Che ci fa un uomo nudo da Hawelka? Visto che a parlare di caffè viennesi si passa subito per nostalgici, ecco il link al video di una famosa canzone di Georg Danzer: Jö schau! (che vorrebbe dire Hei guarda!). Danzer è un cantautore viennese morto nel 2007, portato al successo nel 1975 proprio da questa canzone, famosissima in Austria; da lì nacque il famigerato austropop, il genere dominante per decenni nei palinsesti delle radio locali. Parla di un cliente che vede entrare un uomo nudo da Hawelka: è cantata in viennese stretto, praticamente incomprensibile fuori dal Graben e dintorni (chi volesse provare a tradurla, si accomodi). La cosa divertente è che nel video, molto anni Ottanta, si vedono Leopold Hawelka e signora nel loro locale, nonché una buffa ricreazione della clientela tipica. Un simpatico tizio ha provato davvero a entrarci, nudo o quasi, da Hawelka, e a far filmare le reazioni dagli amici; e questa volta, insieme a uno sconcertato Leopold si vede anche il figlio Günther, che lo tira per un braccio. Spirito viennese: un po’ greve alla lunga, ma sempre divertente
L’Europa, da Hawelka
5 Novembre 2008 § 1 commento § permalink
La luce calda delle lampadine a incandescenza, i tavoli rotondi di legno con il ripiano di marmo, le sedie e gli attaccapanni Thonet, il velluto rosso a righe grigie e rosa dei divanetti, l’espositore con i giornali di tutta Europa, l’odore di caffè e di fumo, i suoni, le risa e i silenzi di quanto rimane della civiltà della conversazione. Non occorre aggiungere molto altro per descrivere un caffè di una qualsiasi città europea, ma questo in particolare è (o era?) uno dei più belli. Parlo del Café Hawelka di Dorotheergasse, a Vienna: chi c’è passato non lo dimentica facilmente. Mi è capitato di leggere per caso sul «Nouvel Observateur» il bellissimo articolo che Bernard Géniès ha dedicato a questa istituzione della socialità viennese il 7 agosto scorso, e ho pensato di riportarlo qui. Io ci sono capitato vent’anni fa, accompagnato da un’amica greca che studiava a Vienna e da un barbuto musicologo austriaco di lei segretamente innamorato, ma troppo intrappolato dalle rigidità mitteleuropee per dichiararsi. Tentò la carta della vita intellettuale notturna: ci fece entrare nel bellissimo caffè verso le dieci, e aspettò che arrivassero i leggendari Buchteln, i dolci con la marmellata calda dalla misteriosa ed esclusiva ricetta di Fräulein Hawelka, che compaiono all’improvviso solo dopo quell’ora, accolti da un compiaciuto mormorìo; li ordinò da vero habituè e aspettò che facessero il loro effetto sugli ospiti provinciali (in realtà l’unico a non averli mai provati ero io). Lo stratagemma erotico non sortì l’effetto desiderato sulla ragazza, ma per me fu una grande e piacevolissima sorpresa, una specie di debutto in società, dopo la delusione dell’anonimo Café Central, in cui ero stato spinto dalla letttura di Danubio, il libro-culto del Claudio Magris di quegl’anni. Ci tornai tutte le volte che potevo, nel tentativo (ovviamente vano), di diventare un habituè anch’io. Buchteln e tutto quanto.
Géniès scrive del mondo che si riuniva in questo caffè, degli scrittori e degli artisti, della bellissima storia di Leopold e Josefine Hawelka. Loro non ci sono più, e la ricetta dei Buchteln è passata ai figli Günther e Herta, e ai nipoti Amir e Michael. Sarà uno dei nipoti ad aver avuto l’idea del sito internet? Ora il locale è stato un po’ ripulito ed è ormai una meta turistica necessaria per chi voglia provare l’esperienza del caffè viennese; forse è giusto oltre che inevitabile che sia così, fa parte del normale ciclo di vita delle cose belle. Rimangono i ricordi, e naturalmente quella parte di atmosfera che il tempo non cancella. Géniès cita qualche aneddoto: bellissimo quello di Bernhard frequentatore fisso che un giorno stupisce tutti massacrando i suoi stessi compagni di caffè nel terribile A colpi d’ascia; ma continua a sedersi al suo tavolo, finché un giorno Leopold non gli chiede una dedica sul frontespizio di un suo romanzo per una cliente: Bernhard accetta educatamente, scrive quello che deve scrivere, e poi scompare per non tornare più. È proprio lui, come il mondo lo ha amato; e forse bisogna anche ricordare la sua massiccia demolizione del culto dei caffè viennesi, Hawelka compreso, nel Nipote di Wittgenstein.
