Le parole di Barenboim e gli alberi di Abbado

5 Gennaio 2009 § 2 commenti § permalink

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Venerdì 2 gennaio, a pagina 5 della «Repubblica» è apparso un breve articolo in cui Daniel Barenboim commenta la drammatica situazione della striscia di Gaza; non l’ho trovato sul sito del giornale, e così lo ricopio io stesso. È un intervento semplice e diretto, che affronta a viso aperto la tremenda difficoltà del conflitto (un “conflitto umano” lo chiama, con quella che mi sembra una bellissima espressione), indicando senza abbandonarsi al luogo comune pacifista l’esigenza inevitabile di una riapertura del dialogo. Barenboim è un musicista, non un politologo, ma scrive e agisce dimostrando la convinzione che nulla di ciò che accade ci possa essere estraneo, ben sapendo che la posizione privilegiata offertagli dallo straordinario livello artistico del suo lavoro può anche essere utilizzata per intervenire nelle grandi emergenze del momento. Ecco il testo:

Per il nuovo anno ho tre desideri. Il primo è che il governo israeliano si renda conto, una volta per tutte, che il conflitto in Medio Oriente non può essere risolto con mezzi militari. Il secondo, è che Hamas si renda conto che non è suo interesse servirsi della violenza e che Israele è qui per rimanere. Il terzo è che il mondo riconosca che questo è un conflitto diverso da tutti gli altri conflitti della storia. È un conflitto complesso e delicato come nessun altro; è un conflitto umano tra due popoli, entrambi profondamente convinti del loro diritto di vivere sul medesimo piccolo lembo di terra. Ecco perché né la diplomazia né l’azione militare possono risolverlo. Gli sviluppi degli ultimi giorni mi preoccupano terribilmente per molte ragioni, sia di natura politica che umana. Sebbene sia di per sé evidente che Israele ha il diritto di difendersi, l’implacabile e brutale bombardamento di Gaza da parte dell’esercito israeliano ha fatto nascere nella mia mente alcuni gravi interrogativi. Il primo è se il governo israeliano abbia il diritto di ritenere tutti i palestinesi colpevoli delle azioni di Hamas. Si può considerare l’intera popolazione di Gaza responsabile dei peccati di un’organizzazione terroristica? E poi, se l’uccisione di civili è inevitabile, qual è lo scopo di questi bombardamenti? Se l’obiettivo delle operazioni è quello di distruggere Hamas, allora la domanda più importante da porsi è se si tratta di un obiettivo raggiungibile. Se non lo è, l’intero attacco è non soltanto crudele, barbaro e riprovevole, ma anche insensato. Se invece fosse davvero possibile distruggere Hamas attraverso le operazioni militari, quale reazione Israele prevede che potrà verificarsi a Gaza una volta conseguito tale obiettivo? Un milione e mezzo di cittadini di Gaza non si inginocchieranno improvvisamente di fronte alla potenza dell’esercito israeliano. La recente storia di Israele mi porta a ritenere che se Hamas venisse distrutta, quasi certamente il suo posto verrebbe preso da un’altra organizzazione, un’organizzazione ancora più estremista, violenta e carica di odio nei confronti di Israele di quanto non sia oggi Hamas. Israele non può permettersi una sconfitta militare per paura di scomparire dalla carta geografica; tuttavia la storia ha dimostrato che tutte le vittorie militari hanno sempre lasciato Israele in una posizione politica più debole a causa dell’affiorare di nuovi gruppi estremisti. Non sottovaluto la difficoltà delle decisioni che il governo deve prendere ogni giorno, né l’importanza della sicurezza. Ciò nonostante, resto dell’idea che l’unico piano di sicurezza a lungo termine veramente attuabile sia quello di conquistare l’accettazione di tutti i nostri vicini. Mi auguro che il 2009 segni il recupero della famosa intelligenza da sempre attribuita agli ebrei. Mi auguro che coloro che detengono le chiavi del potere ritrovino la saggezza di Re Salomone e la impieghino per capire che palestinesi ed israeliani hanno gli stessi diritti umani. La violenza palestinese tormenta gli israeliani e non serve alla causa della Palestina; le ritorsioni dell’esercito israeliano sono inumane, immorali e non garantiscono la sicurezza di Israele. Come ho già detto, i destini dei due popoli sono inestricabilmente intrecciati, e li obbligano a vivere l’uno accanto all’altro. Essi devono decidere se vogliono che ciò sia una benedizione o una condanna.

Una posizione del genere, nella quale l’artista dimostra di essere umanamente radicato nella storia del presente, con competenze e convinzioni serie e fondate e il desiderio di discuterle pubblicamente, è un’eccezione. Gli artisti, anche quelli di ottimo livello intellettuale, generalmente sfuggono a qualsiasi discussione che li possa costringere a prendere una posizione, anche quando passano per “impegnati”.

Pochi giorni prima mi era capitato di leggere l’intervista di Giuseppina Manin a Claudio Abbado, pubblicata sul «Corriere della Sera» del 30 dicembre. Certo, il contesto è molto diverso; certo, il tono è volutamente più leggero; certo, si tratta di un’intervista e non di un articolo. Ma non è la prima volta che un musicista come Abbado, a cui la vita ha dato molte più possibilità di vedere, di incontrare e di conoscere che a gran parte di noi, esprime le sue opinioni sul presente con questa distanza aristocratica. Personalmente la differenza mi ha fatto una certa impressione, ma ognuno faccia le sue valutazioni. È una questione di tono, di rapporto con il mondo e con il presente storico. Una “questione umana” verrebbe da dire, parafrasando Barenboim.

