Steve Reich e il Premio Pulitzer

26 Aprile 2009 § 1 commento § permalink

steve_reich

Questa volta ce l’ha fatta. Dopo essere arrivato nella rosa dei finalisti nel 2003 (con Three Tales, mica con un pezzettino!), 2004 e 2005 quest’anno Reich ha vinto il Pulitzer per la musica con Double Sextet, un pezzo per dodici strumentisti o per sestetto e nastro magnetico che sicuramente presto potremo ascoltare su cd o dal vivo (informazioni sul sito di Boosey).

Il premio consiste in 10.000 dollari e tanta pubblicità, dovuta soprattutto al prestigio di un nome legato alle altre sezioni, quelle per il giornalismo e la letteratura. Ciò detto, osservare la lista dei finalisti e dei vincitori fa un certo effetto. Menotti l’ha vinto due volte, con The Saint of Bleecker Street e con le musiche di The Consul (più una terza con il bel libretto per la Vanessa di Barber); Copland l’ha vinto con Appalachian Spring (era il 1945; pochi anni dopo invece dei premi sarebbero arrivate le bastonate governative); Ives con la Terza Sinfonia; Carter due volte con gli incredibili SecondoTerzo Quartetto; e poi Virgil Thompson, Walter Piston, Ned Rorem, Colgrass, Del Tredici, Sessions, Harbison, Corigliano, Lieberson (quattro volte in finale, l’ultima con i bellissimi Neruda Songs, ma mai vincitore); John Adams va in finale nel 1998 con i Century Rolls, ma vince nel 2004 con il grande On the Transmigration of Souls. E ancora: Stucky, Ornette Coleman, David Lang, Aaron Jay Kernis. Certo, ce n’è per tutti i gusti; c’è anche qualche assenza – una per tutte, quella oggi vistosissima di Bernstein (fino a non molti anni fa decisamente meno vistosa).

Ma la cosa che mi colpisce di più è questa: potrò sbagliarmi, ma la lista rappresenta bene i gusti musicali e la vita concertistica del tempo; non solo per la quantità di musica più o meno bella ma comunque eseguita (!) che comprende, ma anche per gli alti e bassi dei diversi stili e dei compositori che li rappresentano nel corso degli anni. Dico questo perché non riesco a vedere niente di simile in Italia. Nessun premio ha un prestigio paragonabile, e fra quelli che hanno una certa importanza se non altro per il contesto (penso per esempio alla Biennale Musica di Venezia e ai suoi due Leoni d’oro) l’assegnazione dei riconoscimenti segue palesemente delle strade tutte particolari. Ma se uno guarda al desolante momento dei premi e dei concorsi negli altri campi dell’arte e della cultura in Italia, poi si chiede perché la situazione dovrebbe essere diversa per la musica. E infatti non lo è. Peccato.

L’evo di Adams

30 Ottobre 2007 § 0 commenti § permalink

adamsÈ strano come il concerto solistico, ben lungi dall’essere in qualche modo ridimensionato dalla fine di un mondo, quello del grande concertismo internazionale, continui a generare nei migliori compositori ispirazioni spesso più felici della musica per orchestra. Gli ultimi grandi divi-virtuosi si stanno spegnendo, nascono figure di volta in volta più “glamour” o più tecnicamente preparate, ma difficilmente si potrà ritrovare, almeno nel futuro prossimo, quel particolare carisma che il solista conquistava con l’appartenere a un mondo che aveva qualcosa da dire, che rappresentava qualcosa oltre a se stesso. Eppure di quel mondo si nutriva la forma stessa della musica: difficile pensare al ruolo, alla voce che il violino “porta” nel concerto di Brahms senza Joachim, o al violoncello di Sostakovic senza il rimpianto Rostropovich.

Eppure il concerto solistico continua la sua strada, con dei momenti di altissima ispirazione. The Dharma at Big Sur è uno di essi. Scritto per l’eccezionale violino elettrico a cinque corde di Tracy Silberman, dimostra quanta strada continui a fare John Adams senza lasciarsi acciuffare dall’etichettatrice della critica, cercando, sperimentando e più di una volta trovando. Due movimenti per un totale di 27 minuti circa, organico ricco, forma complessa e colma di ricercatezze, tante citazioni e omaggi ma scarsissima propensione alla parodia. Un pezzo veramente bellissimo, che non ci si stanca di riascoltare, che non rifugge il pathos ma senza neoromanticismi. In Italia lo suona (e bene, dice chi lo ha ascoltato) Francesco D’Orazio.

Ora lo si può ascoltare in un prezioso doppio cd, accostato a un’altra e diversissima composizione recente di Adams, My Father knew Charles Ives. Un pezzo più riflessivo (si tenga conto del fatto che The Dharma at Big Sur era stato scritto per l’inaugurazione della Walt Disney Hall) ma sempre caratterizzato dalla stessa controllata estroversione; una voglia di comunicare senza svendere la propria personalità creativa. Ma al tempo stesso un altissimo controllo delle dinamiche, della strumentazione, dello stile. Più ricco del precedente di omaggi alla tradizione musicale americana (a Copland più di tutti), fitto di riferimenti autobiografici e familiari, con quella tendenza all’epicizzazione del privato che solo gli americani sanno avere (è per questo che amano tanto Mahler?). Tre movimenti per 26 minuti circa di musica; misterioso il motivo della ripartizione in due cd dei contenuti (naturalmente il costo è quello di un singolo). Una delle migliori cose che abbia ascoltato di recente.

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