20 Luglio 2011 § § permalink
Da alcune settimane, l’esclusivo parterre dei critici musicali italiani si è arricchito di un nuovo arrivo. Lo spazio è quello della pagina dedicata alla musica dall’inserto domenicale del “Sole 24ore”, che già ospita gli storici articoli di un colto e monumentale reazionario come Quirino Principe e le dotte lezioni-recensioni di Carla Moreni (sulle quali Fierrabras aveva già espresso qualche riserva alcuni anni fa). La firma fa pensare alle scorrerie dei pirati o, in alternativa, ai calendari da cucina e agli oroscopi: Barbanera, niente di meno.
Questa firma che si suppone corsara è comparsa la prima volta il 3 luglio scorso sotto una piuttosto sgangherata stroncatura di un doppio cd contenente gli Studi brillanti op. 740 di Czerny e gli Studi trascendentali di Liszt eseguiti da Fred Oldenburg: il commento era da antologia della “non critica” italiana: “Il confronto con Liszt è perdente in partenza sotto tutti i punti di vista e poi nessun allievo potrebbe aspirare di arrivare [sic!] a un livello esecutivo simile (per gli studi di Czerny). Come dare un automobile a pedali a un pilota di formula uno”. Come se si trattasse di una gara fra Czerny e Liszt; non una parola su chi suona e come lo fa.
La domenica successiva però Barbanera torna all’arrembaggio, e anche questa volta lo fa scegliendo un tema non esattamente di ‘avanguardia’. L’articolo è un pavido rimbrotto al fantasma di Herbert von Karajan, in occasione del riversamento in cd dei Concerti Brandeburghesi da lui incisi con i Berliner 47 anni fa (!); se il soggetto è già quasi archeologia, l’argomentazione dell’articolo non potrebbe essere più muffosa, e raggiunge il suo apice di apnea intellettuale quando, in riferimento alla grande corrente di riscoperta della ‘musica antica’, scrive: “Doveroso precisare che, a nostro parere, dopo anni di ricerca e affinamento, si è arrivati a un ottimo compromesso che consente di apprezzare della musica piacevole e ben scritta, come in fondo è la musica barocca.” Musica piacevole e ben scritta: ma dove, mi chiedo, nell’intero mondo della stampa quotidiana, si potrebbero leggere parole come queste, se non in un giornale locale della provincia più profonda, che magari affida una rubrica di musica al parroco che un po’ di musica l’ha masticata in seminario, o al professore di pianoforte del locale conservatorio?
Terza puntata, il 17 luglio, e terzo brivido: una specie di stroncatura di un’incisione di tre concerti per pianoforte di Mozart eseguiti al fortepiano da Ronald Brautigam, con la Kölner Akademie. Qui le argomentazioni non sono più solo muffose, sono decrepite e squinternate. » Read the rest of this entry «
10 Maggio 2009 § § permalink
Il 24 aprile scorso sono stati pubblicati i nomi dei vincitori del Premio Abbiati; la cerimonia di consegna, come un po’ pomposamente si chiamano queste occasioni, si terrà il 29 maggio prossimo al Teatro Sociale di Bergamo. In un precedente post, in margine ad alcune osservazioni sul Pulitzer Price, avevo manifestato una certa insofferenza nei confronti dei premi musicali italiani e dei loro meccanismi di assegnazione. L’Abbiati è il più prestigioso e ambìto di questi, forse l’unico che sappia ancora dire qualcosa al mondo musicale, e quindi vale la pena di osservarlo con attenzione.
Il premio e i suoi princìpi (o prìncipi?)
Intitolato al musicologo Franco Abbiati, per quasi quarant’anni critico del “Corriere della Sera”, il “Premio della critica musicale” viene assegnato dall’Associazione Nazionale Critici Musicali fin dal 1980 (per la precisione, l’associazione è nata nel 1986 proprio intorno alle riunioni che da diversi anni si tenevano a Bergamo per l’assegnazione del premio). Per capire che cosa rappresenti nello spazio culturale italiano (e nei desideri di chi ogni anno se ne assume le fatiche), vale la pena di citare un brano tratto dal sito dell’Associazione:
Attraverso i vincitori del Premio Abbiati, l’Associazione nazionale critici musicali ha dato spazio alle realtà locali che rappresentano l’autentica ricchezza della vita musicale italiana e che non hanno la visibilità dei grandi enti pur avendone, talvolta, l’importanza culturale. Allo stesso modo l’Associazione si è impegnata a ricordare il lavoro isolato e silenzioso di personaggi non riconosciuti dal “potere” né dai mass-media (operatori artistici, didatti, editori, “maestri” di vita non solo musicale), e a segnalare il rilievo intellettuale di fatti o manifestazioni che hanno indirizzato la vita musicale del nostro paese. Eloquente annuario più che pagella l’albo d’oro del Premio Abbiati è una sorta di promemoria artistico di oltre un quarto di secolo di musica in Italia, ma è stato anche un trampolino di lancio per giovani artisti e una dichiarazione di fiducia nei confronti di realtà poco considerate. Oltre a essere lo strumento privilegiato dell’Associazione per prese di posizione ‘politiche’, talvolta fortemente critiche, nei confronti di cruciali questioni istituzionali e legislative.