Stravinsky e il giornalismo partecipativo

2 Gennaio 2009 § 0 commenti § permalink

Questo brevissimo spezzone di film muto è stato girato nel dicembre 1928 negli studi della Columbia al Théâtre des Champs-Elysées, a Parigi, e mostra Igor Stravinsky mentre registra L’uccello di fuoco con l’Orchestre des Concerts Straram. È la prima delle tre registrazioni che Stravinsky fece del balletto, composto diciotto anni prima; ha 46 anni, ed è nel pieno del suo “periodo neoclassico” (è l’anno dell’Apollon musagète). Il filmato è molto interessante, perché mostra uno Stravinsky direttore ben più vigoroso di quello, più noto, delle registrazioni americane. La fonte che mi ha permesso di trovare questo filmato è un’interessantissima serie di 3 articoli di Scott Foglesong dedicata all’attività di Stravinsky come direttore, e in particolare alle sue registrazioni discografiche (i tre pezzi trattano rispettivamente: dagli inizi al 1938, le registrazioni mono degli anni 1950–60 e le registrazioni Columbia dei tardi anni ’50 e ’60).

Ma accanto all’interesse intrinseco del filmato e degli articoli, ben scritti e documentati, c’è un altro aspetto che mi preme sottolineare. Scott Foglesong scrive per il sito examiner.com, che rappresenta un esperimento molto interessante per quanto attiene all’informazione del futuro. Nato come versione web dell’Examiner, una rete di giornali locali gratuiti di proprietà del ricchissimo Philip Anschutz, il sito è diventato un esperimento di “giornalismo partecipativo” (citizen journalism); la storia di examiner.com la si può leggere riassunta in questo articolo. Foglesong, docente al conservatorio di San Francisco e a Berkeley, fa parte delle centinaia di “examiners” scelti dal sito (su autocandidatura) dapprima per raccontare la realtà locale e superlocale (si arriva fino ai problemi di quartiere), poi con uno sguardo sempre più diretto all’informazione generale, senza trascurare quella culturale. Oggi il sito ha 1,2 milioni di contatti al mese, e continua a crescere; i contenuti possono sembrare organizzati un po’ caoticamente, ma si sa che gli utenti di internet sono velocissimi a crearsi delle routine. Quello che viene spesso presentato come un remoto futuro, sembra dunque essere già fra di noi, e la citata voce di wikipedia presenta un quadro abbastanza impressionante. Lunga vita alla gloriosa informazione dei grandi media, ma sarebbe bene che cominciassero ad attrezzarsi…

Un Salieri per Giovanni Allevi

28 Dicembre 2008 § 13 commenti § permalink

salieriAllevi ha risposto all’intervista in cui Ughi si diceva offeso dal concerto di Natale al Senato (vedi post del 24 dicembre). Come ha risposto? Con una Lettera Aperta. In fondo quello che riguarda lui riguarda l’Arte, e dunque due righe avvelenate nella pagina della Posta gli sarebbero sembrate da morti di fame. E cosa scrive, in questa Lettera Aperta? Fa l’Allevi. Una miscela di furberia, giovanilismo piagnone, autocommiserazione che poi diventa autoesaltazione per concludersi nell’autotrionfalismo più scatenato (spacciato per “visionarietà”).

ughiDunque comincia con una favoletta, quella del giovane compositore che va a un concerto della grande star Uto Ughi e ne resta tanto colpito da andare nel suo camerino a chiedergli un autografo: è l’unico autografo che Allevi abbia mai chiesto a un artista, ed è successo 10 anni fa. Che strana idea, quella diarrivare a 28 anni senza chiedere mai un autografo a nessuno, e poi improvvisamente chiederlo a Uto Ughi. Boh. In ogni caso, ottenuto il prezioso feticcio, Allevi torna nel suo monolocale; perché ci dà la metratura di casa sua? Perché ci vuole dire che è povero, è fuori dai giochi, non conosce nessuno del mondo rutilante dello spettacolo:

Io non avevo amicizie influenti, a stento arrivavo alla fine del mese, affrontavo grandi sacrifici per diplomarmi in Composizione e il biglietto del concerto l’avevo pagato. Ma ora avevo l’autografo di uno dei più valenti violinisti del mondo: lei, Maestro Ughi.

Ecco, praticamente la piccola fiammiferaia. Ma la fase dell’autocommiserazione dura poco. Mentre la “casta” difendeva i suoi onori e le sue ricchezze, Allevi studiava duramente, confortato dalla Fenomenologia di Hegel (!). Ed ecco che, all’improvviso arriva l’illuminazione. Allevi capisce la propria missione:

Perché costringere il pubblico del nostro tempo a rapportarsi solo a capolavori concepiti secoli fa, e perdere così l’occasione di creare una musica nuova, verace espressione dei nostri giorni, che sia una rigorosa evoluzione della tradizione classica europea? La musica cosiddetta «contemporanea», atonale e dodecafonica, in ogni caso non è più tale, perché espressione delle lacerazioni che agitavano l’Europa in tempi ormai lontani. Ecco allora il mio progetto visionario. È necessario uno sforzo creativo a monte, piuttosto che insistere solo sull’educazione musicale, gettando le basi di una nuova musica colta contemporanea, che recuperi il contatto profondo con la gente. Ho provato a farlo, con le mie partiture e i miei scritti. È stato necessario.

