Una partitura al Rodeo

2 Luglio 2009 § 0 commenti § permalink

Allora, tanto per distrarsi un po’, c’è Rodeo, il balletto di Aaron Copland che in Italia non si fa molto perché è veramente troppo saloon, e poi c’è questa giovane, bravissima artista che si sta diplomando alla Glasgow School of Art, Eleanor Steward. Come compito finale ha fatto questa animazione; il pezzo è western che di più non si può: “Hoedown”, dal nome di un ballo popolare americano. Scommetto che è stata promossa.

PS. Quella che viene sbrindellata nel video, in realtà è una partitura di Haydn.

Grazie a Miss Mussel per la segnalazione.

Fumaroli, Citati e gli ‘antimoderni’

29 Giugno 2009 § 2 commenti § permalink

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È da poco arrivato in libreria l’ultimo saggio di Marc Fumaroli, Chateaubriand. Poesia e terrore. Poderoso (circa 800 pagine), scritto con l’intelligenza, la chiarezza e l’estrema erudizione che sono consuete a questo coltissimo studioso; la veste tipografica è poi quella, ineccepibile e attraente, della collana ‘Il ramo d’oro’ della Adelphi. L’ho preso, l’ho sfogliato, ne ho letto un paio di pagine e poi l’ho riposto sullo scaffale del libraio. So che non riuscirei mai non dico a finirlo, ma neppure a superare il centinaio di pagine; nei libri di Fumaroli si entra come un grande museo, in ogni pagina c’è qualcosa da imparare, ma si fatica molto a capire dove ci stanno portando, e ogni tanto si sente il bisogno di cercare una finestra per capire dove ci si trova. Non è solo che non condivido per nulla le tesi di fondo di pressoché ogni suo libro, ben esposte in questo post di Luigi Castaldi; la verità è che difficilmente arrivo a cogliere l’ideologia antimoderna, perché è lo stile a tradirla prima di ogni ragionamento, e non riesco a entrare in sintonia con una scrittura che sembra fatta unicamente per sé stessa.

Scrivo questo non solo per il libro, ma perché alcuni giorni dopo avere visto il libro, mi sono imbattuto in una recensione pubblicata da Libération alla nuova fatica letteraria dell’instancabile Fumaroli, uscita nel frattempo in Francia. Firmato da Philippe Lançon e intitolato spiritosamente Il mangiatore d’ozio (con un gioco di parole sul ‘mangiatore d’oppio’ di de Quincey), si tratta di un pezzo feroce e talvolta eccessivamente sarcastico, scritto tuttavia con quel coraggio e quella spregiudicata serietà che sempre si vorrebbe trovare in una recensione. Vi si dicono cose che non valgono solo per Fumaroli – che Lançon definisce “il più intelligente dei vecchi tromboni”, ma che si potrebbero facilmente trasferire a una buona parte della nostra ‘cultura erudita’. Ne traduco qui il passaggio più interessante:

Se finora abbiamo seguito volentieri Fumaroli nella sua fumisteria erudita è prima di tutto perché lui è il più intelligente dei vecchi tromboni. O, per dirla secondo le convenienze, degli ‘antimoderni’. Questa categoria piena di distinzione, divisa tra il dandysmo e la malinconia aggressiva, è stata analizzata da Antoine Compagnon (Gallimard). È una categoria vivificante, poiché striglia per bene l’idiozia moderna; educativa, poiché precisa la presenza dei morti; ma sovente sterile, perché il suo sguardo è falsato da troppa cattiva fede ed ebbrezza nostalgica. In breve, l’‘antimoderno’ passa il suo tempo a denunciare ciò che lo circonda mentre contempla degli antichi affreschi in un’antica caverna. Quando un martello pneumatico fa un buco, è come nella celebre scena del film Roma, di Fellini: buona o cattiva che sia, l’aria entra nella caverna e cancella tutto – e i commenti prima di tutto.

Oltre al riferimento a una scena indimenticabile del cinema di Fellini, l’articolo ha portato con sé il ricordo indelebile di un altro articolo sulla questione ‘moderni e antimoderni’, ben più importante. Era il 1989, e Giulio Bollati aveva appena preso le redini della casa editrice Boringhieri (ribattezzata Bollati Boringhieri); nel giro di pochi anni avrebbe costruito un progetto editoriale di grande forza, tanto da lasciare una traccia duratura anche dopo la sua scomparsa. Ma naturalmente il 1989 è stato anche l’anno della cosiddetta ‘caduta del muro di Berlino’, e dell’inizio di un attacco frontale alla cultura progressista di cui i miserabili governanti attuali non sono che gli ultimi epigoni: in questo simili ai soldati che passano sul campo di battaglia per finire i feriti e, se possibile, derubarli. Era l’inizio di un’equazione, condotta in esibita cattiva fede, tra progressismo e stalinismo, fra Lumi e Terrore. Pietro Citati, in un articolo su Repubblica dedicato alla Normale di Pisa, si fece portavoce di questa prima ondata di vendette contro la cultura ‘egemone’ della sinistra; Giulio Bollati gli rispose, sempre sulla Repubblica, con questa ‘lettera aperta’ veramente memorabile.

