la sua ipotesi, scientifica evidentemente, sull’origine della musica, e, proseguendo nel registro scatofilo che ne sa più su sé stesso che non sul mondo, scrive a Stefan Zweig: «Analizzando parecchi musicisti, ho notato un interesse particolare, risalente alla loro infanzia, per i rumori prodotti dagli intestini […]. Una forte componente anale in questa passione per l’universo sonoro» (25 giugno 1931). Gustav Mahler, analizzato dal maestro in persona per quattro ore (!) durante una passeggiata per le strade di Leyda, in Olanda, avrà sicuramente contribuito all’elaborazione di questo materiale scientifico.
Si noti l’ironia sulla ‘scientificità’ delle teorie freudiane, la perfidia del “ne sa più di se stesso che non sul mondo” (insomma, per Onfray era Freud lo scatofilo), la trasformazione del dubbio dell’originale in una certezza, e la stoccata sulla famosa ‘seduta di analisi’ che Mahler avrebbe avuto con Freud (apparentemente poco più di una passeggiata). È lo stile del libro, appassionante ma senza esclusione di colpi, talvolta anche oltre i limiti della correttezza.
Ma che storia c’era dietro la buffa ‘osservazione clinica’ dei musicisti petomani di Freud? » Read the rest of this entry «
Simenon nella gabbia di vetro
10 Maggio 2011 § 1 commento § permalink
Da un divertente articolo di Tony Perrottet, sul New York Times, dedicato alle tecniche di autopromozione dei grandi scrittori, da Erodoto a Hemingway:
“Gli autori americani cercarono di tenere il passo. È noto che Walt Whitman si scrivesse da solo recensioni anonime che oggi non sfigurerebbero su Amazon: “Un bardo americano, finalmente!”, scrisse con entusiasmo nel 1855, “Grande, orgoglioso, affettuoso, di abitudini libere e virili nel mangiare, nel bere e nel riprodursi, il volto barbuto e bruciato dal sole.” Ma nessuno riuscì a eguagliare la creatività degli europei. Forse la trovata più stupefacente nel mondo delle pubbliche relazioni – quella che dovrebbe ispirare un timore reverenziale tra gli autori di oggi – fu escogitata a Parigi nel 1927 da Georges Simenon, l’autore di origine belga dei romanzi dell’ispettore Maigret. Per 100.000 franchi, il selvaggiamente prolifico Simenon accettò di scrivere un romanzo intero in 72 ore, restando chiuso in una gabbia di vetro collocata fuori dal Moulin Rouge. Il pubblico sarebbe stato invitato a scegliere i personaggi del romanzo, il soggetto e il titolo, mentre Simenon martellava le pagine su una macchina da scrivere. La pubblicità in un giornale annunciò che il risultato sarebbe stato “un romanzo da record: record di velocità, record di resistenza e, osiamo aggiungere, record di talento”. Fu un grande colpo di marketing. Come Pierre Assouline scrive in Simenon: biographie, i giornalisti a Parigi “non parlavano d’altro”. » Read the rest of this entry «
Leggere poesia a Gerusalemme
30 Aprile 2011 § 0 commenti § permalink
Un gruppo di scrittori, poeti, critici, alcuni rapper, molti studenti: non esattamente il ritratto di una pericolosa cellula terroristica. Eppure nel tendone in cui dovevano riunirsi per festeggiare la conclusione del Palestine Festival of Literature (PalFest), la rassegna dedicata alla scrittura che da quattro anni si svolge, tra incredibili difficoltà, in territorio palestinese, sono stati lanciati dei lacrimogeni dall’esercito occupante. Da quelle parti le cose vanno così, e nessuno sembra stupirsi più di tanto.
Sobborgo di Silwan, a sud di Gerusalemme, quartiere a larga maggioranza palestinese su cui negli ultimi anni si sono concentrati nuovi piani di espansione delle colonie israeliane e un progetto per l’ampliamento di un parco archeologico contestato dai residenti; luogo di forti tensioni e frequenti scontri; luogo di violazione dei diritti umani secondo gli osservatori stranieri, che denunciano il reiterato arresto di bambini da parte della polizia e dell’esercito occupante. Per guadagnare un po’ di sostegno da parte della stampa internazionale contro i preoccupanti progetti dei coloni, è stato issato un tendone, luogo di ritrovo e di scambio di informazioni. È proprio qui che, con un certo coraggio e forse anche con un po’ di senso di sfida, il 20 aprile si è chiuso il festival che per cinque giorni ha riunito, come ogni anno, migliaia di persone intorno alle forze della letteratura palestinese e ad alcuni illustri e meno illustri ospiti stranieri.