Il giochino è abbastanza semplice: si dice che la musica contemporanea è quella delle lacerazioni del passato, quella brutta e difficile, insomma quella derisa da Alberto Sordi nelle Vacanze intelligenti. E quindi il suo tentativo diventa quello di ricucire lo strappo, di ridare al presente una musica del presente. Ora, che il suo problema sia stato posto da gran parte dei compositori degli ultimi trent’anni (e più) lui non lo dice. Lui legge Hegel e capisce cosa deve fare; che ci sia stato un minimalismo americano, e poi un postminimalismo, che in Italia sia stata scritta della musica definita neoromantica, che mezzo mondo non navighi più nella scia di Boulez, Allevi fa finta di non saperlo, e in ogni caso non lo dice. Ed ecco che l’accusa di sfruttare l’ignoranza della gente diventa piuttosto ragionevole. Ma l’ardito innovatore si spinge più in là:

Da amante di Hegel, quindi, sapevo benissimo che l’ondata di novità avrebbe mandato in crisi il vecchio sistema e che i sacerdoti della casta, con i loro adepti, non potendo riconoscere su di me alcuna paternità, avrebbero messo in atto una criminale quanto spietata opera di «crocifissione di Allevi».

Ora, che Allevi sia stato addirittura “crocefisso” dai sacerdoti della casta è cosa alquanto difficile da sostenere: è coccolato e invitato da tutte le maggiori istituzioni musicali, è presentato a tutte le ore su tutti i canali televisivi e radiofonici come il nuovo Mozart e, con tutto il rispetto, non mi sembra che Ughi abbia la statura per impersonare il Salieri del film di Forman (e del dramma di Schaffer). Ma la sua rivoluzione parte dal basso, vuole dirci:

Non c’è alcuna macchinazione, tutto è assolutamente limpido e puro: le persone spontaneamente hanno scelto di seguirmi. Ma bisogna smettere di ritenere ignorante la gente «comune». Il pubblico cui si rivolgeva Mozart nel XVIII secolo era forse più colto del nostro?

Eppure era chiaro che nessuno si fosse mai detto offeso dal successo di Allevi. Ognuno ha il diritto di scrivere e di ascoltare quello che preferisce. Il problema nasce quando qualcuno ti dice che ciò che sta facendo è l’eccellenza di un certo ambito, ma qualsiasi considerazione stilistica, estetica e storica che abbia un minimo di costrutto indica platealmente il contrario. E qui, curiosamente, Allevi usa un argomento abbastanza inconsueto: invece di sostenere che non ha senso chiedersi se la sua musica sia “classica” o meno – si consideri che tutto nasce da un concerto al Senato spacciato per concerto classico di altissimo livello – usando la vecchia e alquanto usurata argomentazione della scomparsa delle distinzioni fra i generi musicali, dell’esigenza della contaminazione, del meticciaggio ecc., invece di fare tutto questo, lui rivendica la purezza razziale della sua musica:

È una musica colta che non può prescindere dalla partitura scritta e che rifiuta qualunque contaminazione, con le parole, con le immagini, con strumenti musicali e forme che non siano propri della tradizione classica. […] La mia è una musica classica, perché utilizza il linguaggio colto, la cui padronanza è frutto di anni di studio accademico. […] La mia non è una musica pop, perché non contempla alcun cantante, alcuna chitarra elettrica e batteria e non usa la tradizione orale, o una scrittura semplificata come mezzo di propagazione…

Insomma non è uno scherzo: Allevi vuole proprio affermare che la sua è la “musica classica” del presente e del futuro, e che l’unico motivo per cui una persona come Ughi – che con la musica contemporanea “lacerata” e dissonante ha lo stesso legame che potrebbe avere con l’heavy metal – lo rifiuta è perché Ughi è un Gran Sacerdote della casta passatista. Abbastanza incredibile.

Ma il vero capolavoro è la chiusa, dove sotto i lineamenti dell’artista del futuro si riaffacciano quelli, imbronciati, della piccola fiammiferaia: “Quel suo autografo che ho sempre conservato gelosamente, dopo tanti anni, per me ora non conta più niente”. Addio, Bruto Ughi!

La bella favola del vecchio violinista

27 Dicembre 2008 § 0 commenti § permalink

Una bella favola romantica, un po’ melensa ma comunque commovente; proprio come dev’essere una favola. Si intitola The Violin, ed è un cortometraggio del 1974 di George Pastic da una storia sua e di George Welsh (nel 1977 ne fu ricavato anche un libro). Nel 1974 fu candidata all’Oscar. Il filmato è stato reso disponibile in rete da Michael Monroe sul suo blog MMmusing (grazie!). Il vecchio violinista è il canadese Maurice Solway, che ha anche curato la colonna sonora; non uno qualunque, ma un allievo di Eugène Ysaÿe. Certo, lo si può buttare come una roba sdolcinata e ingenua, ma assicuro che, pur nel linguaggio delle favole, in chi da piccolo ha studiato il violino (ma forse qualsiasi strumento), questo film qualche richiamo sentimentale e persino profondo lo suscita; riguarda il fascino dello strumento, il potere ipnotico della musica, il desiderio di emulazione e la figura dell’insegnante. Ma ognuno lo veda come gli pare.

Un allevamento al Senato

24 Dicembre 2008 § 1 commento § permalink

allevi

Alla fine di un precedente post, in cui si parlava della questione Kaplan-NY Philharmonic, facevo cenno all’impressione che mi aveva fatto vedere Giovanni Allevi snocciolare le sue banalità sonore al Senato, e vedere mezzo Parlamento italiano acclamarlo in piedi come fosse Stravinskij redivivo. La sensazione che avevo sentito dentro di me, e avevo subito cercato di comunicare agli amici, era stata di offesa: la sensazione quasi fisica di uno schiaffo. Si passa la vita a capire che cosa è buono e che cosa non lo è, a distinuere gli amici veri da quelli meno, a imparare a scegliere. Che Giovanni Allevi possa vendere migliaia/milioni/miliardi di dischi non è una cosa che mi offende: se li hanno venduti le Spice Girls, perché Allevi non dovrebbe? Perché la sua melodia allude alla tradizione classica? È la prova che quando il marketing coglie un’onda, la sa portare fino a riva fregandosene di qualsiasi diga o distinzione: negli anni abbiamo visto le case discografiche cavalcare i più disparati generi, scherzare con la politica, la cultura, la fede. Se si tratta di fare soldi, tutto può funzionare, e nessun cavallo è davvero zoppo: facciamo tornare il crooner alla Bublè, il cantante latino impegnato alla Manu Chao, il tenore alla Bocelli, il violinista alla Kennedy, il coro di monaci dell’abbazia cistercense. Potrebbero farcela anche con un quartetto di tube wagneriane, se solo trovassero il mix accattivante.