Sui caffè viennesi è stato scritto molto, e altrettanto è stato ricamato. Per qualche anno sono stati descritti come il centro nevralgico della civiltà culturale della mitteleuropa; erano gli anni d’oro di Magris, quando Musil era molto più letto di Proust, Thomas Mann era il grande classico del Novecento, Canetti la mirabile riscoperta, Mahler metteva alla prova ogni impianto stereofonico, Abbado, Sinopoli, Bernstein e altri ancora riportavano il secolo breve della musica alla sua vera lunghezza, addolcendo senza melassa il ricordo di un mondo inghiottito dagli orrori bellici e dall’onta dell’olocausto. Oggi sono cambiate molte cose: la nuova Europa ha tolto parte del suo misterioso fascino alla vecchia, mille nuovi problemi spingono a guardare altrove, il mondo si è ristretto e la questione delle radici culturali ha rivelato ancora una volta i suoi aspetti inquietanti. Eppure la forza con cui le vestigia di quella grande civiltà culturale e artistica sanno colpirci è ancora straordinaria; non è solo una rete di ricordi ancora largamente diffusa nella memoria collettiva, ma il riaffacciarsi di cose che hanno determinato e tuttora determinano parte del nostro modo di vivere e di pensare all’arte, alla bellezza e alla società civile. Una pagina, certo, non l’intero libro. Ma una pagina di quelle che se ti capita di saltare poi non capisci più il resto della trama.
Il Don Antonio di Tiziano Scarpa
31 Ottobre 2008 § 0 commenti § permalink
Signora Madre, come faccio a farvi sentire quello che abbiamo suonato? Sapete leggere la musica, voi? Non posso far altro che aiutarmi con le immagini. Mi sembrava di spargere cipria sulle teste degli uomini seduti sui banchi della chiesa. Diffondevamo la nostra polvere profumata, la nostra spezia femminile su quella gente. Don Antonio ha scritto un concerto dove si sente schiumare la nostra indole di donne, presentata in tre fasi, prima la gaiezza, poi il languore, poi di nuovo l’euforia. Quest’uomo tira fuori dai nostri corpi suoni femminili, offre alle orecchie intasate di peli dei vecchi maschi la versione sonora delle donne, la nostra traduzione in suoni, così come la vogliono sentire i maschi. Eppure, nel dire questo non sono del tutto sincera. Oggi, ancora più di quanto avevo intuito durante le prove, ho sentito che stavo facendo qualcosa di più, don Antonio ci stava sforzando, ci stava facendo traboccare oltre noi stesse, precipitavamo oltre le balaustre, c’era qualcosa oltre la solita poesia aggraziata, oltre la frivolezza che si richiede ai nostri concerti, un fervore più scomposto, sfrontato, nei movimenti veloci, e uno sconforto disdicevole, senza consolazione nell’adagio.
Chi scrive è Cecilia, fanciulla dell’Ospedale della Pietà; la Signora Madre è la figura materna che non ha mai conosciuto, essendo stata abbandonata appena nata sulla ‘ruota’ dell’Ospedale, così come quasi tutte le sue colleghe e convittrici; Don Antonio è naturalmente Vivaldi, il prete rosso che insegna violino alle ‘figlie di coro’ dal 1703 al 1740. È una delle lettere che compongono Stabat Mater, il nuovo libro di Tiziano Scarpa, costruito come un ‘romanzo di formazione’ che indaga la crescita umana e spirituale di una di quelle misteriosi e affascinanti figure che erano le ragazze degli Ospedali veneziani. In una curiosa Nota al termine del volume (curiosa in un opera di narrativa), Scarpa racconta il suo rapporto con la musica di Vivaldi, dei 200 CD del compositore che possiede, del suo essere venuto al mondo al reparto di maternità dell’Ospedale Civile di Venezia, che in quegli anni aveva sede nel palazzo in cui prima si trovava proprio l’Ospedale della Pietà. Quasi una predestinazione, vorrebbe dirci.
Ma Stabat Mater non è una biografia romanzata di Vivaldi né un romanzo storico; nella trama gli appassionati vivaldiani troveranno parecchie inverosimiglianze e falsificazioni: Scarpa ne è ben consapevole e le ammette senza difficoltà nella Nota, domandando indulgenza agli estimatori e agli esperti. Anche se l’arco temporale non è chiarissimo, la lettura porta infatti a pensare che sia l’esecuzione dell’oratorio Juditha Triumphans sia quella dei concerti delle ‘Quattro stagioni’‘ fossero avvenute poco dopo l’arrivo di Don Antonio all’Ospedale, cosa senz’altro non vera. Altre inverosimiglianze o falsificazioni riguardano i riferimenti (in qualche modo velati) a singole opere e così via. “Mi sono preso la libertà di fantasticare a partire da una suggestione storica, senza badare troppo alla verosimiglianza documentaria”, chiarisce ancora nella Nota.