Citati è un altro scrittore di cui forse non finirò mai un libro, pur avendone amato e studiato tanti scritti, pur ammirandone profondamente il controllo stilistico, pur riconoscendogli la statura del maestro. Ma la lettura di questo pezzo di Bollati (non l’ho trovato in internet, e dunque lo trascrivo qui), a oltre vent’anni di distanza dall’uscita, fa capire molte cose sulla cultura italiana di ieri e di oggi, oltre a essere una critica fortissima e intelligente ai tanti eruditi che si pongono sotto le protettive ma a loro volta indifese ali dei classici, rifiutando il rapporto vivo e dialettico con la modernità. E per tornare ai temi più consueti a Fierrabras, non è che nel campo musicale questi personaggi siano una rarità; anzi, direi che la chiusura, l’elitarismo, il distacco dal presente esibito nel linguaggio oltre che nella scelta degli argomenti siano la norma e il modello perfino tra i critici e i musicologi più giovani.

Il ritratto di François René de Chateaubriand che medita sulle rovine di Roma è quello famosissimo dipinto nel 1808-09 da Anne-Louis Girodet; l’originale è in una collezione privata, ma un’ottima copia d’epoca (a lungo ritenuta originale) è conservata al Musée d’histoire de Saint-Malo.

Jarman e Britten contro ogni guerra

25 Giugno 2009 § 2 commenti § permalink

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Fare un film su una composizione musicale è un compito difficile e pericoloso per un regista; farlo non avendo alcuna intenzione di illustrare, ma con il coraggio di aggiungere una sceneggiatura e una drammaturgia alla musica ed eventualmente al testo cantato, è un caso più unico che raro. Lascia dunque abbastanza stupiti scoprire la bellezza di un film come War Requiem di Derek Jarman, e accorgersi di quanto poco sia stata considerata questa pellicola fuori dalla Gran Bretagna, da parte sia degli appassionati di cinema sia da quelli di musica. Eppure non si tratta di un’opera minore; anzi, qualcuno sostiene che si tratti del suo massimo capolavoro.

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Girato da Jarman e prodotto da Don Boyd nel 1989, War Requiem è una grandiosa lettura visuale e drammatica della composizione che Benjamin Britten scrisse nel 1961–62 per l’inaugurazione della cattedrale di Coventry restaurata dopo le bombe incendiarie sganciate dalla Luftwaffe nel 1940. Fatta eccezione per un lungo piano sequenza iniziale, la sua storia si dispiega sulla incomparabile incisione che Britten stesso ne fece, con l’amato Peter Pears, Dietrich Fisher-Dieskau e Galina Vishnevskaya nel 1963 (l’orchestra era la London Symphony); un tenore inglese, un baritono tedesco e una soprano russa, a rappresentare le tre grandi nazioni in guerra (anche se alla prima esecuzione, quella avvenuta nella nuova cattedrale di Coventry il 30 maggio del 1962, alla Vishnevskaya era stato impedito di partecipare dal ministro della cultura sovietico). Britten non era certo la persona più adatta né alle solenni celebrazioni di marca guerriera, né alle grandi architetture religiose, e come si sa ne ricavò una delle opere di più profonda e radicale denuncia nei confronti dell’assurdità e crudeltà della guerra che mai sia stata fatta attraverso la musica; una straordinaria riflessione sulla violenza, la morte, l’amore e la poesia che mi sembra non avere paragoni nell’intera storia della musica.

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Al testo latino della messa di Requiem, con il quale da ateo non si sentiva presumibilmente a proprio agio, Britten scelse di inframmezzare alcune poesie del più straziante e lirico dei poeti-soldati della prima guerra mondiale, Wilfred Owen, morto al fronte in circostanze tragiche una settimana prima della firma dell’armistizio. Si tratta di poesie che appartengono al cuore della letteratura inglese sulla Grande Guerra, intrise di un senso della pietà e di non pacificato dolore che rappresentarono il più violento urlo contro l’assurdità bellica che la letteratura dell’epoca abbia creato: il famoso Anthem for Doomed Youth (Inno per la gioventù condannata), o The Parable of the Old Man and the Young (La parabola del vecchio e il giovane), aspro sovvertimento del sacrificio di Isacco, o ancora la straordinaria, incompleta Strange Meeting (Strano incontro), in cui è descritto un allucinato e commovente incontro con un soldato nemico, sono liriche che racchiudono il pensiero di Britten sulla guerra più di qualsiasi dichiarazione genericamente pacifista. » Read the rest of this entry «

Pasolini e il nostro fascismo

27 Maggio 2009 § 0 commenti § permalink

pasolini

L’Italia sta marcendo in un benessere che è egoismo, stupidità, incultura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo: prestarsi in qualche modo a contribuire a questa marcescenza è, ora, il fascismo. Essere laici, liberali, non significa nulla, quando manca quella forza morale che riesca a vincere la tentazione di essere partecipi a un mondo che apparentemente funziona, con le sue leggi allettanti e crudeli. Non occorre essere forti per affrontare il fascismo nelle sue forme pazzesche e ridicole: occorre essere fortissimi per affrontare il fascismo come normalità, come codificazione, direi allegra, mondana, socialmente eletta, del fondo brutalmente egoista di una società.

Ho visto Pasolini. Un delitto italiano di Marco Tullio Giordana, e letto il romanzo-inchiesta pubblicato da Mondadori con lo stesso titolo; mi sono sembrati entrambi molto interessanti e al tempo stesso piuttosto deboli – anche se sono riusciti nell’intento di fare brevemente riaprire l’ormai impossibile inchiesta. Mi sono sembrati deboli perché indagano i fatti, come sempre è successo per questo delitto, sotto l’abbagliante cono di luce della personalità e dell’opera di Pasolini. Non credo sia un’operazione sbagliata nelle premesse – come si potrebbe, d’altro canto, isolare i fatti da quel contesto umano, politico e culturale di cui Pasolini era un protagonista di primissimo piano? Credo tuttavia che sia un’operazione destinata inevitabilmente al fallimento: troppo forte la tentazione di trovare una giustificazione e una predestinazione nelle parole di un poeta lucidissimo (non è affatto un ossimoro) e di un intellettuale violentemente determinato a indicare le tante vie e i tanti responsabili del disfacimento della società italiana. E cercare una predestinazione significa anche attenuare il senso di una perdita incolmabile e assurda, proprio nel momento in cui si manifesta la sua profondità e assurdità.