Ma a costo di farlo io, il vecchio trombone, devo dire che per me un concerto al Senato ha un valore diverso. Non è una sala che si affitta per i party aziendali; non è un teatro che si subappalta alle agenzie; non è uno studio televisivo, anche se c’è chi lavora indefessamente per farcelo diventare. Insomma, vedere quella che dovrebbe essere l’élite culturale e politica del paese (si pensi alla figura del senatore a vita), spellarsi le mani e inchinarsi davanti a un artista che ha fatto della faciloneria e della superficie la propria fortuna, mi ha fatto sentire offeso nel profondo. Giuro, proprio nel profondo.

Ma se oggi ci torno su, è perché per una volta i miei sentimenti hanno trovato espressione quasi letterale nelle parole di un artista verso il quale nutro sentimenti contrastanti, ma che sicuramente rappresenta qualcosa di infinitamente distante dal giovanissimo musicista-filosofo-poeta-creativo-a-tutto-tondo: Uto Ughi.

La bella intervista di Sandro Cappelletto sulla Stampa di oggi, riporta frasi intere di Ughi che sottoscriverei senza cambiare una virgola. Lo sconcerto sui consulenti musicali del Senato, il negare la parentela con la tradizione classica, la sensazione di un inquinamento della verità e del gusto, del furbo cavalcare un equivoco culturale. Solo quando parla del “trionfo del relativismo”, giusto perché so dove si va poi a parare, richiamerei un più semplice “qualunquismo” o una più universale “superficialità”. Non sarà certo un caso, se molti quotidiani nella versione on-line hanno ripreso un lancio d’agenzia che descriveva l’omaggio di Allevi, durante il concerto, al grande compositore Giovanni Puccini, di cui si celebra quest’anno il 150° anniversario. Per non parlare poi della presentatrice, Milly Carlucci, e del suo tono sfrontatamente, fastidiosamente triofalistico e genuflesso nei confronti del presidente del Senato e della maggioranza che lo ha insediato; tutto torna, se si pensa che Milly è la sorella dell’ineffabile Gabriella, la massima esperta di spettacolo che il governo del Cavaliere abbia saputo esprimere.

In quanto alla frase di Allevi, raggelante per ignoranza e presunzione, che Cappelletto riporta in chiusura dell’articolo (“La mia musica avrà sulla musica classica lo stesso impatto che l’Islam sta avendo sulla civiltà occidentale”), la accosterei alla fantasmagorica teoria estetica espressa altrove dal piccolo Leonardo: “stiamo tornando nel Rinascimento italiano, dove l’artista deve essere un po’ filosofo, un po’ inventore, un po’ folle, deve uscire dalla torre d’avorio e avvicinarsi al sentire comune”. Ma che Rinascimento ha studiato, Allevi?

Va bene che il Senato di questa legislatura non è certo un’Accademia platonica, ma porca misera, un po’ meno di acquiescenza bovina avrebbe fatto bene a tutti. Specialmente quando quelle manine che si spellano ad applaudire, sono poi le stesse che schiacciano il pulsantino del “sì” per votare dei pesanti tagli all’inutile cultura passatista. Una promessa concreta: più Allevi per tutti.

Puccini!

23 Dicembre 2008 § 0 commenti § permalink

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Quanti anniversari, quante cose da festeggiare e da ricordare in quest’anno tanto difficile! Forse festeggiare i compleanni fa invecchiare i ricordi: si fa un gesto di generico tributo e poi ci si butta tutto alle spalle, e per un po’ non ci si pensa più. O forse gli anniversari sono tornati di gran moda per via della disperata fame di ricavi delle aziende: quante edizioni complete di Messiaen sono uscite quest’anno? Almeno quattro, credo. Domani saranno ancora sugli scaffali? Fino a ieri Messiaen era un autore difficile (e per qualcuno anche peggio)…

Insomma, è tutto vero. I ricordi bisogna cercare di tenerseli stretti tutto l’anno. Ma Puccini…

No, Puccini bisogna proprio festeggiarlo. Sarebbe un’offesa troppo grave. E devo dire che sapere che oggi sarebbe il suo 150° compleanno mi fa una certa impressione. 150 anni. Un soffio. Mio nonno potrebbe averlo conosciuto. Io stesso ho conosciuto chi lo ha conosciuto. Qualcuno si ricorderà il baffuto custode della villa di Torre del Lago, che raccontava di come il Maestro lo tenesse in braccio quando era piccolo. Assomigliava moltissimo a Puccini, la cosa alimentava qualche pettegolezzo tra i visitatori, e questo chiaramente lo inorgogliva.

Ma l’omaggio, per essere tale, deve anche essere personale. E allora potrei raccontare del fotografo di Puccini a Torre del Lago e a Viareggio, il Cavalier (come teneva a firmarsi) Giorgio Magrini (anche la foto che si vede qui sopra è sua). Fino a dieci anni fa uno dei due nipoti, Giuseppe, aveva ancora un negozio di ottica e fotografia a Viareggio, in via Zanardelli. Vi si potevano trovare le cartoline con le foto di Puccini scattate dal nonno, con il vistoso copyright: “Foto del Cav. G. Magrini”. Puccini era molto attento a quella che oggi si definirebbe “gestione dell’immagine”, tanto da arrivare in più di un caso a delle vere e proprie sponsorizzazioni (per le automobili, per esempio). L’altro nipote di Giorgio Magrini, tuttora in attività, è Ugolino, fotografo e pittore molto conosciuto in Versilia.

