Pietro Citati qualche giorno fa ha scritto che Gianfranco Contini non capì mai né Gadda né Proust. Succede che, nella piccola repubblica delle lettere italiane, ci sia ancora chi ha voglia di prendersi queste soddisfazioni postume; e oggi finalmente si può fare, perché davvero, oggi finalmente tutto si può fare.
La cornice di questa affermazione è quella di cui qui già si scrisse, e cioè la ripubblicazione delle opere di Carlo Emilio Gadda nella Biblioteca Adelphi, dopo anni di onorato servizio da Einaudi e, soprattutto, da Garzanti. La settimana scorsa è infine uscito il primo volume, i meravigliosi Accoppiamenti giudiziosi, in un’edizione lussuosa e curata, di quelle a cui da anni ci ha abituato Adelphi. Non che all’edizione Garzanti mancasse nulla: il lusso tuttavia ha il suo fascino, e d’altro canto la vecchia edizione, spartana e fragile, costava solo due euro meno dell’attuale. Per dire invece quanto la nuova edizione del testo, curata da Paola Italia e Giorgio Pinotti, sia importante e innovativa, sarà necessario ascoltare il parere degli agguerriti filologi gaddiani.
Nel frattempo sul Corriere della Sera è uscito un articolo di Pietro Citati, il quale dopo avere scritto su Gadda «decine di saggi, saggetti, articoli, risvolti, annunci» e avere curato «sette o otto libri» (beata abbondanza che si permette l’approssimazione!), si dichiara oggi incapace di aggiungere una sola riga su uno scrittore «conosciutissimo e amatissimo». Ma non potendo, nonostante il dolorosissimo blocco, astenersi da scrivere qualcosa sul volume pubblicato da Adelphi (che in fondo è anche un suo editore), ci regala un’inedita perla di perfidia editoriale. Inedita secondo lui, almeno.
Citati racconta di quando, nel 1963, a Gianfranco Contini fu chiesto di scrivere l’introduzione all’edizione Einaudi della Cognizione del dolore, il grande capolavoro di Gadda. Contini, legato a Gadda da una profonda amicizia che risaliva agli anni Trenta, scrive un brillante e denso saggio alla sua maniera, che comincia confrontando due gesti di parricidio simbolico: quello di Mademoiselle Vinteuil nella Ricerca del tempo perduto di Proust e quello di Gonzalo Pirobutirro, il protagonista della Cognizione nel cui personaggio si riconoscono molti tratti dello stesso Gadda. In Proust la figlia del musicista Vinteuil fa l’amore con un’amica di fronte a un ritratto del padre, e lascia che l’amica ci sputi sopra; il Narratore assiste alla scena dalla finestra, e questa pagina avrà un’importanza enorme in tutto il dispiegarsi del suo grandioso romanzo, e in particolare nella scoperta dell’omosessualità. In Gadda, Gonzalo stacca dalla parete il ritratto fotografico del padre, lo sbatte per terra e lo calpesta ripetutamente e con rabbia. Contini parte da questa analogia per illuminare la complessa trama psicologica della Cognizione, e nel farlo commette, da filologo, l’imperdonabile errore (almeno agli occhi di uno scrittore) di portare alla luce alcune chiavi nascoste del romanzo.
Gadda se ne dispera, e comincia una lunga trattativa condotta anche attraverso la mediazione di un altro critico e filologo, Gian Carlo Roscioni, curatore dell’edizione Einaudi del romanzo. Alla fine Contini accetta di mescolare un po’ le carte e oscurare i riferimenti; anzi, per dirla con le sue parole e nel suo inimitabile stile (il ‘continese’, come una volta lo definivano): «Deferii ai paranoici desiderî, ricorsi a perifrasi non meno grame, placai quella terebrante angoscia, cosa che sola importava. Gadda me ne ringraziò lungamente (9 aprile 1963, ore 14), tornando a parlare di “ragioni familiari” e di “prudenza municipale”».
Citati racconta questa storia da par suo, credendola conosciuta solo «dal mio amico Giancarlo Roscioni, e da pochissimi altri». Riferisce quindi in questo modo l’incidente: «Quando lesse le pagine di Contini, Gadda diventò furibondo di dolore, disperazione, vergogna, angoscia. In realtà, Contini non aveva compreso né La cognizione del dolore né la Recherche: il gesto di Gonzalo non aveva nessuna componente erotica o lesbica o profanatoria; e non racchiudeva nemmeno il segno del peccato originale e la colpa dello sguardo. Gadda protestò violentemente con l’ editore e con Contini, il quale ridusse il suo paragone a un accenno quasi incomprensibile, o comprensibile a venti conoscitori di Proust. Ma la ferita, in lui, rimase immedicabile. Immaginava che, dopo le pagine di Contini, tutti, persino i fattorini del tram e le portiere, vedessero in lui un mostro: un lesbico, che aveva sputato sul ritratto del padre e ucciso la madre, come appunto racconta la Cognizione».