Il film contiene alcuni brani molto belli tratti dagli scritti e le poesie di Pasolini, e così mi è tornato in mente il frammento sopra riportato, tratto dalla risposta che egli scrisse a due lettori del settimanale comunista “Vie nuove”. Era il 6 settembre 1962, e da due anni teneva una rubrica intitolata “Dialoghi con Pasolini”; “Vie nuove”, fondato nel 1946, era un periodico politico di taglio ‘popolare’, che si rivolgeva in particolare ai più giovani. In una lettera, due lettori torinesi gli avevano domandato perché secondo lui l’idea fascista esercitasse tanto fascino sui giovani, e Pasolini aveva risposto raccontando un aneddoto. Poco tempo prima aveva concesso un’intervista a una giornalista colta, determinata e di impostazione laica e liberale (oggi probabilmente si direbbe ‘di sinistra’). Erano andati insieme a Ostia, avevano parlato come amici, fatto il bagno insieme. Pasolini le aveva parlato apertamente di sé, e aveva amichevolmente ascoltato le confidenze che la donna gli aveva fatto. Lei aveva un figlio neofascista, con cui quotidianamente lottava e discuteva; era la sua spina nel fianco, il suo dolore. Al termine dell’intervista si erano salutati in amicizia, come persone accomunate da una ricerca ideale. Qualche settimana dopo, era uscito l’articolo: offensivo, indegno, colmo dei pregiudizi sulla sua persona che Pasolini detestava e a cui da sempre si ribellava. Tanto più indegno in quanto scritto da una persona che aveva gli strumenti per capire, e per fermare lo scempio. In conseguenza di questo, si chiedeva in che cosa consistesse il fascismo del presente, ed ecco arrivare questo passaggio straordinario e profondissimo.

Basta guardarsi attorno per vedere quanto fosse lucida questa visione. Il “benessere che è egoismo, stupidità, incultura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo”. L’articolo si chiudeva con una sorta di maledizione biblica, che forse si è nel tempo trasformata in mera premonizione. Il figlio fascista era la conseguenza e il ‘contrappasso’ del fascismo mascherato della madre, del suo prestarsi a “contribuire a questa marcescenza”. L’anatema è divertente e doloroso, con quell’eco da tragedia greca; divertente perché vagamente ironico, terribile perché offre a noi nipoti una desolante spiegazione della realtà durissima da cui siamo assediati, interiormente ed esteriormente: “Che vi vengano figli fascisti – questa la nuova maledizione – figli fascisti, che vi distruggano con le idee nate dalle vostre idee, l’odio nato dal vostro odio”.

Ancora una volta la bellissima foto non so di chi sia. Lo scoprirò, promesso. Il brano è tratto da quella miniera inesauribile di idee, stimoli e grande scrittura civile che è il “Meridiano” di Pasolini Saggi sulla politica e sulla società (Mondadori, 1999; la risposta alla lettera si trova alle pp. 1014–18).

La memoria musicale di Luciano Berio

21 Maggio 2009 § 1 commento § permalink

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Il rapporto tra autore e libro talvolta ricorda quello fra cane e padrone. Li vedi insieme e ti sembra che l’animale rassomigli all’uomo, ne abbia assunto i tratti somatici e gli atteggiamenti; non saprai mai se è una tua fissazione – perché hai in testa quell’aspetto un po’ dinoccolato del padrone, magari, e lo stai iniquamente proiettando sul cane. Dinoccolato è il padrone, dinoccolato ti sembra anche il cane.

Io non ho conosciuto Luciano Berio, e non potrei dire se fosse dinoccolato (ma non mi pare proprio per niente). Però ho cercato più volte di conoscere la sua opera, e posso dire che Un ricordo al futuro, il libro che raccoglie le trascrizioni delle sue “lezioni americane” (Einaudi 2006, a cura di Talia Pecker Berio) le rassomigli molto. Berio ha dottissimi esegeti e allievi micidiali capaci di scagliare spaventosi anatemi, e allora metto in fila qualche caratteristica del libro, faccio finta di attribuirla solo al libro e poi passo velocemente oltre, perché non è di tutto il libro che vorrei parlare, ma di un preciso capitolo (di una precisa conferenza).

Dunque: il libro è scritto con una stranissima alternanza di zone decisamente criptiche e passaggi di canto spianato. Il libro ha delle intuizioni che ti fanno chiudere gli occhi e vedere quello che non avevi mai visto, e dei momenti che ti ricordano i pantaloni a zampa d’elefante del babbo. Il libro ha dei passaggi, a volte pagine intere, che le rileggi una, poi due, poi tre volte per capire di cosa sta parlando, e poi vai avanti facendo finta di capire, perché non ha voglia di commiserarti a ogni pagina. Il libro manifesta un amore sconfinato per l’intelligenza; un amore che a volte fa quasi paura, perché non sempre il fuoco dell’intelligenza basta a scaldarti dalla testa ai piedi; e perché magari ti è capitato di leggere autori che erano meno innamorati dell’intelligenza, ma in questo ti sembravano perfino più intelligenti; ma in ogni caso ti fa venir voglia di essere più intelligente (che è come cercare di diventare più alti). Il libro, in ogni singola conferenza, mostra uno strano equilibrio fra trattazione puntuale e divagazione improvvisa. Il libro infine sembrerebbe un sistematico panorama, ma ti rimane in testa soprattutto per molti brevi passaggi in cui ti soffia nell’orecchio intuizioni e idee molto brillanti.