Si potrebbe dire del Margherita, il caffè dalle linee liberty frequentato da Puccini e dagli artisti e intellettuali versiliesi dell’epoca, che dopo aver resistito per anni come caffè-ristorante, essere poi diventato una pizzeria e un locale un po’ chip, oggi è una libreria Mondadori. La grande scultura che raffigurava Puccini seduto con la sigaretta in mano è stata rimossa, in compenso all’interno della libreria si vendono libri fotografici, biografie e saggi sulle sue opere. The times, they are a‑changin’ cantava Bob Dylan.

Nella sua casa di Viareggio, oggi a cento metri circa dal grande lungomare, all’angolo della pineta, ma allora praticamente sulla spiaggia, abitano da tempo due giovani e bravissimi architetti e la loro mamma. L’edificio è decisamente délabré, ma le persone che lo abitano hanno impedito che diventasse una villetta borghese ristrutturata da geometri. È molto più che qualcosa, vedendo cosa è capitato ai tanti, bellissimi edifici della Viareggio d’epoca, trasformati con pochissima cura e rispetto.

E a proposito di geometri, ora, nel brutto piazzale costruito davanti alla villa di Torre del Lago sorge un Teatro in muratura (vedi la storia di Kaplan. Cosa c’entra? C’entra, c’entra! quando arrivano i soldi si può fare di tutto). Niente concorso internazionale. L’edificio pare sia funzionale, ma esteticamente potrebbe essere opera di uno dei praticoni che hanno edificato così tante tavernette e porticati nella zone circostanti, da far diventare Torre del Lago una delle destinazioni più ambìte per il soggiorno obbligato dai condannati di mezza italia. Brutto porta brutto. Nelle sere d’estate, sotto i potentissimi riflettori, gli acuti fanno a gara con il ronzio delle zanzare. L’Autan regna incontrastato; come la Violetta di Parma nei teatri piemontesi di un paio di decenni fa.

Quante altre cose si potrebbero dire. Ma oggi ci si può fermare qui, e aggiungere semplicemente: auguri, grandissimo Giacomo!

Il trombonista e il miliardario

21 Dicembre 2008 § 0 commenti § permalink

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Un altro caso che fa riflettere sul diritto di critica, e sulle regole connesse. Molti ricorderanno il nome di Gilbert Kaplan, l’ex giornalista e prodigio di Wall Street, che dopo aver fondato un giornale finanziario nel 1965 e averlo diretto per molti anni, riuscì a venderlo nel 1990 per 72 milioni di dollari, dedicandosi poi quasi a tempo pieno allo studio e alla direzione di un’unica composizione, la Seconda Sinfonia di Gustav Mahler. Il ritratto migliore l’ha fatto nel novembre scorso l’Economist. Kaplan aveva sentito per la prima volta nel 1965 la sinfonia diretta da Stokowski e ne era rimasto letteralmente fulminato; all’epoca non sapeva neppure leggere la musica, ma era già una personalità rilevante della finanza mondiale. Negli anni la sinfonia “Resurrezione” divenne per lui quasi un’ossessione: passa mesi tra lezioni private di musica e di direzione da musicisti come Bernstein, Solti e Slatkin per venirne a capo; nel 1982 affitta il Lincoln Center, paga un’intera orchestra (la American Symphony Orchestra) e dirige per la prima volta la sinfonia dei suoi sogni davanti a un pubblico di economisti giunti a New York per un importante convegno. Fin qui nulla di troppo strano; di facoltosi dilettanti è piena la storia, e Kaplan non è stato né il primo né l’ultimo a togliersi uno sfizio gigante come quello di dirigere un’orchestra pagandola. Ma la vicenda di questo strano e a modo suo geniale personaggio è andata ben oltre. Oggi non solo ha diretto più di 50 orchestre, fra cui tutte le migliori del mondo – Scala compresa, nel 1992 – ma ha inciso la Seconda di Mahler ben due volte, la prima con la London Symphony, la seconda per la Deutsche Gramophon con i Wiener Philharmoniker. E, come se non bastasse, il primo dei due dischi, inciso nel 1985 per la Conifer, ha venduto più di 180mila copie, superando di gran lunga qualsiasi altro direttore, da Bernstein ad Abbado.

Ma c’è di più. Nel 1992 compra da una biblioteca olandese la partitura autografa della sinfonia, e la pubblica in fac-simile. Colleziona le decine di partiture a stampa contenenti le annotazioni autografe di Mahler, pubblica una nuova edizione critica integrandone le informazioni più rilevanti, scrive numerosi saggi e articoli. Il mondo della musicologia è diviso, ma nessuna voce critica si fa sentire con particolare forza: Kaplan sembra essere persona troppo intelligente e influente per attirare vere antipatie. Fino a qualche giorno fa.