In realtà l’episodio è noto a qualcuno in più dei pochissimi che crede Citati, perché lo stesso Gianfranco Contini ne scrisse, e proprio sul «Corriere della Sera», il 3 gennaio 1988, e lo face ben più diffusamente di Citati, riportando frammenti della corrispondenza con Gadda e concludendo il suo resoconto con un lapidario e significativo: «Tale il pedaggio pagato da uno scrittore attanagliato dalla doppia branca della sincerità e della paura». L’articolo è stato poi incluso, insieme all’Introduzione alla Cognizione del dolore e ad altri saggi gaddiani, nel volume significativamente intitolato Quarant’anni di amicizia. Scritti su Carlo Emilio Gadda (1934−1988), pubblicato nella PBE di Einaudi nel 1989. Dunque non si tratta di vicende mantenute in quel ‘pettegolo riserbo’ di cui Citati sembra volerle ammantare. D’altronde lo stesso Citati aveva già raccontato l’episodio (con le stesse parole: un caso di copia-incolla!) nel 2010 in una sua recensione, questa volta sulla «Repubblica», dell’edizione Garzanti dell’epistolario Gadda-Contini. Già, perché forse è bene ricordarlo, Gadda e Contini furono grandissimi amici, e non smisero mai di esserlo, fino alla morte di Gadda nel 1973.
Certo, dall’articolo di Citati si potrebbe essere portati a pensare il contrario, come si potrebbe essere portati a pensare che Citati non apprezzi Contini. La realtà è per fortuna ben diversa: come lo stesso Citati racconterà in un’intervista televisiva, Gianfranco Contini fu infatti il maestro più amato in gioventù, incontrato in Svizzera dopo averlo a lungo ‘immaginato’ negli anni torinesi e alla Normale di Pisa. Nell’articolo dell’anno scorso su Repubblica, Citati dice cose interessanti, perfide e talvolta vistosamente inique sullo stile e sulla vita di Contini, come sempre per metà travestendole da opinioni altrui (in questo caso di Gadda).
Forse, allora, tutto tornerebbe più chiaro se ai due parricidi simbolici dell’incriminata prefazione, con tutto quello che comportano in termini di conflittualità e pulsioni represse, se ne aggiungesse un terzo: quello del filologo e critico Pietro Citati nei confronti del filologo e critico Gianfranco Contini.
Sabato scorso Tuttolibri, l’inserto librario della Stampa, apriva con una replica di Ferdinando Camon alle critiche piovute sul giornale torinese dopo l’infelice intervista a Buscaroli del 6 febbraio. Fra i siti più battaglieri, segnalo Nazione Indiana, su cui il dibattito è diventato acceso e interessante. La replica di Camon consiste di poche righe che possono essere lette anche sul suo sito.
Non scriverò di nuovo al giornale, per evitare di ricevere risposte come quella, non firmata e un po’ sommaria, inviata dalla redazione di Tuttolibri (inserita fra i commenti del precedente post); e per non alimentare una polemica tutto sommato abbastanza marginale. Mi limito tuttavia a qualche appunto.
Ciò che la replica di Camon e quella privata ricevuta dalla redazione hanno in comune è il fatto di citare Primo Levi, così come si faceva nell’intervista; non conosco i rapporti di Quaranta con Levi, lessi molti anni fa il libro/intervista di Camon allo scrittore. Mi dispiace che un autore complesso e profondissimo come lui venga ormai utilizzato come ‘patente’ antirazzista; lo si è fatto per anni con Pasolini e l’antifascismo: quando si voleva dire qualcosa veramente di destra, si aggiungeva una citazione di Pasolini e il messaggio diventava “dico una cosa di destra ma non sono di destra, e ho letto gli stessi libri della sinistra’.
La cosa triste è che il pezzo di Camon si impernia su un ragionamento palesemente viziato. L’intervista di Bruno Quaranta a Buscaroli viene da lui paragonata all’operazione che Armando Cossutta fece sul Mein Kampf di Hitler. “Era un libro tabù: nessuno lo stampava, nessuno poteva leggerlo” scrive Camon. E già qui ci sarebbe da obiettare. Mein Kampf era un libro tabù, ma regolarmente ristampato e venduto in migliaia di copie attraverso una fittissima rete di distribuzione; non c’era bancarella italiana su cui – dieci, venti o trent’anni fa – frugando tra i libri usati, non saltasse fuori un’edizione di quel pattume senza indicazione di tipografia o editore. Era venduto sottobanco anche da molte librerie, bastava conoscere. Ma era un circuito semiclandestino, senza alcuna garanzia editoriale; l’operazione di Cossutta fu dunque prima di tutto filologica e critica. » Read the rest of this entry «
È da poco arrivato in libreria l’ultimo saggio di Marc Fumaroli, Chateaubriand. Poesia e terrore. Poderoso (circa 800 pagine), scritto con l’intelligenza, la chiarezza e l’estrema erudizione che sono consuete a questo coltissimo studioso; la veste tipografica è poi quella, ineccepibile e attraente, della collana ‘Il ramo d’oro’ della Adelphi. L’ho preso, l’ho sfogliato, ne ho letto un paio di pagine e poi l’ho riposto sullo scaffale del libraio. So che non riuscirei mai non dico a finirlo, ma neppure a superare il centinaio di pagine; nei libri di Fumaroli si entra come un grande museo, in ogni pagina c’è qualcosa da imparare, ma si fatica molto a capire dove ci stanno portando, e ogni tanto si sente il bisogno di cercare una finestra per capire dove ci si trova. Non è solo che non condivido per nulla le tesi di fondo di pressoché ogni suo libro, ben esposte in questo post di Luigi Castaldi; la verità è che difficilmente arrivo a cogliere l’ideologia antimoderna, perché è lo stile a tradirla prima di ogni ragionamento, e non riesco a entrare in sintonia con una scrittura che sembra fatta unicamente per sé stessa.