Dimenticare la musica

berio_libroSei bellissime conferenze tenute nel 1993–94 come titolare della cattedra di poetica Charles Eliot Norton alla Harvard University. Quella stessa cattedra che pochi anni prima aveva ispirato le Lezioni americane di Calvino, e qualche anno prima ancora The Unanswered Question di Bernstein, e prima ancora Musica e immaginazione di Copland, e prima ancora La poetica della musica di Stravinsky. E tanti, tanti altri, fra cui il recentissimo La musica sveglia il tempo di Daniel Barenboim. Sei diversi temi, tutti molto cari alla poetica di Berio. Ma fra tutte, la lezione che mi è sembrata più interessante, per quanto breve e per certi versi imperfetta, è la terza, dedicata alla memoria nella musica e al rapporto con il passato. Il titolo, bellissimo, è “Dimenticare la musica”.

Sono dodici pagine, e come le altre conferenze sembrano più un invito alla riflessione che una trattazione complessiva, ma sono molto dense di stimoli per chiunque si interessi alla musica di oggi, intesa sia come interpretazione sia come composizione. Vi fanno ritorno alcuni dei temi che attraversano tutto il brevissimo libro, e che sono cari alla poetica di Berio. Vorrei per esempio citare la frase iniziale, molto bella:

Ci sono mille modi di dimenticare la musica e a me interessano i modi attivi di dimenticarla, piuttosto di quelli passivi e inconsapevoli. In altre parole, mi interessano le amnesie volontarie, anche se il desiderio e il tentativo di possedere e di ricordare tutta la storia, di tutti i tempi e di tutti i luoghi, è un aspetto costitutivo del pensiero moderno; e anche se i mezzi per soddisfare questo desiderio certamente oggi non mancano.
C’è, da parte di chi ascolta, la tendenza a ricordare tutto il passato musicale come fosse un bene di consumo a lui contemporaneo. Tale tendenza ha un suo senso, perché il passato, per l’ascoltatore, è la risorsa più disponibile del sapere musicale; ma essa assume talvolta i caratteri di una inconsapevole frustrazione ideologica, avendo alle sue radici non tanto un plausibile codice di valori musicali quanto condizionamenti di mercato.

L’idea del passato musicale non come una grande biblioteca della salvezza umana (non saprei altrimenti come definirla), ma come un supermercato della confezione musicale ricorre più volte, con molteplici risonanze in questo libro. Ma poco oltre, dopo avere pagato il giusto debito estetico a Adorno, c’è una frase che mi ha colpito per come sistema le numerose e diffuse tentazioni di estenuazione del testo basate sulle microvariazioni interpretative, e il loro rapporto con il mondo del consumo:

Ma la conservazione del passato ha un senso anche negativamente, quando diventa un modo per dimenticare la musica. L’ascoltatore ne ricava un’illusione di continuità che gli permette di selezionare quanto pare confermare quella stessa continuità e di censurare tutto quanto pare disturbarla. Questa è la ragione per cui spesso l’esecuzione musicale sembra avere una vita autonoma: diventa una specie di mercanzia indifferente alla musica che dovrebbe servire. Per quanto diversificate possano sembrare le varie maniere di esecuzione, sono tutte profondamente radicate, insisto, nella società di consumo piuttosto che nel mondo delle idee.

Il virtuosismo dell’intelligenza

Quello della memoria e del rapporto con il passato è uno di temi che toccano con più intensità chiunque abbia a che fare con la musica. Una volta si sarebbe specificato “con la musica classica”, ma oggi esso riguarda in maniera altrettanto profonda il jazz e il rock. Molti compositori, da Brahms a Mahler a Stravinsky (ma anche un autore straordinario e atipico come Valentin Silvestrov, su cui mi piacerebbe tornare presto) sarebbero incomprensibili senza il desiderio, anche inconscio, di riflettere su questo rapporto. Berio stesso, in questa conferenza, dedica un passaggio molto interessante a Mahler, autore che “solitario all’interno di se stesso, elabora un discorso fatto di forze in contrasto e, appunto, complementari, esibendo in uno stesso fiato, segnali melodici banali e concezioni originali istituzionalmente incompatibili fra loro, trascendendo gesti musicali privati in dimensioni spiritualmente visionarie mai udite prima”.

Molto altro ci sarebbe da dire su questo testo, e sulle brevissime e dense analisi della Sequenza III (per voce sola) di Berio o del balletto Agon di Stravinsky che contiene. Ma preferisco chiudere qui il fin troppo lungo post, con un’altro passaggio che mi è piaciuto molto, e che offro all’altrui riflessione dopo averlo io stesso rimasticato a lungo. Si parla ancora dell’interpretazione, e nella sua lapidarietà si intravedono in filigrana tante vicende della vita e della poetica di Berio:

L’unica forma di virtuosismo degna di questo nome è il virtuosismo dell’intelligenza, capace di penetrare e rendere mondi musicali diversi.

Amare il passato, conoscerlo e farlo vivere con rispetto nel presente dell’interpretazione e della riflessione, ma saperlo anche dimenticare per affrontare in una prospettiva fresca e fiduciosa il futuro. Pur nella (mia) semplificazione estrema, mi sembra che siano non solo le parti migliori dell’estetica di Berio, ma un progetto interessante per tutti. Compositori e non.