L’8 dicembre scorso, infatti, Kaplan dirige per la prima volta la “sua” sinfonia con la New York Philarmonic; non è un’orchestra qualunque: è l’orchestra che Mahler stesso, negli ultimi e difficilissimi anni di vita, accettò di dirigere stabilmente, lasciando Vienna. È anche l’orchestra/simbolo del grande Lenny, uno che di Mahler se ne intendeva. Oltre tutto nella serata dell’8 si celebrava il centenario del compositore, e il concerto rivestiva pertanto una rilevanza tutta particolare. La serata andò come le precedenti: tutti sanno che il gesto di kaplan non è né elegante né comunicativo, che le sue esecuzioni non sono certo impeccabili, che a volte stenta a mantenere il controllo della difficilissima partitura, e via dicendo; ma qualcosa nel lavoro di Kaplan attira il pubblico e la critica, e forse la pubblica proiezione dell’idea di un sogno che si realizza non è estranea alla questione; fatto sta che la sala è, come del resto in quasi tutti i concerti di Kaplan, totalmente piena fino agli ultimi ordini di posti. Il New York Times manda un suo critico, che scrive il pezzetto d’ordinanza con qualche freddezza e molte lodi. Tutto tranquillo, apparentemente.

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Il 15 dicembre accade tuttavia l’imprevedibile. Uno strumentista dell’orchestra, il trombonista David Finlayson, apre un blog (Fin Notes) e scrive un post in cui manifesta tutto la sua indignazione per l’affronto subito dall’orchestra. Quello che scrive è quanto nessun critico ha mai avuto la voglia o il coraggio di scrivere: Kaplan non sa dirigere; è incapace di mantenere un tempo corretto, di dare una qualsiasi forma alle frasi, di realizzare le indicazioni dinamiche e di mantenere l’equilibrio sonoro; in numerosi passaggi solo la professionalità dell’orchestra lo salva dal disastro; persino la sua tanto sbandierata conoscenza enciclopedica della partitura è una bufala; insomma, il direttore è un autentico ciarlatano, paragonabile al personaggio interpretato da Brad Pitt in Prova a prendermi (Catch me if You can).

Apriti cielo. La notizia viene ripresa con grande risalto dallo stesso New York Times che aveva mandato il suo critico benevolo, e scoppia il caso. L’opinione pubblica, se ha ancora senso definire così le molte reazioni che giungono ai siti dei giornali e ai blog, è divisa, così come del resto lo è anche la critica. Alcuni sostengono che Finlayson ha tutto il diritto di esprimere quella che, a giudicare dall’articolo del NYT, è l’opinione condivisa da gran parte dei suoi colleghi. Che lo sbaglio, caso mai, l’ha fatto il management dell’orchestra, invitando una figura come Kaplan a dirigere da un podio dell’importanza storica e artistica della NY Philharmonic. Altri sostengono invece che il comportamento del trombonista è ingiustificabile, e che scrivendo quello che ha scritto è venuto meno ai suoi doveri di fedeltà e discrezione nei confronti dei colleghi e dei suoi datori di lavoro. In molti invocano persino una punizione esemplare, la sospensione o il licenziamento. Tra le voci decisamente critiche nei confronti di Finlayson si leva anche quella, sempre acuta e severa, di Norman Lebrecht (che tuttavia non nasconde la sua vecchia amicizia con Kaplan – e che pochi giorni prima aveva scritto una sorta di peana per l’avvenimento newyorkese).

finlaysonChi ha ragione? Finlayson doveva tacere o aveva il diritto di scrivere quello che ha scritto? Il fatto che a un facoltoso dilettante come Gilbert Kaplan vengano concesse possibilità che a molti direttori ben più capaci di lui saranno sempre negate è uno scandalo o un fatto del tutto normale? È strano, ma dovendo dire la mia, io sceglierei entrambe le risposte. Finlayson forse poteva (o meglio doveva) scegliere mezzi più ortodossi per manifestare il suo disappunto, che avrebbe dovuto colpire per primo il sovrintendente dell’orchestra. Ma che la qualità effettiva degli interpreti sia così spesso dimenticata da coloro che per mestiere dovrebbero garantirla (o che dovrebbero vigilare su di essa), a tutto vantaggio di aspetti economici o di marketing, è indubbiamente scandaloso, anche non rivestendosi della palandrana del moralista. Zarin Mehta, il sovrintendente dell’orchestra ha negato all’intervistatore del NY Times qualsiasi pagamento da parte di Kaplan, ma tutti sanno benissimo che le istituzioni musicali americane hanno un dannato bisogno di denaro privato, e il sostegno di una figura come Kaplan non è certo qualcosa da mettere in secondo piano. Ciò non toglie che quel concerto suonava veramente stonato. Dimenticavo: Kaplan dirigeva con la bacchetta di Mahler: sua anche quella.

PS. Stamattina ho assistito a un pezzo del concerto di Giovanni Allevi nella sala del Senato della Repubblica Italiana. A parte i toni da cinegiornale Luce dei commenti televisivi, sono rimasto molto impressionato da quel che vedevo e sentivo. Che cosa c’entra? Mah, è difficile spiegare, eppure c’entra…

Se il critico antipatico si ribella

15 Dicembre 2008 § 0 commenti § permalink

daumier_critico

Mentre le pagine musicali dei giornali di tutto il mondo e gran parte dei blog festeggiavano i due centenari di questo dicembre – quello di Carter, meravigliosamente creativo e longevo, e quello del grandissimo Messiaen – una notizia proveniente da Cleveland ha cominciato a serpeggiare per la rete, facendo nascere un dibattito discretamente rumoroso.