Scrivo questo non solo per il libro, ma perché alcuni giorni dopo avere visto il libro, mi sono imbattuto in una recensione pubblicata da Libération alla nuova fatica letteraria dell’instancabile Fumaroli, uscita nel frattempo in Francia. Firmato da Philippe Lançon e intitolato spiritosamente Il mangiatore d’ozio (con un gioco di parole sul ‘mangiatore d’oppio’ di de Quincey), si tratta di un pezzo feroce e talvolta eccessivamente sarcastico, scritto tuttavia con quel coraggio e quella spregiudicata serietà che sempre si vorrebbe trovare in una recensione. Vi si dicono cose che non valgono solo per Fumaroli – che Lançon definisce “il più intelligente dei vecchi tromboni”, ma che si potrebbero facilmente trasferire a una buona parte della nostra ‘cultura erudita’. Ne traduco qui il passaggio più interessante:
Se finora abbiamo seguito volentieri Fumaroli nella sua fumisteria erudita è prima di tutto perché lui è il più intelligente dei vecchi tromboni. O, per dirla secondo le convenienze, degli ‘antimoderni’. Questa categoria piena di distinzione, divisa tra il dandysmo e la malinconia aggressiva, è stata analizzata da Antoine Compagnon (Gallimard). È una categoria vivificante, poiché striglia per bene l’idiozia moderna; educativa, poiché precisa la presenza dei morti; ma sovente sterile, perché il suo sguardo è falsato da troppa cattiva fede ed ebbrezza nostalgica. In breve, l’‘antimoderno’ passa il suo tempo a denunciare ciò che lo circonda mentre contempla degli antichi affreschi in un’antica caverna. Quando un martello pneumatico fa un buco, è come nella celebre scena del film Roma, di Fellini: buona o cattiva che sia, l’aria entra nella caverna e cancella tutto – e i commenti prima di tutto.
Oltre al riferimento a una scena indimenticabile del cinema di Fellini, l’articolo ha portato con sé il ricordo indelebile di un altro articolo sulla questione ‘moderni e antimoderni’, ben più importante. Era il 1989, e Giulio Bollati aveva appena preso le redini della casa editrice Boringhieri (ribattezzata Bollati Boringhieri); nel giro di pochi anni avrebbe costruito un progetto editoriale di grande forza, tanto da lasciare una traccia duratura anche dopo la sua scomparsa. Ma naturalmente il 1989 è stato anche l’anno della cosiddetta ‘caduta del muro di Berlino’, e dell’inizio di un attacco frontale alla cultura progressista di cui i miserabili governanti attuali non sono che gli ultimi epigoni: in questo simili ai soldati che passano sul campo di battaglia per finire i feriti e, se possibile, derubarli. Era l’inizio di un’equazione, condotta in esibita cattiva fede, tra progressismo e stalinismo, fra Lumi e Terrore. Pietro Citati, in un articolo su Repubblica dedicato alla Normale di Pisa, si fece portavoce di questa prima ondata di vendette contro la cultura ‘egemone’ della sinistra; Giulio Bollati gli rispose, sempre sulla Repubblica, con questa ‘lettera aperta’ veramente memorabile.
Citati è un altro scrittore di cui forse non finirò mai un libro, pur avendone amato e studiato tanti scritti, pur ammirandone profondamente il controllo stilistico, pur riconoscendogli la statura del maestro. Ma la lettura di questo pezzo di Bollati (non l’ho trovato in internet, e dunque lo trascrivo qui), a oltre vent’anni di distanza dall’uscita, fa capire molte cose sulla cultura italiana di ieri e di oggi, oltre a essere una critica fortissima e intelligente ai tanti eruditi che si pongono sotto le protettive ma a loro volta indifese ali dei classici, rifiutando il rapporto vivo e dialettico con la modernità. E per tornare ai temi più consueti a Fierrabras, non è che nel campo musicale questi personaggi siano una rarità; anzi, direi che la chiusura, l’elitarismo, il distacco dal presente esibito nel linguaggio oltre che nella scelta degli argomenti siano la norma e il modello perfino tra i critici e i musicologi più giovani.
Il ritratto di François René de Chateaubriand che medita sulle rovine di Roma è quello famosissimo dipinto nel 1808-09 da Anne-Louis Girodet; l’originale è in una collezione privata, ma un’ottima copia d’epoca (a lungo ritenuta originale) è conservata al Musée d’histoire de Saint-Malo.