Nella foto iniziale, il cui autore non ho ancora individuato, Luciano Berio insieme a Cathy Berberian (qui per un ricordo della Berberian)

Il premio Abbiati e la musica d’oggi

10 Maggio 2009 § 1 commento § permalink

phaedra

Il 24 aprile scorso sono stati pubblicati i nomi dei vincitori del Premio Abbiati; la cerimonia di consegna, come un po’ pomposamente si chiamano queste occasioni, si terrà il 29 maggio prossimo al Teatro Sociale di Bergamo. In un precedente post, in margine ad alcune osservazioni sul Pulitzer Price, avevo manifestato una certa insofferenza nei confronti dei premi musicali italiani e dei loro meccanismi di assegnazione. L’Abbiati è il più prestigioso e ambìto di questi, forse l’unico che sappia ancora dire qualcosa al mondo musicale, e quindi vale la pena di osservarlo con attenzione.

Il premio e i suoi princìpi (o prìncipi?)

Intitolato al musicologo Franco Abbiati, per quasi quarant’anni critico del “Corriere della Sera”, il “Premio della critica musicale” viene assegnato dall’Associazione Nazionale Critici Musicali fin dal 1980 (per la precisione, l’associazione è nata nel 1986 proprio intorno alle riunioni che da diversi anni si tenevano a Bergamo per l’assegnazione del premio). Per capire che cosa rappresenti nello spazio culturale italiano (e nei desideri di chi ogni anno se ne assume le fatiche), vale la pena di citare un brano tratto dal sito dell’Associazione:

Attraverso i vincitori del Premio Abbiati, l’Associazione nazionale critici musicali ha dato spazio alle realtà locali che rappresentano l’autentica ricchezza della vita musicale italiana e che non hanno la visibilità dei grandi enti pur avendone, talvolta, l’importanza culturale. Allo stesso modo l’Associazione si è impegnata a ricordare il lavoro isolato e silenzioso di personaggi non riconosciuti dal “potere” né dai mass-media (operatori artistici, didatti, editori, “maestri” di vita non solo musicale), e a segnalare il rilievo intellettuale di fatti o manifestazioni che hanno indirizzato la vita musicale del nostro paese. Eloquente annuario più che pagella l’albo d’oro del Premio Abbiati è una sorta di promemoria artistico di oltre un quarto di secolo di musica in Italia, ma è stato anche un trampolino di lancio per giovani artisti e una dichiarazione di fiducia nei confronti di realtà poco considerate. Oltre a essere lo strumento privilegiato dell’Associazione per prese di posizione ‘politiche’, talvolta fortemente critiche, nei confronti di cruciali questioni istituzionali e legislative.

La frase sull’albo d’oro riflette l’antico ossimoro dei premi: un premio dovrebbe fare onore a qualcuno, ma onorando chi è davvero meritevole, in fondo onora soprattutto se stesso e chi lo conferisce. In questo senso, ogni premio è uno scambio: l’autorevolezza dell’artista premiato riconosce e manifesta l’autorevolezza dei premianti. Lo sapeva molto bene l’amato Thomas Bernhard, che con i premi intrattenne sempre un rapporto di amore-odio – con netta prevalenza dell’odio – e che in più di un caso si scagliò con terrificante violenza contro questo meccanismo infernale. Nel caso di un premio conferito da un’associazione di critici musicali, poi, la faccenda si fa ancora più complicata; certo, sempre meno complicata di quando sono gli organizzatori musicali a premiare i critici (vedi per esempio il Premio D’Arcangelo, che per fortuna consiste in 50 bottiglie di vino). Discorso ancora a parte, i premi per la critica musicale, in cui i critici stessi se la cantano e se la suonano da soli. L’apoteosi dell’autoreferenzialità, insomma.

Un luccicante “albo d’oro”

Ma tornando all’Abbiati, il cosiddetto albo d’oro è effettivamente un ritratto molto vivace della vita musicale italiana, con una netta prevalenza dei valori spettacolari (come in fondo è prevedibile data la composizione della giuria). Vediamo un po’, per esempio, i direttori d’orchestra. Si parte con un buffo ex-aequo Abbado-Muti (una specie di Camp David?) nella prima edizione 1980–81 – negli anni i premianti ripareranno: Muti viene ripremiato nell’88–89, Abbado nel 2000-01. In ogni caso il quadro rispecchia correttamente il meglio della vita musicale italiana (e naturalmente non solo): si comincia con i giganti storici (Bernstein, Kleiber, Celibidache, Gavazzeni, Sawallish ecc.), poi piano piano la rosa si apre e con andate e ritorni (Temirkanov vince due volte) si vede scorrere tutto il meglio che il setaccio italiano ha trattenuto dalla scena mondiale. Quest’anno il vincitore è Roberto Abbado: molto meritato e puntuale, si potrebbe dire, dati i begli spettacoli che ha inanellato nel 2008, in Italia e all’estero.

Ma lo stesso discorso potrebbe essere fatto per quasi tutte le altre categorie. I registi, per esempio. Si parte con Strehler, e poi via via, compaiono gli autori, a volte accompagnati dagli scenografi, di tanti bellissimi spettacoli italiani; in più di un caso la scelta è abbastanza ardita, in altri più scontata: Ronconi-De Simone-Chéreau-Pizzi-Asari-Cobelli-Ronconi (e due)-Vick-Krämer-Ronconi/Palli (e tre)-Terleckij/Hugues-Wilson-Zeffirelli-De Ana-Vick (e due)-De Monticelli-Pountney/Bjorson-Krief-De Ana (e due)-Moschopoulos/Fotopoulos-Carsen-Martone-Medcalf-Barberio Corsetti-Michieletto. Quest’anno il premiato è Tcherniakov per il Giocatore della Scala. Anche per i cantanti, una scelta oculata che rispecchia una frequentazione continua della realtà musicale. I critici italiani girano per i teatri, ascoltano, guardano i grandi spettacoli – quelli di cui molta parte di mondo non troverà mai i biglietti – annotano, ricordano. Giudicano spesso con equilibrio, talvolta con pigrizia, ma poi premiano ciò che è importante, significativo, grande o meno grande che sia.