In poche parole la storia è questa: Donald Rosenberg è il critico di “The Plain Dealer”, il maggiore quotidiano di Cleveland, Ohio, città che come si sa ospita una delle 5 migliori orchestre americane (le cosiddette Big Five). Da quasi trent’anni Dan segue l’orchestra in tutte le sue uscite, sia cittadine sia in trasferta. È uno di quei critici localmente importanti, quelli che in America – come da noi – sono in qualche modo “embedded”: ha il pass per andare nei camerini dopo il concerto, può utilizzare alcune strutture del teatro per scrivere o inviare i pezzi, in caso di trasferta viaggia con i musicisti, ha un rapporto privilegiato con la dirigenza dell’orchestra, eccetera. Poi un giorno qualcosa comincia a cambiare. Rosenberg non sembra apprezzare incondizionatamente Franz Welser-Möst, il direttore austriaco nominato “music director” nel 2002 e, di rinnovo in rinnovo, garantito alla Cleveland Orchestra fino al 2018 (!). Continua a scrivere dell’orchestra in tono elogiativo, ma prende sempre più spesso le distanze dal direttore, tanto da far ritenere alla dirigenza dell’orchestra che possa trattarsi di una questione personale; cominciano le “presunte” pressioni sulla direzione del giornale, e soprattutto cominciano a essergli inviati i messaggi di scarso gradimento: niente più viaggi sul pullman dell’orchestra, la maschera che lo ferma mentre va ai camerini degli artisti dopo il concerto, l’accesso agli uffici che gli viene negato, i funzionari che non si fanno trovare. Insomma, il tipico incubo del critico caduto in disgrazia.

Finché nel settembre scorso, con una decisione che negli Stati Uniti fece abbastanza discutere, il giornale non comunicò al suo critico senior che non avrebbe più dovuto occuparsi della Cleveland Orchestra. Avrebbe continuato a scrivere di tutto, ma non dell’orchestra; a questa avrebbe pensato un altro critico, tale Zack Lewis. Era semplicemente stato “sollevato” dall’incarico, così come eufemisticamente si dice da noi.

Fin qui la storia non è del tutto inconsueta. Di giornalisti o critici scomodi, o comunque non amati, è piena la storia della carta stampata, e le loro rimozioni o i loro “silenziamenti” non sono stati pochi. Anche da noi. La notizia di questi giorni, però, annuncia un epilogo diverso: Dan Rosenberg ha citato in giudizio il suo giornale e la dirigenza dell’orchestra, accusando quest’ultima di una “campaign of vilification” (che lingua straordinaria, l’inglese!), con conseguente diffamazione e danno alla sua credibilità; il risarcimento è quantificato in 50.000 dollari, ma è chiaro che lo scopo della citazione in giudizio non è di carattere meramente economico.

rosenbergVedremo come andrà a finire, però è una notizia che fa riflettere. La pubblica discussione che ne è seguita tocca alcuni dei temi più importanti che riguardano la figura del critico e il suo ruolo nella società. Una parte dell’opinione pubblica si è schierata con il teatro: se il pubblico è contento di un artista, leggere una voce critica che si leva tanto ricorrentemente da essere quasi prevedibile può disturbare non solo la dirigenza dell’orchestra, ma anche i comuni lettori. L’altra posizione, apparentemente prevalente sui media, è quella che ritiene che anche un critico possa avere le sue idiosincrasie, e che finché egli le esprime con la dovuta professionalità, e motivando le sue affermazioni, non c’è motivo al mondo per cui dovrebbe essere rimosso dal suo incarico.

Vengono in mente i tanti casi in cui anche dalle nostre parti i critici hanno dimostrato un’antipatia (o una simpatia) ricorrente per un interprete; gli altrettanto numerosi casi in cui la critica si è dimostrata pavida o troppo benevola nei confronti di una determinata istituzione culturale o musicale; e i tanti casi in cui una certa istituzione musicale si è dimostrata aggressiva nei confronti della critica e persino della pubblica opinione. Viene in mente la Scala degli anni di Muti, e la sua posizione nei confronti della libera espressione delle opinioni: l’arroganza di voler decidere chi dovesse entrare e chi no alle rappresentazioni, le pressioni (sempre presunte, naturalmente) sui direttori dei giornali, persino la comica (ma non troppo!) presenza della forza pubblica nel loggione (i carabinieri, come in Pinocchio). E naturalmente la Scala è il caso più vistoso, ma non certamente l’unico. Qualcuno si ricorderà della lettera al direttore del Corriere, firmata da una buona parte della intellighenzia italiana, per chiedere la rimozione di Paolo Isotta, critico antipatico quant’altri mai. Insomma il mestiere del critico, nonostante il fatto che il suo ruolo sia diventato qualcosa di decisamente marginale nel mondo della comunicazione – e che i suoi spazi si siano ristretti di conseguenza – rimane percepito come qualcosa di instabile, di inevitabilmente soggetto alla benevolenza o al livore della classe dirigente.

In un mondo in cui gli sponsor contano quanto e talvolta più degli abbonati e degli spettatori affezionati, in cui dunque la comunicazione degli “eventi” si preoccupa di far giungere i suoi messaggi extramusicali a uno spettro ben più ampio di persone di quelle normalmente interessate alle recensioni, la critica musicale è diventata il retaggio di un mondo passato; li vedi in sala con l’aria dei giudici supremi, vedi come si pregustano la punizione per il tenore che ha stonato, il corno che ha scroccato, il direttore che ha preso il tempo troppo veloce; li vedi con l’aria mondana e compiacente mentre sussurrano gentilezze al sovrintendente, o pontificano per un ristretto pubblico di signore in ammirazione. La penna nel taschino, il programma di sala in mano, l’aria raramente felice. E senti che è un mestiere fuori moda, fuori dal tempo, come il bigliettaio sui tram, il portiere in livrea; un dinosauro tenuto in vita per lusso, per tradizione a esaurimento; un giapponese nella giungla che combatte una guerra finita da vent’anni: la guerra di quando un concerto o una serata d’opera non erano “entertainment”, ma eventi di cui era necessario stabilire il livello e il diritto d’accesso alla categoria del memorabile, testimoniata in eterno dalla carta stampata. Il critico era la memoria storica, il grande comparatore, il temuto e spiritoso intellettuale che staccava i biglietti d’accesso al tram della gloria artistica, il custode in livrea davanti al portone della fama meritata.