La frase sull’albo d’oro riflette l’antico ossimoro dei premi: un premio dovrebbe fare onore a qualcuno, ma onorando chi è davvero meritevole, in fondo onora soprattutto se stesso e chi lo conferisce. In questo senso, ogni premio è uno scambio: l’autorevolezza dell’artista premiato riconosce e manifesta l’autorevolezza dei premianti. Lo sapeva molto bene l’amato Thomas Bernhard, che con i premi intrattenne sempre un rapporto di amore-odio – con netta prevalenza dell’odio – e che in più di un caso si scagliò con terrificante violenza contro questo meccanismo infernale. Nel caso di un premio conferito da un’associazione di critici musicali, poi, la faccenda si fa ancora più complicata; certo, sempre meno complicata di quando sono gli organizzatori musicali a premiare i critici (vedi per esempio il Premio D’Arcangelo, che per fortuna consiste in 50 bottiglie di vino). Discorso ancora a parte, i premi per la critica musicale, in cui i critici stessi se la cantano e se la suonano da soli. L’apoteosi dell’autoreferenzialità, insomma.
Un luccicante “albo d’oro”
Ma tornando all’Abbiati, il cosiddetto albo d’oro è effettivamente un ritratto molto vivace della vita musicale italiana, con una netta prevalenza dei valori spettacolari (come in fondo è prevedibile data la composizione della giuria). Vediamo un po’, per esempio, i direttori d’orchestra. Si parte con un buffo ex-aequo Abbado-Muti (una specie di Camp David?) nella prima edizione 1980–81 – negli anni i premianti ripareranno: Muti viene ripremiato nell’88–89, Abbado nel 2000-01. In ogni caso il quadro rispecchia correttamente il meglio della vita musicale italiana (e naturalmente non solo): si comincia con i giganti storici (Bernstein, Kleiber, Celibidache, Gavazzeni, Sawallish ecc.), poi piano piano la rosa si apre e con andate e ritorni (Temirkanov vince due volte) si vede scorrere tutto il meglio che il setaccio italiano ha trattenuto dalla scena mondiale. Quest’anno il vincitore è Roberto Abbado: molto meritato e puntuale, si potrebbe dire, dati i begli spettacoli che ha inanellato nel 2008, in Italia e all’estero.
Ma lo stesso discorso potrebbe essere fatto per quasi tutte le altre categorie. I registi, per esempio. Si parte con Strehler, e poi via via, compaiono gli autori, a volte accompagnati dagli scenografi, di tanti bellissimi spettacoli italiani; in più di un caso la scelta è abbastanza ardita, in altri più scontata: Ronconi-De Simone-Chéreau-Pizzi-Asari-Cobelli-Ronconi (e due)-Vick-Krämer-Ronconi/Palli (e tre)-Terleckij/Hugues-Wilson-Zeffirelli-De Ana-Vick (e due)-De Monticelli-Pountney/Bjorson-Krief-De Ana (e due)-Moschopoulos/Fotopoulos-Carsen-Martone-Medcalf-Barberio Corsetti-Michieletto. Quest’anno il premiato è Tcherniakov per il Giocatore della Scala. Anche per i cantanti, una scelta oculata che rispecchia una frequentazione continua della realtà musicale. I critici italiani girano per i teatri, ascoltano, guardano i grandi spettacoli – quelli di cui molta parte di mondo non troverà mai i biglietti – annotano, ricordano. Giudicano spesso con equilibrio, talvolta con pigrizia, ma poi premiano ciò che è importante, significativo, grande o meno grande che sia.