Quest’anno, lo spettacolo premiato (potevano esserci dubbi?) è il Fidelio di Abbado e Kraus a Reggio Emilia. Se Abbado torna all’opera, tutto il rutilante carrozzone degli amanti dello spettacolo da imperatori converge sul miracolato teatro; due recite? che importa, quanti vuoi che siano gli aventi diritto?! 2300 posti sono anche troppi. Costi? Sono coperti degli sponsor, non stiamo a ficcare troppo il naso, che poi non ci invitano più. Così è ovvio, non c’è gara. Certo, la difesa delle realtà locali che sono la ricchezza della vita musicale italiana, così com’era scritto nel fervorino dell’associazione, qui prende un significato tutto particolare; ma d’altro canto, parlare di teatro d’opera oggi richiede un “razionale e lucido pessimismo”, come dice la motivazione del premio al Fidelio. E in ogni caso si sa che le polemichette negli anni si perdono, ma l’albo d’oro rimane, lasciando al mondo un’immagine di eccellenza assoluta. E così, effettivamente, è. Ha ragione il sito, l’albo d’oro presenta un Italia dello spettacolo lirico viva e creativa. Forse con un’eccezione…

Ma siamo sicuri che la musica di oggi sia proprio questa?

Ed ecco che si ritorna a quanto si disse a proposito del Pulitzer. Certo, quel famoso (ma anche discusso, come tutto, dappertutto!) premio si limita alla creatività statunitense, e in questo senso il gioco potrebbe sembrare più semplice. Il premio Abbiati riflette invece la realtà spettacolare: cosa i critici hanno ascoltato e visto. Eppure, a un normale ascoltatore curioso della musica d’oggi che scorresse la lista dei premiati per la categoria “novità assoluta per l’Italia”, potrebbe anche prendere una stretta al cuore. Stockhausen-Donatoni-Nono-Boulez-Togni-Manzoni-Guarnieri-Kurtág-Boulez (e due)-Sciarrino-Gubaidulina-Clementi-Rihm-Berio-Holliger-Berio (e due)-Grisey-Henze-Kagel-Boulez (e tre)-Cappelli-Guarnieri (e due)-Vacchi/Carter-Romitelli-Kurtág (e due)-Lachenmann-Fedele. In 28 anni di storia musicale, l’unico americano premiato è stato Carter (però a metà con Vacchi). L’intera stagione del neoromanticismo, dei post-minimalisti dei non-avanguardisti è passata inosservata. Non un solo maverick, di qualunque colore, paese, visione o credenza (in questo senso, forse solo Gubaidulina).

Certo si potrà obiettare: il premio riguarda le prime esecuzioni assolute in Italia. Non è colpa dei critici se Andriessen o Reich o Adams (e questi non sono certo maverick) non vengono a rappresentare le loro cose per la prima volta da noi; piuttosto prendetevela con gli organizzatori musicali. Va bene. Certo che però quel Boulez premiato tre volte come compositore per Repons (1983−84), Le Visage nuptial (1988−89) e Sur incises (1999−2000), poi, naturalmente, una quarta come direttore (1986−87): non è che la cosa faccia proprio pensare a un grande sforzo di autonomia, vitalità culturale e curiosità intellettuale.

Quest’anno il premio è andato alla Phaedra di Henze del Maggio Musicale Fiorentino; in questo caso il premio non permette alcuna polemica, perché lo spettacolo era davvero molto bello: Henze è un maestro la cui forza emotiva e creativa sono una straordinaria benedizione per l’intero mondo dell’arte; Henze, che ha vinto tre Abbiati di cui due “speciali”, è tuttavia anche il massimo allontanamento consentito dal mainstream della musica contemporanea in Italia; in ogni caso “consentito” adesso, perché quarant’anni fa lo si copriva di fischi. Altro caso, Kurtág ha vinto due volte, se non si conta il premio al Festival Kurtág di “Milano Musica”; Kurtág prenderà quest’anno anche il Leone d’Oro alla carriera a Venezia. È un grande compositore, e queste convergenze non dovrebbero stupire.

E allora?

E allora la tristezza non viene dalle singole e isolate assegnazioni, tutte più o meno sacrosante dal punto di vista del valore assoluto (difficile avere un quadro sufficientemente completo di ogni singolo anno per potersi esprimere sul valore relativo); la tristezza viene dall’abissale distanza che divide questa ‘complessiva’ visione da parte della critica, rispetto alla realtà della vita musicale odierna. E parlo della realtà della musica che si ascolta, si esegue e si “consuma”, in Italia come nel resto del mondo. Una distanza che nessun’altra categoria premiata dai “giurati” dell’Abbiati mi pare rispecchiare. Perché?

Nella foto un istante della Phaedra di H.W. Henze rappresentata al Maggio Musicale Fiorentino.

Esiste un “problema” Steiner?

6 Maggio 2009 § 3 commenti § permalink

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Il 23 aprile scorso George Steiner ha compiuto ottant’anni. Sui giornali italiani sono apparsi alcuni articoli, come questa interessante ma, se posso permettermi, un po’ superficiale intervista di Nuccio Ordine per il “Corriere della Sera”: tra le cose più rilevanti che vi sono dette, l’invito a leggere le opere di D’Arrigo, un gigante ‘diverso’ della nostra letteratura. Ma l’articolo più bello che abbia letto da diversi anni su Steiner è apparso il 12 marzo scorso sul “New York Times”. Si tratta di una recensione del suo ultimo libro, una raccolta di articoli pubblicati sul “New Yorker” (George Steiner at the New Yorker, New Directions, 2009, traduzione italiana già in preparazione presso Garzanti).

