Mi sono spesso domandato che cosa significhi questa valanga di attività economiche, di pubblicazioni, di riflessioni, questo parlottio incessante sul cibo. Mangiare. Annusare, masticare, gustare, deglutire, digerire, espellere sembrano essere diventate le attività culturalmente più pregnanti della nostra civiltà.
Qualche giorno fa, sulla Repubblica, l’insegnante e scrittore Marco Lodoli ha pubblicato un interessante articolo sulla fine della cultura umanistica nel quale si interroga, apparentemente senza amarezza – ma fra le righe c’era, eccome – sul perché agli studenti della scuola superiore in cui insegna, le parole delle materie cosiddette umanistiche – la storia, la letteratura e la filosofia prima di tutto – suonino totalmente estranee e inutili. Non sanno che farsene di una cultura fatta di morti, dice. Per affrontare la complessità del presente hanno bisogno di qualcos’ altro. Hanno bisogno di energia.
Ecco, forse la fissazione culturale col cibo dipende da questo: non siamo più in grado di portare le profonde riflessioni che la cultura umanistica ci ha consegnato a un’elaborazione tanto avanzata da permetterci di farle influire sul nostro enigmatico e complesso presente. Quella del cibo è una cultura che si assimila attraverso la mente ma soprattutto attraverso i tessuti, gli organi della digestione, i fluidi corporei, i processi chimici. È la cultura che produce energia senza chiedere gradi di elaborazione eccessivi, è una cultura apparentemente democratica (ma è un’apparenza esilissima, e richiede un particolare grado di ottundimento per non dimostrarsi tale), è una cultura energetica su cui la mente può lavorare a piacere, e che dunque permette una continuata e sontuosa occupazione intellettuale: critici culinari, sommelier, cuochi rock-star, assaggiatori crapuloni, dotti, medici e sapienti ormai spuntano come funghi.
E così che la cucina, e la sua cultura, si connettono ad altri elementi della vita associata di oggi, principalmente la palestra, la spa, una certa visione del viaggio, per fornire all’uomo gli strumenti per affrontare le complessità del presente. Il corpo dev’essere ben nutrito, abbronzato, depilato, reso scattante e compatto, la mente dev’essere rilassata dai lunghi massaggi, dalle docce emozionali, dalle acque profumate, da prolungati e frequenti soggiorni nell’immobilità totale di una spiaggia, nel nuoto ritmato sottoriva. Perché del presente non c’è niente da capire. Troppo difficile. Serve solo la forza per affrontarlo, in una direzione a cui si possono imprimere scarti e scelte, ma in qualche modo predeterminati. Posso cambiare ristorante, lavoro, compagno, amici, palestra, destinazione del viaggio, e pensare di stringere così il timone della mia vita. Ma non posso cambiare mentalità. La mia mente è diventata come il corpo: è un muscolo che posso potenziare per renderlo più veloce, più adatto alla competizione sociale, ma non fargli eseguire movimenti per cui l’uso non l’ha forgiato, o per cui ha perso la capacità evolutiva.
Con questo non voglio certo dire che la cucina non sia un’attività ad alto tasso di contenuto culturale: nelle mani di una persona sensibile e consapevole cucinare vuol dire riflettere, ricordare, sognare, ripercorrere strade lontane o sperimentarne di nuove: è una forma di comunicazione affettiva straordinaria e spesso introversa; la famiglia italiana, con i suoi pranzi festivi emozionalmente e relazionalmente impegnativi in questo senso è sempre stata una palestra esemplare. Ma se mi guardo intorno non trovo abbondanza di approcci di questo tipo. Trovo piuttosto il logorante commento, magari al ritorno da un fine settimana di vacanza, su posti in cui “si mangia bene e si spende poco”, su abbuffate, assaggi e spedizioni etiliche dall’opulenza un po’ triste.
Forse è proprio questo a produrre questa assordante, soffocante sensazione di una corsa sempre più veloce, profumata, saporita, snella, armonica, verso un unico grande traguardo. Quale sia il senso di questa corsa e il suo traguardo è molto difficile da capire. Ogni tanto si sente qualche risposta filtrare minacciosa dagli scaffali della cultura umanistica. Allora è il momento di accendere l’iPod.