Nato nel 2008, il PalFest ha avuto tra i suoi fondatori e sostenitori nomi importanti della letteratura di tutto il mondo, come lo scrittore nigeriano Chinua Achebe, John Berger, Harold Pinter (scomparso nel 2008), il premio Nobel Seamus Heaney, il poeta ‘nazionale’ palestinese Mahmoud Darwish, e molti altri. Gli organizzatori lo definiscono ‘festival itinerante’, cosa che naturalmente, in un paese in cui la difficoltà di spostamento è uno dei segni più tangibili dell’occupazione, assume un significato tutto particolare: quest’anno ha portato nei diversi luoghi delle manifestazioni (Nablus, Jenin, Betlemme, Ramallah, Hebron e Gerusalemme) scrittori e scrittrici come l’egiziana Adhaf Soueif, l’americana Alice Walker (l’autrice di Il colore viola), il pakistano Mohammed Hanif (Il caso dei manghi esplosivi, Bompiani 2009) e molti altri, e li ha fatti incontrare con gli scrittori locali e con il pubblico, in una serie di workshop, letture, dibattiti.
L’appuntamento conclusivo era per le 19.30 sotto il tendone di Silwan, ma gli scontri sono cominciati alcune ore prima, l’aria era irrespirabile per i lacrimogeni e molti ospiti erano stati trattenuti ai posti di blocco, così tutto sembrava essere andato in fumo. E invece hanno aspettato che il fumo si disperdesse, che gli scontri cessassero, e quando ormai era quasi notte sotto quel tendone ci si sono davvero seduti, e hanno letto le loro benedette poesie, e hanno fatto i loro benedetti discorsi, e hanno suonato le loro benedette canzoni. Ne parla un articolo dell’Economist, lo si può leggere anche in alcuni blog e siti come i coraggiosi Rete Eco – Ebrei contro l’occupazione o Invisible Arabs della giornalista Paola Caridi. Se ne può sentire l’atmosfera, tutta particolare, nel video postato dagli organizzatori del Festival su Youtube.
Sono i momenti in cui la letteratura e le arti si riprendono il loro valore di ponte sospeso fra le persone e i luoghi, fra personale e collettivo, allontanandosi da quella fruizione un po’ solipsistica e consumistica che sempre più stanno assumendo nelle nostre vite. Piacerebbe pensare che queste iniziative siano ben viste se non addirittura sostenute dagli occupanti israeliani, poiché ogni occasione di incontro e crescita culturale rappresenta anche un freno al diffondersi del cancro estremista e integralista. Ancora una volta non è così, e viene da chiedersi se non ci sia un metodo in questa sistematica volontà di ostacolare la crescita sociale della popolazione palestinese, in questa obliterazione delle proprie radici culturali, del proprio tessuto sociale e del proprio paesaggio a cui la si vuole spietatamente costringere.
È la storia che racconta nei suoi libri uno dei fondatori e sostenitori del Festival, Raja Shehadeh, scrittore e avvocato nato a Ramallah. Il disgregarsi di una società in stretto rapporto con il territorio, l’umiliazione di una borghesia istruita, fatta di professionisti, commercianti e possidenti terrieri, costretta a emigrare o a vivere in un contesto sempre più contrassegnato dalla violenza e dalla coercizione, e ad assistere infine all’affermazione dell’integralismo, la peggiore delle medicine, quella che uccide il paziente insieme ai sintomi del suo male.