Vi si parla di un “problema George Steiner”, conducendo un’analisi intelligente e profonda del suo stile letterario, del suo talento critico e delle sue principali e ricorrenti idee. Vi si parla, in particolare, dei dibattiti che nel mondo anglosassone facevano seguito a ogni suo libro, con una parte della critica e del mondo accademico che lo riteneva un mezzo ciarlatano, e un’altra parte di entrambi i mondi (ma soprattutto una larghissima platea di lettori) che lo considerava uno degli ultimi depositari del grande e minacciato tesoro della cultura occidentale. Scrive in particolare Lee Siegel:

Celebrato come un bastione della cultura alta occidentale e ammirato per la sua sottigliezza morale da alcuni, Steiner fu attaccato come pomposo, pretenzioso e scientificamente inaccurato da altri. La sua più esaltante qualità era considerata il sapersi muovere da Pitagora, attraverso Aristotele e Dante, a Nietzsche e Tolstoj in un singolo paragrafo. Il suo difetto più irritante il sapersi muovere da Pitagora, attraverso Aristotele e Dante, a Nietzsche e Tolstoj in un singolo paragrafo.

Ciò che mi ha colpito di quest’articolo, non è stato solo il constatare quanto la nostra critica si dibatta in un’ormai atavica indolenza intellettuale, per cui di fronte a ogni dubbio meglio dire qualche parola generica di lode e lasciar cadere; ciò che mi ha colpito, dicevo, è la serenità con cui l’autore di grandi libri come After Babel (Dopo Babele, Garzanti) viene indagato e criticato, nonche l’acutezza con cui i suoi tic intellettuali vengono portati alla luce. Condivido molto di quello che l’autore scrive, ma questo non mi impedisce di collocare alcuni dei libri di Steiner tra le cose migliori che mi sia capitato di leggere (tre su tutti: oltre a Dopo Babele, la raccolta di saggi Nessuna passione spenta – Garzanti 1997– e, forse un po’ in subordine proprio per i difetti indicati nell’articolo, Grammatiche della creazione – Garzanti 2003); altri mi sono sembrati decisamente inferiori, ma in ogni caso mai privi di stimoli.

Vorrei citare la chiusura dell’articolo, che riguarda l’ossessione di Steiner nei confronti dell’Olocausto come prodotto vertiginoso e inspiegabile della civiltà culturalmente, artisticamente e filosoficamente più evoluta dell’intera storia dell’umanità. Il modo in cui Steiner si interroga affannosamente su come ciò sia potuto accadere, rappresenta per il lettore, secondo Siegel, un forte elemento di fascino e di interesse, ma non per il motivo che ci potremmo aspettare:

Recitare a memoria questi eleganti enigmi morali è stata la maniera di Steiner per spingere il lettore verso la cultura per poi fornirgli una via d’uscita. Dal fuoco prometeico discende la distruzione: se avete il tempo di dedicarvi ai tesori della cultura occidentale, bene; se non ce l’avete, consideratevi ugualmente fortunati. In sostanza l’orrore di Steiner per il fatto che gli strumenti della civiltà – il linguaggio e persino la stessa razionalità – sono stati anche gli strumenti della barbarie rappresenta un palliativo per la tormentata coscienza del lettore. Non avete finito il romanzo di Proust? Essere buoni, o almeno non mostruosi, è un traguardo migliore. Steiner potrà anche continuare a essere un problema per qualcuno, ma come critico ha efficacemente offerto una soluzione bifronte al vostro desiderio di conservare l’attaccamento alla cultura dopo le lunghe e piacevoli frequentazioni universitarie. Ha mantenuto i lettori nel mondo della letteratura e delle idee, e al tempo stesso li ha liberati dai sensi di colpa nel momento in cui il loro interesse si stava assottigliando.

Beh, questo è davvero recensire. Si potrà essere o non essere d’accordo, e anche esserlo a metà (la mia situazione); è tuttavia innegabile il fatto che così scrivendo si invita a riflettere e a osservare con attenzione sé stessi e il libro recensito.

Ma in ogni caso: buon compleanno, George!

Ma quali gulag, sono seminari di poesia!

2 Maggio 2009 § 0 commenti § permalink

Che dire di Abbado che, dopo avere ritualmente decantato la Cuba delle scuole e degli ospedali, a domanda risponde:

Però c’è il rovescio della medaglia, le violazioni dei diritti umani, i gulag…
«Ma dove? Quali?»

Niente, meglio non dire niente. Il cielo lo benedica e gli faccia fare tanta bella musica nei secoli dei secoli. Ma se qualcuno mi parla ancora di Abbado sensibile, Abbado impegnato, Abbado ecologista

Zimerman l’antiamericano

28 Aprile 2009 § 0 commenti § permalink

zimerman

Che Krystian Zimerman non sia un uomo facile è cosa nota. Sulle sue idiosincrasie c’è tutta una letteratura, così come su praticamente ogni grande artista. E come sempre c’è chi dice con simpatia “è pazzo!”, e chi dice con livore “è furbo”.