Oggi la sola idea di dedicare spazio a un evento a posteriori, quando cioè i biglietti sono già stati venduti e addirittura il fatto si è già svolto, sembra una cosa fuori tempo. La differenza tra cri
tica e attività promozionale è labilissima, come può testimoniare il mondo della pubblicistica letteraria (gli inserti dei quotidiani in primo luogo). I giornali e le televisioni sono straordinari veicoli di informazione pubblicitaria più o meno gratuita – lo scambio c’è, ma non si vede – e non hanno più alcun interesse per il ruolo dei custodi della memoria storica. Così la critica musicale, intesa come il severo e competente giudizio che arriva due o tre giorni dopo una serata di musica a cui hanno presenziato 1.000 persone a dire tanto, è qualcosa che non interessa più praticamente nessuno. A meno che… A meno che non si dimostri troppo scomoda, e allora diventa improvvisamente qualcosa di rilevante, un fastidio da rimuovere al più presto. Ecco che magicamente, attraverso l’antipatia e la malmostosità, il critico riacquista la sua dignità e il suo lustro. Contro di lui cominciano oscure manovre sotterranee, e l’indipendenza dell’informazione viene messa alla prova.

Ma il critico che ricorre al giudizio di un tribunale per difendere la propria dignità professionale, andando contro la dirigenza delle istituzioni culturali della propria città e persino contro la direzione del proprio giornale, non è una cosa consueta; è un colpo di coda inaspettato. L’appello alla legge perché venga sancito il sacrosanto diritto a essere fuori dal tempo – la privata liceità e soprattutto la pubblica utilità dell’essere antipatico – è una novità da seguire con interesse.

Immagine in alto: Il critico, incisione di Honoré Daumier. Più sotto: Daniel Rosenberg, foto di Allison Carey/The Plain Dealer.

Buon compleanno, Krystian!

5 Dicembre 2008 § 1 commento § permalink

Così per rompere il silenzio, facciamo gli auguri a Krystian Zimerman, che è nato 52 anni fa a Zabrze, in Slesia (Polonia). E per festeggiarlo, ci possiamo gustare questo bellissimo documento: la Mazurca che suonò in quella magica serata del 1975 in cui, a 18 anni, vinse lo Chopin di Varsavia. Quell’incredibile controllo, quell’incandescente distacco che ce lo fanno amare c’erano gia tutti.

Radio classiche? Chiudere subito!

20 Novembre 2008 § 0 commenti § permalink

concertzender

Mentre le emittenti radiofoniche dedicate alla musica classica stanno affrontando difficoltà economiche più o meno gravi in tutto il mondo, c’è n’è una che prospera, se non economicamente, in fatto di abbonati e ascoltatori. Si tratta della storica Concertzender, un’emittente olandese che, come la nostra coraggiosa amica Rete Toscana Classica, è ascoltabile anche attraverso la rete, ma a differenza di quest’ultima appartiene al circuito del Sistema radiofonico pubblico olandese (NPO — Nederlandse Publieke Omroep), e dipende quindi largamente da un contributo pubblico che si aggira intorno ai 500 mila euro annui. Concertzender può tuttavia contare anche su un nutrito gruppo di sostenitori privati, che contribuiscono sia con il lavoro volontario sia con aiuti economici al sostentamento della loro emittente amica. Oltre alla musica classica (con un canale dedicato all’antica) Concertzender trasmette musica world e jazz, oltre a registrare decine di concerti dal vivo per diffonderli in un canale streaming dedicato. Gli ascolti vanno bene e crescono, e i contatti via etere e via rete si aggirano intorno alle 600 mila unità, senza contare gli ascoltatori via cavo.

Bene, dovrebbero essere tutti felici di un gioiello del genere, vero? E invece no. Perché 600 mila ascoltatori sono davvero troppi, e danno fastidio. E dunque i dirigenti delle altre radio pubbliche hanno chiesto a gran voce allo stato il taglio dei finanziamenti a Concertzender. E, incredibile a dirsi, l’hanno ottenuto. Ieri l’altro è stato comunicato ai dipendenti dell’emittente che l’amministrazione pubblica ha deciso per la sospensione del finanziamento (attenzione, non a causa della crisi, ma per ridistribuire il contributo destinato a concertzender sulle altre emittenti attive – non di classica, ça va sans-dire). Gli ascoltatori di tutto il mondo si stanno mobilitando, ma l’efficacia della protesta è dubbia. I dirigenti e i collaboratori, invece, stanno facendo i loro conti per capire se sarà possibile proseguire le trasmissioni dopo il taglio del sostegno pubblico. Quello che gli ascoltatori vecchi e nuovi possono fare, è mandare un messaggio a questo indirizzo, dicendo con tutti i punti esclamativi del caso che quella del taglio dei finanziamenti è veramente una pessima idea.

E c’è anche da dire che la questione degli ascolti alti ma non abbastanza, dei finanziamenti e dell’indifferenza nei confronti della sostanziale scomparsa della musica classica (e jazz, e world di alto livello) dalle trasmissioni radio ricorda molto da vicino la più volte minacciata eliminazione del canale Auditorium della (ex) filodiffusione, ascoltabile purtroppo in poche città italiane via radio, e su tutto il territorio raggiunto dall’Adsl via internet. Che rabbia.

AGGIORNAMENTO DEL 20 NOVEMBRE 2008

Qualcosa si muove. Dopo le proteste via internet arrivate da tutto il mondo, il ministro della cultura olandese ha dichiarato che farà pressione sul Nederlandse Publieke Omroep (NPO) perché i contributi a Concertzender non vengano sospesi. Qui la pagina in cui l’emittente annuncia la novità.