Quest’anno, lo spettacolo premiato (potevano esserci dubbi?) è il Fidelio di Abbado e Kraus a Reggio Emilia. Se Abbado torna all’opera, tutto il rutilante carrozzone degli amanti dello spettacolo da imperatori converge sul miracolato teatro; due recite? che importa, quanti vuoi che siano gli aventi diritto?! 2300 posti sono anche troppi. Costi? Sono coperti degli sponsor, non stiamo a ficcare troppo il naso, che poi non ci invitano più. Così è ovvio, non c’è gara. Certo, la difesa delle realtà locali che sono la ricchezza della vita musicale italiana, così com’era scritto nel fervorino dell’associazione, qui prende un significato tutto particolare; ma d’altro canto, parlare di teatro d’opera oggi richiede un “razionale e lucido pessimismo”, come dice la motivazione del premio al Fidelio. E in ogni caso si sa che le polemichette negli anni si perdono, ma l’albo d’oro rimane, lasciando al mondo un’immagine di eccellenza assoluta. E così, effettivamente, è. Ha ragione il sito, l’albo d’oro presenta un Italia dello spettacolo lirico viva e creativa. Forse con un’eccezione…
Ma siamo sicuri che la musica di oggi sia proprio questa?
Ed ecco che si ritorna a quanto si disse a proposito del Pulitzer. Certo, quel famoso (ma anche discusso, come tutto, dappertutto!) premio si limita alla creatività statunitense, e in questo senso il gioco potrebbe sembrare più semplice. Il premio Abbiati riflette invece la realtà spettacolare: cosa i critici hanno ascoltato e visto. Eppure, a un normale ascoltatore curioso della musica d’oggi che scorresse la lista dei premiati per la categoria “novità assoluta per l’Italia”, potrebbe anche prendere una stretta al cuore. Stockhausen-Donatoni-Nono-Boulez-Togni-Manzoni-Guarnieri-Kurtág-Boulez (e due)-Sciarrino-Gubaidulina-Clementi-Rihm-Berio-Holliger-Berio (e due)-Grisey-Henze-Kagel-Boulez (e tre)-Cappelli-Guarnieri (e due)-Vacchi/Carter-Romitelli-Kurtág (e due)-Lachenmann-Fedele. In 28 anni di storia musicale, l’unico americano premiato è stato Carter (però a metà con Vacchi). L’intera stagione del neoromanticismo, dei post-minimalisti dei non-avanguardisti è passata inosservata. Non un solo maverick, di qualunque colore, paese, visione o credenza (in questo senso, forse solo Gubaidulina).
Certo si potrà obiettare: il premio riguarda le prime esecuzioni assolute in Italia. Non è colpa dei critici se Andriessen o Reich o Adams (e questi non sono certo maverick) non vengono a rappresentare le loro cose per la prima volta da noi; piuttosto prendetevela con gli organizzatori musicali. Va bene. Certo che però quel Boulez premiato tre volte come compositore per Repons (1983−84), Le Visage nuptial (1988−89) e Sur incises (1999−2000), poi, naturalmente, una quarta come direttore (1986−87): non è che la cosa faccia proprio pensare a un grande sforzo di autonomia, vitalità culturale e curiosità intellettuale.
Quest’anno il premio è andato alla Phaedra di Henze del Maggio Musicale Fiorentino; in questo caso il premio non permette alcuna polemica, perché lo spettacolo era davvero molto bello: Henze è un maestro la cui forza emotiva e creativa sono una straordinaria benedizione per l’intero mondo dell’arte; Henze, che ha vinto tre Abbiati di cui due “speciali”, è tuttavia anche il massimo allontanamento consentito dal mainstream della musica contemporanea in Italia; in ogni caso “consentito” adesso, perché quarant’anni fa lo si copriva di fischi. Altro caso, Kurtág ha vinto due volte, se non si conta il premio al Festival Kurtág di “Milano Musica”; Kurtág prenderà quest’anno anche il Leone d’Oro alla carriera a Venezia. È un grande compositore, e queste convergenze non dovrebbero stupire.
E allora?
E allora la tristezza non viene dalle singole e isolate assegnazioni, tutte più o meno sacrosante dal punto di vista del valore assoluto (difficile avere un quadro sufficientemente completo di ogni singolo anno per potersi esprimere sul valore relativo); la tristezza viene dall’abissale distanza che divide questa ‘complessiva’ visione da parte della critica, rispetto alla realtà della vita musicale odierna. E parlo della realtà della musica che si ascolta, si esegue e si “consuma”, in Italia come nel resto del mondo. Una distanza che nessun’altra categoria premiata dai “giurati” dell’Abbiati mi pare rispecchiare. Perché?
Nella foto un istante della Phaedra di H.W. Henze rappresentata al Maggio Musicale Fiorentino.