Forse, le inverosimiglianze più grandi non sono da ritrovare negli aspetti storici e documentari, quanto in alcuni accenti, in alcune immagini e in alcuni pensieri che Cecilia scrive nelle sue lettere. La scena in cui Vivaldi porta le allieve in gita a un mattatoio e costringe Cecilia a uccidere con le sue mani un agnello è fortemente inverosimile; più di ogni questione cronologica. Ma anche in questo Stabat Mater è una fantasticheria: ciò che gli importava indagare e raccontare era presumibilmente la psicologia di una ragazza dell’Ospedale, la sua angoscia, la sua reclusione reale ed esistenziale, il rapporto con l’esterno e con le istituzioni, prima di tutto quella famigliare rappresentata dallo sconosciuto legame materno; e soprattutto l’influenza che una musica teatrale, rappresentativa, libera e passionale come quella di Vivaldi può portare in un animo complesso e ricettivo come questo. E in ciò riesce pienamente: il libro si legge tutto d’un fiato e lascia un segno. È la voce interiore di Cecilia che riesce a non essere un esercizio di stile, che prende corpo e ci parla direttamente. È un libro che verrebbe voglia di definire vivaldiano anche nel suo colpire fulmineamente e felicemente, senza troppa preoccupazione di completezza, verosimiglianza e rotondità.
Ancora guerra e pace, ancora Gergiev
29 Ottobre 2008 § 0 commenti § permalink
Piccolo aggiornamento sull’uso politico della musica. Il 19 ottobre scorso, in un concerto dedicato ai sessant’anni dalla fondazione dello Stato d’Israele, Valeri Gergiev ha diretto a Gerusalemme la World Orchestra for Peace, l’orchestra fondata nel 1995 da Georg Solti che raccoglie 90 musicisti provenienti da 70 orchestre di tutto il mondo – una specie di dream team dedicato alla pace con alcuni tra i migliori strumentisti esistenti. Si possono leggere i dettagli della serata in quest’articolo del Jerusalem Post; alla fine dell’articolo si può leggere tuttavia anche un’inquietante notizia, la stessa che riporta Norman Lebrecht in uno dei suoi informatissimi pezzi: il concerto di Gerusalemme era sostanziosamente sponsorizzato da Arcadi Gaydamak, il controverso oligarca russo (o meglio anglo-canado-franco-israeliano!) che sta correndo per la carica di sindaco della città. Il problema è che Gaydamak è attualmente sotto processo a Parigi per il cosiddetto Angolagate, una brutta storia di armi fornite al governo angolano poco prima della recrudescenza della violentissima guerra civile che ha insanguinato il paese africano, portando centinaia di migliaia di vittime, in massima parte tra la popolazione civile: sotto processo non vuol dire colpevole, ma che un concerto dedicato alla pace sia sostenuto da un uomo d’affari sospettato di essere un trafficante d’armi (e di molte altre cose, v. biografia su wikipedia), in corsa per una delicatissima carica politica è un fatto che salta all’occhio. Come al solito non si può accusare nessuno di ipocrisia o, peggio ancora, di malafede, tanto meno un musicista come Gergiev, ma tutto questo non fa che sottolineare ancora una volta come se si lasciasse in pace la musica, e non la si mischiasse sempre e a tutti i costi con la pace, la guerra, la politica e la storia, tutti ne usciremmo sollevati e alleggeriti.
Brahms the Progressive
10 Ottobre 2008 § 0 commenti § permalink
Troppo lavoro, niente tempo per scrivere. Mi consolo con un bellissimo disegno di Matthew Guerrieri (da Soho the Dog):
Canti di guerra, canti di pace
23 Agosto 2008 § 0 commenti § permalink
In un mondo in cui la musica torna ad essere uno strumento di comunicazione politica con sempre maggiore frequenza, non può stupire quanto è successo ieri l’altro nella capitale dell’Ossezia del Sud, Tskhinvali. Mentre ancora le diplomazie internazionali discutono sulla realtà del ritiro russo dal territorio osseto (o georgiano, a seconda di come si voglia leggere questa difficilissima crisi), Valeri Gergiev ha diretto l’Orchestra Filarmonica di San Pietroburgo davanti al municipio cittadino, gravemente danneggiato dal bombardamento georgiano. Ne scrive, sulla Repubblica di oggi, in terza pagina, l’inviato Renato Caprile, con un tono che fa trapelare un certo filoatlantismo; il pezzo si chiude con la traduzione del discorso tenuto da Gergiev prima del concerto, prima in russo e poi in inglese. Nella versione di Caprile, Gergiev dice una cosa che non viene comfermata da nessun altro dei numerosi giornali stranieri che hanno dedicato spazio alla notizia. “Sono qui per testimoniare tutto il mio dolore. Sono osseto come voi e come voi spero che cose del genere non si ripetano mai più. Ma tutto il mondo deve sapere di questa distruzione e dei nostri duemila morti”: questo è quello che avrebbe detto Gergiev (“Poi per fortuna la parola passa finalmente alla musica”, chiosa l’inviato di Repubblica). I duemila morti sono quelli che la diplomazia russa tenta di far accreditare come conseguenza dell’attacco georgiano; un dato tutto da provare, su cui molto si discute. Se è corretta la versione di Caprile, Gergiev avrebbe fatto un’affermazione tutt’altro che portatrice di pace.