Uno dei suoi libri, in particolare, racconta la storia degli ultimi decenni in Palestina da un punto di vista unico e pregnante, quello del paesaggio e della sua trasformazione. Riprendendo un’antica tradizione palestinese, quella della sarha, il vagabondaggio disintossicante che l’uomo si concede una volta all’anno, Shehadeh ama le lunghe camminate, e ne Il pallido dio delle colline (EDT 2010) racconta 7 di questi viaggi a piedi fra le colline e i wadi della Cisgiordania, distribuite nell’arco degli ultimi venticinque anni; ricorda le luci della civile Jaffa di quando era piccolo, poi lo spostamento coatto verso Ramallah, luogo fino ad allora destinato alla villeggiatura, la scoperta delle colline, con i loro ulivi, i terrazzamenti, il fresco dei rifugi per il bestiame. E poi lentamente il disgregarsi del tessuto sociale, l’abbandono delle terre, la comparsa degli insediamenti sempre più invadenti, l’occupazione e la frammentazione del territorio, gli espropri. Tutto però scandito dal passo di chi cammina e osserva, e camminando e osservando in qualche modo riflette e sorpassa. Un libro che mi ha aiutato molto a capire come stanno le cose al di là delle notizie di cronaca e dei libri di storia. E soprattutto un libro guidato da quella stessa disperata fiducia nella parola e nel pensiero che ha spinto pochi giorni fa un gruppo di pazzi a sfidare la sorte e il rancore dei propri nemici per andare ad ascoltare poesie sotto un tendone che sapeva ancora di gas lacrimogeno.
La foto di Raja Shehadeh è di Chris Boland, ed è stata scattata a Cambridge nel marzo scorso; la persona dietro di lui è lo scrittore inglese Robert Macfarlane.
L’arte che discute, contesta, protesta
22 Marzo 2011 § 3 commenti § permalink
L’art doit discuter,
doit contester,
doit protester.
L’arte deve discutere, deve contestare, deve protestare. È una visione estetica, e non necessariamente la migliore. Ma la cosa che colpisce è che a pronunciare questa frase sia stato un uomo politico, e non certo un politico di sinistra: Georges Pompidou, Primo ministro a metà degli Sessanta e poi Presidente della Repubblica francese. E non fu solo una frase detta così per dire, ma l’attestazione di una politica culturale e di un investimento. Leggerla sulla facciata del ‘Beaubourg’, il complesso dedicato alla diffusione delle arti che porta il suo nome, colpisce oggi più che mai, e non tanto (o non solo) per via della totale mancanza di una visione estetica da parte dell’attuale classe politica, ma anche per una questione di linguaggio. Si pensi anche solo ai modi superficialmente sussiegosi e segretamente sprezzanti con cui l’arte è oggi trattata nei discorsi politici. Anzi, non è trattata, perché quasi mai si parla di arte, ma sempre di ‘cultura’. La cultura è quella cosa a cui bisogna dare i soldi, perché quel paese ne dà più di noi, e quell’altro ancora di più, e così via, in un umiliante ritornello. Sembra che nelle orecchie dei cittadini italiani la parola cultura non possa più essere divisa dalla parola soldi. È il frutto di una efferata, silenziosa vendetta del mondo politico: rendere l’artista un questuante, una sorta di arcaico sottoproletario da difendere dalla fame o da abbandonare a se stesso, a seconda della parte a cui si appartiene. Ma tutti sanno ciò che non vogliono dire: è la politica, questa politica, che è arcaica, non l’arte. Perché l’arte discute, contesta e protesta. La politica non più.
Nostra patria è il mondo intero!
17 Marzo 2011 § 0 commenti § permalink
Belle le tante feste per l’Unità, bello sentir ricordare i personaggi eroici che hanno lottato per farla nascere. Divertente prima che preoccupante il ritorno del kitsch patriottico. Peccato però pensare di combattere il provincialismo con il regionalismo, il regionalismo col nazionalismo e così via. Anche perché molti ricorderanno che proprio dopo una disastrosa ubriacatura di falso patriottismo era nata la splendida utopia di Ventotene, l’idea di una unica e accogliente patria europea. La parola Europa è la grande assente dalle riflessioni sul presente e il futuro nazionale. Sembra quasi che nessuno ci creda più. Eppure, solo pochi anni fa…
Allora auguri all’Italia, magari nella speranza che dopo tutto questo sventolìo a qualcuno rimanga la voglia di fare un po’ di pulizia. Senza mai dimenticare le parole sante del grande Brassens su “les imbéciles heureux qui sont nés quelque part”. Da meditare ogni giorno di più.