6 Agosto 2008 § § permalink
Mettiamo che uno voglia capire come è andato l’Otello diretto da Muti a Salisburgo. Mettiamo che apra il «Sole24ore». Carla Moreni: “Quanto è nuovo, audace, tragico e radicalmente diverso da tutte le interpretazioni mai sentite di Otello questo di Riccardo Muti a Salisburgo”; e giù, una sbrodolata sul cavaliere solitario (“straordinariamente solo, su una strada di teatro che nessun altro poi percorrerà”), propagatore incompreso del bello, attorniato da una manica di incapaci. E ancora: “Quando c’è Riccardo Muti sul podio, e sempre di più negli ultimi tempi, come in un gesto di deliberata solitudine o solipsismo, la clessidra del teatro parte solo dal podio”. Ma accanto al registro lirico, Moreni usa anche quello sarcastico, principalmente nei confronti del regista e della sua orrenda pedana di plexiglas: “lì ha luogo quasi sempre l’azione. Tutti fermi, impalati come manichini”. Boh, che strano, questa storia dei cantanti impalati mi ricorda qualcosa… Ma no, andiamo avanti. La compagnia di canto: mediocre, incapace di seguire la siderale visione del Maestro. Ancora un’offesa al Grande: lui, incompreso, solo, geniale e sconfitto. Gli impongono una compagnia mediocre. A parte Alvarez, dice Moreni, “gli altri sono corretti”, ma la loro correttezza “non è di Verdi”, come a dire, ‘non è di Muti’. Ma che strano, anche questa cosa delle regie e dei cast mediocri mi ricorda qualcosa… Ma no, dev’essere stata una serata meravigliosa. Che peccato non essere lì. Grazie di avercelo raccontato con tanta passione, Moreni.
Mettiamo poi che il nostro amico apra la Repubblica. “Muti illumina la violenza di Otello” urla il titolo. Dino Villatico: “a prevalere è lo scatenarsi di una violenza esasperata, sul limite della rottura degli equilibri sonori e del rumore. Ma proprio per questo il capolavoro verdiano sembra acquistare una luce nuova: lo scavo nell’ inferno delle passioni, come sempre sospese nell’ irreale di un mondo come lo si vede e non come è, proietta un’ombra cupa, amarissima sulla visione che l’ ultimo Verdi ha della vita. Verdi, sotto la bacchetta di Muti, è il compositore della disperazione senza speranza”. La disperazione senza speranza! Ah, come dev’essere stato profondo, questo spettacolo! Come il mare, profondo ed infinito! Però Villatico sullo spettacolo è più prudente “Sulla scena si vede uno spettacolo bellissimo, ma non di uguale forza interpretativa”. Un colpo al cerchio e uno alla botte. È bello ma non tanto bello quanto quello che fa Muti, e la sua ottima compagnia di canto (“dolcissima, incantevole” Desdemona, “un personaggio complesso” Otello, “sottile, diabolico e per nulla trucido” Jago). Insomma, una grande serata, anche sul fronte vocale. È Moreni che, come al solito, è un po’ ipercritica.
Ma il nostro amico si vuole documentare, e compra anche il Corriere. Va beh, Paolo Isotta. Uffah! Però dicono che sia colto, che diamine, leggiamo! “Il meglio diretto che abbia mai ascoltato (Riccardo Muti)”. Addirittura! e con tanto di parentesi, casomai qualcuno avesse dei dubbi. Isotta non riesce a comprendere le contestazioni al tutto sommato pregevole e onesto regista, e cerca conforto in “una straordinaria pagina del Gibbon su Costanzo II”. Con il risultato che non riusciamo a spiegarcele neanche noi, le contestazioni. Ma la musica? “Quest’ Otello concertato da Muti è di un suono sontuoso, rutilante eppur trasparente, che fa vibrare tutta la sala dai vertici dell’ottavino alle note gravissime del cimbasso”. Diavolo di un Isotta. Il cimbasso. C’è sempre qualcosa da imparare. Un euro speso bene. E la compagnia? Ottima, e dove non lo è lo diventerà. Che vuol dire lo diventerà? “Antonenko: diciamo che se non è oggi un Otello perfetto lo sarà domani”. Ma certo, chi lo ha scelto ha peccato per preveggenza. È la passione: si sa, non tollera attese.
Ora il nostro amico è preparatissimo. Ha maturato la sua idea. Che spettacolo! Che direttore! La disperazione dell’ultimo Verdi! Senza speranza! Può affrontare qualsiasi discussione: è come se quel 1° agosto di Salisburgo, benedetto da Apollo e da Dioniso, ci fosse stato anche lui al Grosses Festspielhaus. Ma a Roma non se lo farà scappare, il grande spettacolo. Sarà lì, il 6 dicembre. Il giorno prima di Sant’Ambrogio. Muti è un grande, non è vendicativo.