Gergiev è nato a Vladivkavkaz, capitale dell’Ossezia del Nord (e dunque di quella parte del territorio osseto compreso nella Russia); anche sua moglie Natalya è osseta, e per la piccola e contestata repubblica indipendente caucasica, il frenetico direttore d’orchestra è il figlio più illustre, l’artista che riscatta agli occhi del mondo un intero popolo oppresso. Su queste basi non c’è da dubitare sulla sincerità di un gesto di inconsueta forza e di indubbio coraggio. Ma naturalmente c’è dell’altro.
Il concerto è stato presentato ai media come un solenne requiem per i morti del bombardamento georgiano; un grande concerto per la pace, trasmesso in diretta dalla televisione russa. Il legame fortissimo tra Gergiev e Putin è noto (“sono parenti” dice Caprile; in realtà Gergiev ha fatto da padrino alle due figlie di Putin, e questi ha ricambiato facendo altrettanto per uno dei figli di Gergiev). Un’amicizia saldissima, che ha come conseguenza gesti plateali di sostegno e appoggi meno vistosi ma altrettanto significativi. Quello che viene da chiedersi è quale sia il valore di un concerto per la pace in cui si afferma con forza il ruolo di salvatore della Russia di Putin, e in cui si accredita internazionalmente la versione russa, mentre ancora è dubbio se i combattimenti siano davvero cessati, quale sia il numero delle vittime, se vi sia stata o meno una qualche forma di “pulizia etnica”, e da quale parte sia stata condotta.
Un gesto per la pace che è in realtà uno straordinario gesto dalla valenza prettamente, violentemente politica. In una piazza interamente russa, la maggiore istituzione musicale russa suona due autori russi, Čaikovskij e Šostakovič, per ricordare le vittime russe. Tutto questo all’interno di quello che i georgiani considerano ancora proprio territorio, e dove comunque si suppone (e si spera) che ancora risieda una parte di comunità georgiana. Le composizioni scelte non sono meno cariche di significati politici: la Quinta di Čaikovskij e la Settima di Šostakovič, due sinfonie legate per motivi diversi a un evento centrale della storia russa, l’assedio nazista a Leningrado. L’equiparazione tra i due momenti storici è stata poi espressamente ribadita da Gergiev. Tskhinvali come Leningrado. Se non è politica questa…
Ciò che potrebbe stupire è la prudenza con cui gran parte dei media internazionali hanno trattato il concerto, prudenza che ricalca per molti versi quella tenuta nei confronti dell’intera crisi osseta. Tutta questa esaltazione del ruolo di salvatore della Russia, tutto questo sventolare di bandiere russe e di valori russi a sostegno di una minuscola repubblica che si proclama indipendente? Ma indipendente da chi, solo dalla Georgia o proprio da tutti? Ma quello che importa qui non è certo stabilire a chi spetti il ruolo di invasore e a chi quello di carnefice, quanto sottolineare come ancora una volta la musica sia diventata un potente mezzo di propaganda politica, in un processo nel quale alle note sono sovrapposti significati che finiscono per annegarle in uno spaventoso frastuono di cingolati. Anche se tutto fosse stato fatto con le migliori intenzioni.
AGGIUNTA DEL 14 NOVEMBRE 2008. Ecco il link al video di Youtube dove in inglese Gergiev parla effettivamente dei 2000 morti dell’attacco giorgiano.
Nella prima foto, il pubblico assiste al concerto di Gergiev a Tskhinvali. Foto di Joao Silva per The New York Times.
Io non sono che un critico
6 Agosto 2008 § 2 commenti § permalink
Mettiamo che uno voglia capire come è andato l’Otello diretto da Muti a Salisburgo. Mettiamo che apra il «Sole24ore». Carla Moreni: “Quanto è nuovo, audace, tragico e radicalmente diverso da tutte le interpretazioni mai sentite di Otello questo di Riccardo Muti a Salisburgo”; e giù, una sbrodolata sul cavaliere solitario (“straordinariamente solo, su una strada di teatro che nessun altro poi percorrerà”), propagatore incompreso del bello, attorniato da una manica di incapaci. E ancora: “Quando c’è Riccardo Muti sul podio, e sempre di più negli ultimi tempi, come in un gesto di deliberata solitudine o solipsismo, la clessidra del teatro parte solo dal podio”. Ma accanto al registro lirico, Moreni usa anche quello sarcastico, principalmente nei confronti del regista e della sua orrenda pedana di plexiglas: “lì ha luogo quasi sempre l’azione. Tutti fermi, impalati come manichini”. Boh, che strano, questa storia dei cantanti impalati mi ricorda qualcosa… Ma no, andiamo avanti. La compagnia di canto: mediocre, incapace di seguire la siderale visione del Maestro. Ancora un’offesa al Grande: lui, incompreso, solo, geniale e sconfitto. Gli impongono una compagnia mediocre. A parte Alvarez, dice Moreni, “gli altri sono corretti”, ma la loro correttezza “non è di Verdi”, come a dire, ‘non è di Muti’. Ma che strano, anche questa cosa delle regie e dei cast mediocri mi ricorda qualcosa… Ma no, dev’essere stata una serata meravigliosa. Che peccato non essere lì. Grazie di avercelo raccontato con tanta passione, Moreni.