Più moderno di ogni moderno
9 Marzo 2011 § 1 commento § permalink
Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle chiese,
dalle pale d’altare, dai borghi
dimenticati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l’Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io assisto, per privilegio d’anagrafe,
dall’orlo estremo di qualche età
sepolta. Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno di ogni moderno
a cercare fratelli che non sono più.
Un frammento, bellissimo e doloroso, di una poesia di Pasolini datata 10 giugno 1962 e inserita poi in Poesia in forma di rosa. Fa parte delle liriche scritte durante la lavorazione di Mamma Roma, e Pasolini la fa recitare al regista della Passione di Stracci nella Ricotta. Qui si può vedere il passaggio del film: la voce a Orson Welles la presta il poeta Giorgio Bassani. Sulla modernità, sul passato, e sulla condizione dell’Italia di oggi, anche se la modernità sembra già, anch’essa, passata.
Harding, Bernstein e la leggerezza
28 Febbraio 2011 § 0 commenti § permalink
Riti di passaggio nel mondo dei grandi direttori. A 35 anni Daniel Harding debutta con la New York Philharmonic, e puntuale il New York Times gli dedica un’intervista che, sorprendentemente, prende una piega vagamente malinconica. Il titolo: “Un bambino prodigio cresce e diventa un semplice direttore giovane”.
Volendola riassumere con parole nostre, la sua storia è un po’ questa: un giovanissimo musicista viene venduto per dieci anni come fanciullo prodigio, si ritrova a dirigere le migliori orchestre del mondo intorno ai vent’anni d’età, a ventuno debutta con i Berliner, poi ottiene un contratto con una major discografica, poi inaugura la Scala, poi, poi… Poi si ritrova a 35 anni, con un calendario ancora gremito di impegni, con opportunità che pochissimi direttori suoi coetanei potrebbero avere, ma con un personaggio da reinventare, e forse con una vita un po’ a pezzi. A 35 anni sei un giovane direttore, non sei più ‘il folletto del podio’, l’‘esplosione di energia giovanile’ e le altre terribili castronerie che per dieci anni hanno affollato le poche righe che i giornali concedono ai senescenti critici musicali. Senescenti anagraficamente o più spesso psicologicamente.
Dove abita Daniel? Da nessuna parte. Le sue cose sono in un magazzino, dopo la separazione dalla moglie. Quale grande orchestra dirige? Nessuna in maniera stabile: quelle stesse istituzioni che lo invitavano per divertire un pubblico vecchio e assetato di gioventù come il conte Dracula, lo chiamano ancora perché è un buon nome, perché ancora c’è un po’ di scia dell’effetto ‘folletto’. Ma a parte qualche critico di qualche inserto culturale di qualche giornale confindustriale italiano, il tempo dei peana è passato, e ora viene quello della costruzione di un prestigio, di una credibilità da musicista maturo. Un’impresa tutt’altro che facile, in queste condizioni. Lui nel frattempo si lega a istituzioni con cui può crescere al riparo: Trondheim, in Norvegia; Norrköping, in Svezia; Brema, in Germania.
E adesso due concerti con la New York Philharmonic, per due sinfonie di Mahler. Come dice lui stesso, non è che uno va a New York e con un paio di prove spiega all’Orchestra che fu di Bernstein come si suona la Quarta di Mahler. La sfida è quella di non fare stupidaggini, di guidarli e lasciarsi guidare; quella di creare un rapporto di fiducia e di cercare di crescere ancora, magari anche imparando da loro.