Mettiamo ora che il nostro amico compri un biglietto di treno, e passi la frontiera. A Chiasso, per far piacere a Arbasino, o dal Frejus, o da dove vuole lui. Mettiamo che si trovi a chiacchierare con un appassionato d’opera inglese, o tedesco, o francese, o americano. Il discorso cade sull’Otello di Salisburgo. Questa la so, dirà il nostro omino: “Ah, la meraviglia, la solipsistica grandezza del direttore, la disperazione senza conforto dell’ultimo Verdi! Peccato il cattivo regista, che ha ingessato i cantanti; peccato la compagnia, con luci e ombre, forse non all’altezza del grande direttore! ma si sa, i grandi direttori, come eroi romantici, devono lottare contro le avversità del destino. E il destino aveva scelto per loro quei cantanti”.
Mettiamo ora che invece di incontrare l’ammirazione dei suoi interlocutori li veda sganasciarsi dalle risate. Mettiamo che aprano le loro valigie, e gli mettano davanti agli occhi tutti i giornali del mondo, o meglio quei pochi fra i giornali o siti internet del mondo che non ignorano quel club per miliardari sprassolati che si chiama Festival di Salisburgo! Il nostro amico forse mastica un po’ di lingue e, piano piano, cercherà di decifrare gli articoli che gli squadernano di fronte.
Orrore! Come in un incubo, come nello specchio deformante di un luna-park! tutte le sue certezze in fumo! ma come è stato possibile? Neanche uno che capisca la disperazione dell’ultimo Verdi! Il grandioso solipsimo del nostro direttore, il Grande Diseredato! NZZ: “Riccardo Muti è responsabile di molti problemi: semplicemente, suona così forte da non lasciare spazio a nessuno”. Ignoranti! Bloomberg: “La compagnia restava imbambolata, il più vicino possibile alla ribalta, con gli occhi fissi a Muti… Il Verdi di Muti è esplosivo, teso e carico di energia grezza. Ma è anche fracassone, brutale e sgradevolmente autocratico”. Dannati americani, cosa possono capire della clessidra del teatro! Non se lo meritano, a Chicago! La Berliner Zeitung: “Niente da dire: Riccardo Muti viene da una lunga tradizione verdiana. Ma è proprio questo il problema: non viene soltanto, lì rimane e non fa che riprodurla”. Come? E il “nuovo, audace” Otello di Moreni? Berlinesi provinciali, cosa ne sanno loro di innovazione! Per fortuna il Figaro non ci tradisce con parole simili ai nostri beneamati, ma per il resto è un disastro. Il Tagesspiegel? “Quello che [Riccardo Muti] fa di una delle partiture più intelligenti e avanzate rasenta lo scandalo. Si tratta del solito trucco: finché suoni fortissimo, nessuno si accorge di nulla”. Screanzati! E il cimbasso, dove lo mettiamo? Ma non è finita. Basta fare una ricerca su internet: uno sfacelo. Nessuno trova le parole alate, i trasporti lirici dei nostri critici. Se non si fosse trattato di un’unica recita, si potrebbe dire che la critica italiana non ha visto lo stesso spettacolo degli altri.
Come mai? Come è potuto succedere, si chiederà il nostro omino sbeffeggiato? Può essere che la nostra gloriosa e coltissima critica sia macchiata di sordido provincialismo? Oppure sono questi tedeschi, questi austriaci, questi inglesi e americani che non capiscono il vero genio musicale, perso su una strada di teatro che nessun altro poi percorrerà?
Mistero fitto. E neppure una riga del Gibbon a darci una mano.
APPENDICE DEL 9 AGOSTO 2008: aggiungo la Frankfurter Allgemeine Zeitung (FAZ), e la sua severissima stroncatura, intitolata “Un carrozzone di esibizionismo musicale”: “Il maestro, fedele alla sua fama di spregiatore del teatro di regia, si è anche premurato che il regista se ne stesse obbediente in riga” (ma porca miseria, bisogna andare a Francoforte per leggere questa semplice verità? Forse Moreni non la sa?); e ancora: “Riccardo Muti ha condotto i navigati Wiener Philharmoniker come un carrozzone di lusso attraverso questa opera profonda ed ambigua. Tanto sportivo, veloce, liscio, e furbesco, da farci pensare che ad ogni battuta ci dicesse «qui mi trovo a mio agio». Tutto risuonava di un sound monotono ma risplendente, che aveva una sola qualità: il volume forte. Un carrozzone di esibizionismo musicale sotto il cui ingombro i cantanti, tra i quali il ben preparato, anche se del tutto privo di colore, Otello di Aleksandr Antonenko, non potevano che soffrire”. Ma a noi italiani, cosa ci manca per poter leggere degli articoli così?