Mettiamo poi che il nostro amico apra la Repubblica. “Muti illumina la violenza di Otello” urla il titolo. Dino Villatico: “a prevalere è lo scatenarsi di una violenza esasperata, sul limite della rottura degli equilibri sonori e del rumore. Ma proprio per questo il capolavoro verdiano sembra acquistare una luce nuova: lo scavo nell’ inferno delle passioni, come sempre sospese nell’ irreale di un mondo come lo si vede e non come è, proietta un’ombra cupa, amarissima sulla visione che l’ ultimo Verdi ha della vita. Verdi, sotto la bacchetta di Muti, è il compositore della disperazione senza speranza”. La disperazione senza speranza! Ah, come dev’essere stato profondo, questo spettacolo! Come il mare, profondo ed infinito! Però Villatico sullo spettacolo è più prudente “Sulla scena si vede uno spettacolo bellissimo, ma non di uguale forza interpretativa”. Un colpo al cerchio e uno alla botte. È bello ma non tanto bello quanto quello che fa Muti, e la sua ottima compagnia di canto (“dolcissima, incantevole” Desdemona, “un personaggio complesso” Otello, “sottile, diabolico e per nulla trucido” Jago). Insomma, una grande serata, anche sul fronte vocale. È Moreni che, come al solito, è un po’ ipercritica.
Ma il nostro amico si vuole documentare, e compra anche il Corriere. Va beh, Paolo Isotta. Uffah! Però dicono che sia colto, che diamine, leggiamo! “Il meglio diretto che abbia mai ascoltato (Riccardo Muti)”. Addirittura! e con tanto di parentesi, casomai qualcuno avesse dei dubbi. Isotta non riesce a comprendere le contestazioni al tutto sommato pregevole e onesto regista, e cerca conforto in “una straordinaria pagina del Gibbon su Costanzo II”. Con il risultato che non riusciamo a spiegarcele neanche noi, le contestazioni. Ma la musica? “Quest’ Otello concertato da Muti è di un suono sontuoso, rutilante eppur trasparente, che fa vibrare tutta la sala dai vertici dell’ottavino alle note gravissime del cimbasso”. Diavolo di un Isotta. Il cimbasso. C’è sempre qualcosa da imparare. Un euro speso bene. E la compagnia? Ottima, e dove non lo è lo diventerà. Che vuol dire lo diventerà? “Antonenko: diciamo che se non è oggi un Otello perfetto lo sarà domani”. Ma certo, chi lo ha scelto ha peccato per preveggenza. È la passione: si sa, non tollera attese.
Ora il nostro amico è preparatissimo. Ha maturato la sua idea. Che spettacolo! Che direttore! La disperazione dell’ultimo Verdi! Senza speranza! Può affrontare qualsiasi discussione: è come se quel 1° agosto di Salisburgo, benedetto da Apollo e da Dioniso, ci fosse stato anche lui al Grosses Festspielhaus. Ma a Roma non se lo farà scappare, il grande spettacolo. Sarà lì, il 6 dicembre. Il giorno prima di Sant’Ambrogio. Muti è un grande, non è vendicativo.
Mettiamo ora che il nostro amico compri un biglietto di treno, e passi la frontiera. A Chiasso, per far piacere a Arbasino, o dal Frejus, o da dove vuole lui. Mettiamo che si trovi a chiacchierare con un appassionato d’opera inglese, o tedesco, o francese, o americano. Il discorso cade sull’Otello di Salisburgo. Questa la so, dirà il nostro omino: “Ah, la meraviglia, la solipsistica grandezza del direttore, la disperazione senza conforto dell’ultimo Verdi! Peccato il cattivo regista, che ha ingessato i cantanti; peccato la compagnia, con luci e ombre, forse non all’altezza del grande direttore! ma si sa, i grandi direttori, come eroi romantici, devono lottare contro le avversità del destino. E il destino aveva scelto per loro quei cantanti”.
Mettiamo ora che invece di incontrare l’ammirazione dei suoi interlocutori li veda sganasciarsi dalle risate. Mettiamo che aprano le loro valigie, e gli mettano davanti agli occhi tutti i giornali del mondo, o meglio quei pochi fra i giornali o siti internet del mondo che non ignorano quel club per miliardari sprassolati che si chiama Festival di Salisburgo! Il nostro amico forse mastica un po’ di lingue e, piano piano, cercherà di decifrare gli articoli che gli squadernano di fronte.