Ma il pubblico, è questo che vuole da Harding? » Read the rest of this entry «
Giuliano Ferrara e la vil razza dannata
22 Febbraio 2011 § 0 commenti § permalink
Che cosa si può dire di Giuliano Ferrara che improvvisa una lezione di storia della musica in difesa del suo datore di lavoro, e lo fa citando dalla Breve storia della musica di Massimo Mila? Già si sapeva che Mila non rappresentò esattamente il culmine, la summa dell’esegesi verdiana. Ma leggere il Mila che spiega il melodramma italiano in antitesi al Romanticismo europeo (per via di semplificazione), è già di per sé abbastanza triste; leggerlo poi attraverso la rimasticatura sgangherata di Ferrara, è davvero sconfortante. L’articolo vale il tempo della lettura, perché dimostra una volta di più la distanza del mondo intellettuale italiano dalla musica; mai e poi mai Ferrara avrebbe potuto impancarsi storico dell’arte e tenere una concione squinternata su Piero della Francesca, o della letteratura scrivendo della morale in Manzoni, senza coprirsi di ridicolo. La citazione di Mila gli serviva ovviamente per fare ironia sull’ ”azionismo” di cui tanto si parla nelle ultime settimane, ma la quantità di sciocchezze, ‘elixir’ e tutto il resto, è abbastanza palese. La traduzione dell’idea di ‘paese del melodramma’, come luogo dell’amore innalzato a fine supremo, esclusiva patria dell’opera buffa e dello spasso solare, rappresenta veramente una falsificazione incredibile sia del melodramma ottocentesco, sia dell’Italia di oggi. Se infatti le notti di Arcore sarebbero più degne di Offenbach (orrore, un tedesco!) che del Donizetti buffo, l’atmosfera cupa e rabbiosa che domina l’Italia di oggi è effettivamente degna del Donizetti più disperato e del Verdi più severo. Fingere di dimenticare quanto preciso sia stato il ritratto impietoso, moralmente nettissimo e acuto, che il melodramma ottocentesco ha fatto del potere, della violenza politica, dell’asservimento popolare e della cortigianeria interessata, è veramente da bestie. Dispiace dirlo, ma è anche attraverso queste uscite che colui che vorrebbe farsi amare dal suo padrone come un Marchese di Posa, e che spesso è stato ritratto dai suoi nemici come uno Iago, finisce per manifestarsi come un semplice Marullo.
Gadda passa a Adelphi. E allora?
15 Febbraio 2011 § 1 commento § permalink
Il presidente di Adelphi, Roberto Calasso, ha stretto pochi giorni fa un accordo con l’erede di Gadda, Arnaldo Liberati, nipote (figlio del fratello) di Giuseppina, la governante che lo scrittore indicò come propria erede universale: a partire da quest’anno, a mano a mano che i contratti per i libri pubblicati da Garzanti scadranno, le opere di Gadda usciranno in una nuova versione presso Adelphi. Si comincia nientemeno che con Accoppiamenti giudiziosi, e già l’anno prossimo uscirà una nuova versione dell’Adalgisa. Seguiranno a breve il Pasticciaccio e La cognizione del dolore. Alla Garzanti resteranno i diritti, fino ad 2032, delle opere complete in 5 volumi a cura di Dante Isella. All’articolo del Corriere della Sera in cui Calasso dava la notizia, ha risposto un comunicato di Oliviero Ponte di Pino, direttore editoriale della Garzanti, in cui si ribadisce che Gadda resterà nelle loro edizioni; nel comunicato, ripreso anche dal Giornale, non è chiarito come, ma dalla successiva risposta di Matteo Codignola, dell’Adelphi, si capisce che a meno di battaglie legali Gadda sarà in futuro disponibile contemporaneamente nei volumi separati Adelphi e negli opera omnia di Garzanti.
Il trasloco
Il passaggio di un autore da un editore all’altro non è certo una novità, e in fondo non è neppure un fatto particolarmente rilevante, anche se l’autore in questione è un gigante come Carlo Emilio Gadda; tanto meno è rilevante o nuovo se a decidere il ‘trasloco’ non è l’autore stesso ma un erede. Si sa, i grandi editori pensano che tutto il mondo giri intorno ai loro cataloghi, e spesso ritengono di stare tirando le fila della cultura nazionale. Chi segue le cose della letteratura sa che normalmente è un’esagerazione, e che sempre più lo sarà nei prossimi anni di rivoluzione digitale. Comunque sia, Adelphi negli ultimi anni ha messo a segno molti di questi ‘colpi di scena’ editoriali, il più clamoroso dei quali rimane forse l’acquisizione delle opere di Borges. » Read the rest of this entry «