Il blog Opera Chic, sempre informatissimo, segnalava ieri un articolo del Los Angeles Times sul debutto del pianista polacco alla Walt Disney Hall di Los Angeles, e dell’incidente che ha inaspettatamente creato. Dopo avere suonato normalmente per tutto il concerto (se si fa eccezione per la sostituzione di alcuni brani di Brahms con una sonata scritta nel 1953 della compositrice polacca Grazyna Bacewicz – le sostituzioni comunicate all’ultimo momento sono uno dei suoi scherzi preferiti), stava per attaccare l’ultimo brano del programma, le Variazioni su un tema popolare polacco di Karol Szymanowski, quando improvvisamente si è voltato verso il pubblico e ha cominciato una concione antiamericana, avvertendo di non volere più tornare in un paese “il cui esercito vuole conquistare il mondo”; ha poi continuato facendo riferimento a Guantanamo, e urlando persino “Giù le mani dal mio paese!”, mentre una quarantina di persone si alzavano e lasciavano la sala (“parli di esercito è c’è subito chi si mette a marciare” avrebbe detto, e bisogna dire che almeno questa è una buona battuta), e una parte del pubblico rimasto fischiava e lo invitava a riprendere il concerto. L’autore dell’articolo (il critico musicale Mark Swed) ci dice anche che la voce del pianista si sentiva molto poco in sala, e questo deve avere anche aumentato il ridicolo della scena.

Vale forse la pena di ricordare il precedente problema che Zimerman ebbe con gli Stati Uniti. Come altri grandi divi del pianoforte, Krystian gira il mondo portandosi dietro il suo strumento, costantemente controllato e amorevolmente tarato dalle sue stesse mani; a quanto si dice, Zimerman chiede persino di guidare personalmente il camion che trasporta il prezioso strumento da una sala da concerti all’altra. Poco dopo l’11 settembre 2001 il suo pianoforte fu fermato all’aeroporto JFK di New York e distrutto dai corpi di sicurezza della polizia di frontiera, apparentemente perché la colla aveva lo stesso aspetto (o lo stesso odore) di un certo tipo di esplosivo. Da allora, ci ricorda Mark Swed, Zimerman quando deve spostarsi in aereo fa viaggiare il suo pianoforte in pezzi separati, che vengono poi riassemblati sul posto.

Come si sa gli americani non amano che il loro paese venga denigrato. La misteriosa blogger di Opera Chic sembra furiosa con Zimerman, e ci va giù pesante; ci ricorda tra l’altro che è difficile sapere quale sia il suo paese, visto che Zimerman è residente in Svizzera. Altrettanto arrabbiati sembrano essere anche molti dei lettori del sito del Los Angeles Times. Altri invece plaudono e alcuni persino ringraziano (ma non sapremo mai di che paese sono). Sembra davvero che musica e politica non riescano più a camminare separati. È una tendenza da osservare con curiosità; senza dimenticare però che un grande artista rimane tale, e va amato anche quando ci spiazza o stupisce con la sua diversità.

Foto: © Kasskara / Deutsche Grammophon

Steve Reich e il Premio Pulitzer

26 Aprile 2009 § 1 commento § permalink

steve_reich

Questa volta ce l’ha fatta. Dopo essere arrivato nella rosa dei finalisti nel 2003 (con Three Tales, mica con un pezzettino!), 2004 e 2005 quest’anno Reich ha vinto il Pulitzer per la musica con Double Sextet, un pezzo per dodici strumentisti o per sestetto e nastro magnetico che sicuramente presto potremo ascoltare su cd o dal vivo (informazioni sul sito di Boosey).

Il premio consiste in 10.000 dollari e tanta pubblicità, dovuta soprattutto al prestigio di un nome legato alle altre sezioni, quelle per il giornalismo e la letteratura. Ciò detto, osservare la lista dei finalisti e dei vincitori fa un certo effetto. Menotti l’ha vinto due volte, con The Saint of Bleecker Street e con le musiche di The Consul (più una terza con il bel libretto per la Vanessa di Barber); Copland l’ha vinto con Appalachian Spring (era il 1945; pochi anni dopo invece dei premi sarebbero arrivate le bastonate governative); Ives con la Terza Sinfonia; Carter due volte con gli incredibili SecondoTerzo Quartetto; e poi Virgil Thompson, Walter Piston, Ned Rorem, Colgrass, Del Tredici, Sessions, Harbison, Corigliano, Lieberson (quattro volte in finale, l’ultima con i bellissimi Neruda Songs, ma mai vincitore); John Adams va in finale nel 1998 con i Century Rolls, ma vince nel 2004 con il grande On the Transmigration of Souls. E ancora: Stucky, Ornette Coleman, David Lang, Aaron Jay Kernis. Certo, ce n’è per tutti i gusti; c’è anche qualche assenza – una per tutte, quella oggi vistosissima di Bernstein (fino a non molti anni fa decisamente meno vistosa).

Ma la cosa che mi colpisce di più è questa: potrò sbagliarmi, ma la lista rappresenta bene i gusti musicali e la vita concertistica del tempo; non solo per la quantità di musica più o meno bella ma comunque eseguita (!) che comprende, ma anche per gli alti e bassi dei diversi stili e dei compositori che li rappresentano nel corso degli anni. Dico questo perché non riesco a vedere niente di simile in Italia. Nessun premio ha un prestigio paragonabile, e fra quelli che hanno una certa importanza se non altro per il contesto (penso per esempio alla Biennale Musica di Venezia e ai suoi due Leoni d’oro) l’assegnazione dei riconoscimenti segue palesemente delle strade tutte particolari. Ma se uno guarda al desolante momento dei premi e dei concorsi negli altri campi dell’arte e della cultura in Italia, poi si chiede perché la situazione dovrebbe essere diversa per la musica. E infatti non lo è. Peccato.