Orrore! Come in un incubo, come nello specchio deformante di un luna-park! tutte le sue certezze in fumo! ma come è stato possibile? Neanche uno che capisca la disperazione dell’ultimo Verdi! Il grandioso solipsimo del nostro direttore, il Grande Diseredato! NZZ: “Riccardo Muti è responsabile di molti problemi: semplicemente, suona così forte da non lasciare spazio a nessuno”. Ignoranti! Bloomberg: “La compagnia restava imbambolata, il più vicino possibile alla ribalta, con gli occhi fissi a Muti… Il Verdi di Muti è esplosivo, teso e carico di energia grezza. Ma è anche fracassone, brutale e sgradevolmente autocratico”. Dannati americani, cosa possono capire della clessidra del teatro! Non se lo meritano, a Chicago! La Berliner Zeitung: “Niente da dire: Riccardo Muti viene da una lunga tradizione verdiana. Ma è proprio questo il problema: non viene soltanto, lì rimane e non fa che riprodurla”. Come? E il “nuovo, audace” Otello di Moreni? Berlinesi provinciali, cosa ne sanno loro di innovazione! Per fortuna il Figaro non ci tradisce con parole simili ai nostri beneamati, ma per il resto è un disastro. Il Tagesspiegel? “Quello che [Riccardo Muti] fa di una delle partiture più intelligenti e avanzate rasenta lo scandalo. Si tratta del solito trucco: finché suoni fortissimo, nessuno si accorge di nulla”. Screanzati! E il cimbasso, dove lo mettiamo? Ma non è finita. Basta fare una ricerca su internet: uno sfacelo. Nessuno trova le parole alate, i trasporti lirici dei nostri critici. Se non si fosse trattato di un’unica recita, si potrebbe dire che la critica italiana non ha visto lo stesso spettacolo degli altri.
Come mai? Come è potuto succedere, si chiederà il nostro omino sbeffeggiato? Può essere che la nostra gloriosa e coltissima critica sia macchiata di sordido provincialismo? Oppure sono questi tedeschi, questi austriaci, questi inglesi e americani che non capiscono il vero genio musicale, perso su una strada di teatro che nessun altro poi percorrerà?
Mistero fitto. E neppure una riga del Gibbon a darci una mano.
APPENDICE DEL 9 AGOSTO 2008: aggiungo la Frankfurter Allgemeine Zeitung (FAZ), e la sua severissima stroncatura, intitolata “Un carrozzone di esibizionismo musicale”: “Il maestro, fedele alla sua fama di spregiatore del teatro di regia, si è anche premurato che il regista se ne stesse obbediente in riga” (ma porca miseria, bisogna andare a Francoforte per leggere questa semplice verità? Forse Moreni non la sa?); e ancora: “Riccardo Muti ha condotto i navigati Wiener Philharmoniker come un carrozzone di lusso attraverso questa opera profonda ed ambigua. Tanto sportivo, veloce, liscio, e furbesco, da farci pensare che ad ogni battuta ci dicesse «qui mi trovo a mio agio». Tutto risuonava di un sound monotono ma risplendente, che aveva una sola qualità: il volume forte. Un carrozzone di esibizionismo musicale sotto il cui ingombro i cantanti, tra i quali il ben preparato, anche se del tutto privo di colore, Otello di Aleksandr Antonenko, non potevano che soffrire”. Ma a noi italiani, cosa ci manca per poter leggere degli articoli così?
Buon compleanno, sopratitoli!
16 Luglio 2008 § 2 commenti § permalink
Forse, se si dovesse indicare l’evento che ha più profondamente modificato la storia della recezione del teatro d’opera negli ultimi trent’anni, non bisognerebbe guardare alle novità di cartellone, alle innovazioni registiche o a quelle manageriali. Bisognerebbe semplicemente alzare lo sguardo al boccascena, e fissare quelle due, a volte tre righe di testo luminoso che sovrastano i cantanti. Bisognerebbe osservare quel movimento ritmico che l’intero pubblico in sala fa con gli occhi (o con l’intera testa), ogni dieci, venti o trenta secondi, per l’intera durata dello spettacolo.
I sopratitoli quest’anno compiono il loro primo quarto di secolo. La loro introduzione in quella che sembrava una forma spettacolare immobile nel suo rituale codificato – in realtà mobilissima, come tutte le forme di spettacolo dal vivo – si deve a Lofti Mansouri, il manager-sovrintendente, iraniano di nascita e americano d’adozione, che nel gennaio del 1983, in occasione di una produzione della Elektra di Strauss della Canadian Opera Company a Toronto, chiese la proiezione del libretto su uno schermo orizzontale posto sulla cornice del palcoscenico (boccascena). Fu l’inizio di una piccola rivoluzione, dapprima tutta americana, in seguito, con insolita rapidità, accettata in tutto il mondo. Il nome che in un primo momento prese questa innovazione tecnica fu Surtitles, anche se, con spirito tutto anglosassone, il marchio fu immediatamente registrato dalla Canadian Opera Company, e dunque da allora in poi per il resto del mondo anglofono il termine da usare per evitare di pagare royalties fu Supertitles, manco fosse un gruppo di supereroi (in realtà, il termine originale canadese è rimasto quello più diffuso, anche se non viene mai messo per iscritto). Negli Stati Uniti fu la grande Beverly Sills, allora manager della New York City Opera, a introdurli per la prima volta, nel settembre del 1983, in occasione di una produzione di Cendrillon di Massenet al New York State Theater.
Il debutto italiano di quelle che per un po’ di tempo furono popolarmente definite, con un termine meno scioccante per il mondo della lirica, “didascalie”, avvenne il 1° giugno del 1986 in una produzione dei Meistersinger al Maggio Musicale Fiorentino; la loro importazione si deve presumibilmente a Zubin Mehta, di casa tanto a New York quanto a Firenze, ma trovarono da subito un sostenitore brillante, autorevole e influente in Sergio Sablich, che non solo firmò la prima traduzione (anche se in questo caso sarebbe più giusto definirla “sceneggiatura”), ma li sostenne sempre e ovunque contro l’antipatia della critica più conservatrice. Antipatia che durò per anni, e che fu tutt’altro che leggera.
Quello fiorentino era il debutto europeo dei sopratitoli, e dovettero passare ancora degli anni perché essi fossero accettati ovunque. In Italia una parte della critica li accettò con una certa indifferenza (“non hanno disturbato lo spettacolo”, scrisse Giorgio Pestelli, “non ha dato troppo fastidio” Bortolotto), altra parte fu severissima (“una scelta di un provincialismo turistico riprovevole” scrisse, comicamente, Duilio Curier).
Che io sappia, la prima proiezione di sopratitoli di un libretto in lingua italiana fu fatta a Torino in occasione del Mitridate di Mozart il 28 aprile del 1995; li volle Carlo Majer, allora direttore artistico del Teatro Regio, che non solo dall’anno precedente li aveva richiesti per tutte le opere in lingua straniera, ma che dopo una serie di esperimenti e messe a punto, li rese una presenza stabile per tutte le opere rappresentate, indipendentemente dalla lingua del libretto.
In Italia la prima realtà a farne il proprio business fu la Eikon, azienda con sede all’Impruneta (Firenze), fondata dall’imprenditore e fotografo pubblicitario Nedo Ferri; per più di dieci anni dominò incontrastata il mercato, e solo nel 1996 nacque Prescott Studio, di Mauro Conti, storico maestro del Teatro Comunale di Firenze ed ex collaboratore di Ferri. Oggi molti teatri si sono attrezzati autonomamente, ma le due aziende concorrenti continuano a fornire il loro servizio a molti teatri d’opera e di prosa.
Anche dal punto di vista tecnologico molte cose sono cambiate. Le prime proiezioni erano decisamente riassuntive, poiché si avvalevano di proiettori di diapositive di alta qualità ma fisicamente imponenti e farraginosi da utilizzare. La Eikon per prima si fece creare un programma per Apple Macintosh che metteva in sequenza diversi proiettori, in modo da rendere il lavoro del maestro collaboratore addetto alla proiezione più semplice. Poi sono arrivati anche i videoproiettori, sempre più potenti e competitivi, tali da rendere in parte obsoleta la vecchia diapositiva (ma molti preferiscono ancora il lavoro fotografico). Infine i tanti display luminosi.
Ma più che l’innovazione tecnologica, ciò che più colpisce è la trasformazione estetica e nella recezione che i sopratitoli hanno provocato. Se qualcuno facesse una statistica confrontando il numero di Ring o di produzioni di Janačék nei teatri europei prima e dopo l’introduzione dei sopratitoli, sono sicuro che scoprirebbe un fortissimo incremento. I sopratitoli hanno spalancato le porte dei teatri a titoli fino a non molto tempo fa programmabili solo come rarità per intenditori, e alimentato una ripresa di interesse da parte del pubblico di dimensioni straordinarie nei confronti dei titoli meno accessibili. Hanno dunque contribuito a rendere lo spettacolo lirico un’esperienza meno dedita alla ripetizione di sé stessa, e più vicina alla sensibilità culturale odierna.
Presumibilmente il loro viaggio non è finito. Alcuni teatri già proiettano i testi in più lingue (la Florida Grand Opera di Miami, per esempio, offre le traduzioni spagnola e inglese affiancate). Altri, dal Metropolitan alla Scala, hanno optato per dei sistemi apparentemente più discreti come i cosiddetti “videolibretti”; dico apparentemente perché in realtà richiedono lo stesso sforzo concettuale e, soprattutto, lo stesso mutamento di modalità recettiva (“Opera is not a reading experience!”, tuonava anni fa il direttore di «Opera News»). Altri ancora immagino che prima o poi decideranno di recedere da un elemento che, comunque lo si voglia intendere, rimane piuttosto invasivo; saranno aiutati in questo da nuove tecnologie, come la distribuzione di palmari all’ingresso a chi ne facesse richiesta, o da chissà cos’altro. L’assenza di sopratitoli diventerà così parte di una nuova filologia dell’ascolto.
È difficile da dire che cosa ne sarà in futuro, ma ciò che è innegabile è che da servizio accessorio i sopratitoli sono diventati parte integrante dello spettacolo e del modo di goderlo. Sono diventati una delle tante competenze artigianali necessarie allo spettacolo dal vivo.
Dunque: Buon compleanno, sopratitoli!
A Parigi, in casa di Nadia
30 Giugno 2008 § 0 commenti § permalink
È difficile sopravvalutare l’influenza che Nadia Boulanger ha avuto sulla musica del Novecento. I suoi Mercoledì, durante i quali una cinquantina di studenti e ammiratori, celebri e meno celebri, invadevano il celebre appartamento di rue Ballu 36 – una casa letteralmente traboccante di libri, partiture, strumenti, fotografie e cimeli – sono ormai entrati nella leggenda. “Mademoiselle”, come era affettuosamente definita, vi teneva banco con le sue dottissime analisi, gli ascolti di nuove composizioni, la conversazione sempre elevata e brillante, ma in nessun caso sciatta o salottiera; con i suoi occhiali a pince-nez, così professorali e inconsueti su un volto femminile; con la sua profonda intimità intellettuale con molte delle maggiori menti artistiche del secolo. Fauré, Stravinsky, Valèry, Cocteau, Gershwin, Bernstein, la principessa di Polignac, Szeryng fra i tantissimi frequentatori; un’intera generazione di compositori americani tra i suoi allievi (gli “americani a Parigi” degli anni Venti): Carter, Copland, Piston, Thomson ecc., ma anche molti direttori d’orchestra (Baremboim e Gardiner per fare tre nomi “recenti”); pianisti, come il grande Dinu Lipatti; ma osservare la lista dei frequentatori e degli allievi è sorprendente per l’impressionante escursione temporale e culturale dei suoi ammiratori, da Jaques Ibert a Piazzolla, da Menotti a Philip Glass o a Quincy Jones. Prima donna a dirigere una grande orchestra come la New York Philarmonic, Nadia Boulanger ha rappresentato per anni il concetto stesso di cultura musicale; poi qualcosa ha cominciato a cambiare. La sua distanza dalle tecniche della serialità (distanza nutrita di rispetto e di competenza, come sempre nel suo caso) l’ha resa invisa ai giovani rampanti degli anni Sessanta e Settanta, Boulez in testa, che cominciarono a parlare sprezzantemente del suo entourage come di un mondo di bolsi accademici (la “boulangerie” lo definivano, con una battuta che grazie alla sua facile rozzezza diventò presto celebre).
È una storia che ci viene oggi raccontata dal riversamento in DVD di un film del 1977 di Bruno Monsaingeon intitolato proprio Mademoiselle, e girato su pellicola in b/n in occasiuone dei novant’anni della Boulanger. Il film dura 80 minuti circa, e se non fosse per il suo altissimo valore documentario si potrebbe dire che è un’opera minore di questo grande regista documentarista. Ma assistere a una lezione della Boulanger, già molto anziana, ascoltare il suo francese coltissimo e perfetto, ammirare l’esibizione naturale e continua di “clartè” del suo pensiero, la prontezza con cui risponde alle domande, a volte un po’ fumose o vagamente petulanti, dell’intervistatore ne fanno uno spettacolo straodinario. Accompagnano la visione due commentatori d’eccezione: il misterioso Igor Markevitch, e il grande Leonard Bernstein, naturalmente seduto al pianoforte.
Racconta Monsaingeon nelle note di copertina che originariamente il film si apriva con una scena di Love Story, il film drammatico/sentimentale di Arthur Hiller che a partire dal 1970 ha fatto piangere generazioni di innamorati. Nella trama del drammone, lei, la semplice e bellissima musicista (Ali MacGraw), per sposare lui (Ryan O’Neal), ricco e altoborghese, aveva rinunciato alla borsa di studio a Parigi a cui tanto teneva; lui aveva rinunciato al patrimonio di famiglia e alla brillante carriera connessa. La scena, tagliata dal DVD per una questione di diritti, era quella, precedente al sacrificio, in cui lei comunicava a lui che sarebbe partita per la Francia: aveva finalmente ottenuto la possibilità di andare a studiare a Parigi con la celebre Nadia Boulanger. Cosa non si fa per amore.
Torturare con la musica
31 Maggio 2008 § 0 commenti § permalink
Suzanne G. Cusick è l’autrice un articolo molto interessante e veramente ben documentato sull’utilizzo della musica come strumento di tortura nelle prigioni americane in Iraq. Si potrebbe pensare che un utilizzo di questo tipo degradi la musica a rumore, ma credo sia vero il contrario: è la spaventosa amplificazione del messaggio a fare effetto, non solo la quantità di decibel, tanto è vero che alcune musiche sono adatte, altre no. Dunque è un utilizzo politico del messaggio, una violenza più psicologica che fisica. (Grazie ad Alex Ross per la segnalazione).