La commedia di Otello

18 Settembre 2015 § 0 commenti § permalink

othello

Al Metropolitan va in scena una nuova produzione di Otello con il tenore lettone Aleksandrs Antonenko nel ruolo del Moro di Venez… no, mi correggo, scusate, nel ruolo del gelosissimo generale veneziano e lasciamo stare il resto perché non si sa bene come metterla questa cosa qui, e come la dici la sbagli. Lo testimonia questa lenzuolata di articolo del New York Times e l’interminabile scia elettonica che si porta dietro.

Insomma, per la prima volta sulle scene della Metropolitan Opera, a Otello non verrà applicato il cerone “Otello brown”. La discussione nel mondo anglosassone va avanti da molto tempo e sulle scene di prosa ormai da anni il personaggio non viene più “blackened” – così come non si usa più l’ “Indian red” o il “Chinese yellow”.

Qualche giorno fa un dirigente teatrale mi raccontava della sua sorpresa quando scoprì che il tenore argentino José Cura, visitato in camerino pochi minuti prima del suo debutto nel micidiale ruolo di Otello (mai cantato per intero neppure alle prove), fosse soprattutto preoccupato dall’omogeneità del cerone nero, a suo avviso fondamentale per la credibilità del personaggio. E vengono in mente i tragicomici impasti multicolori sui volti sudati di mille tenori al momento degli applausi. Lo spavento di incontrare per i corridoi del retropalco i ballerini seminudi “anneriti” per le danze dell’Aida o di tante altre opere, o i fosforescenti ceroni gialli degli aiutanti del boia Pu Tin Pao che fumano una sigaretta appoggiati alla porta dell’ingresso artisti, in mezzo ai passanti di tutti i colori veri.

Vale la pena di rimpiangere? Forse no. Che i modi della rappresentazione riflettano le mode culturali e il dibattito politico è più che naturale, in fondo. È solo un pezzetto dello scontro fra chi vuole lo spettacolo come fonte di riflessione, e chi lo desidera simile a una bolla rassicurante nella quale riposarsi dal confronto con la contemporaneità – un po’ come i bambini vogliono le favole sempre uguali. Penso che una buona parte degli spettatori oscillino fra un estremo e l’altro, anche perché si può fare pessima riflessione sul presente e pessima ripetizione del passato.

È probabile però che sul cambio di gusto nel trucco e parruco teatrale, più che la correttezza politica poté la tecnologia: le rappresentazioni vanno in streaming nei cinema, sono riprese in dvd e in televisione, e la telecamera indaga da vicino le espressioni. Quegli occhi da orco che venivano disegnati sui volti dei cantanti, quei colori inverosimili da clown triste che ti facevano urlare di paura e poi scoppiare a ridere se incontrati d’improvviso al bar di fronte al teatro, erano nati per essere visti da lontano. Oggi il trucco dev’essere come gli occhiali multifocali, buoni per tutte le distanze di lettura (ma se non sei abituato cadi dalle scale e ti fai malissimo). E tutto deve essere verosimile (ma solo nel campo dell’immagine perché quell’uomo, truccato o meno, santo cielo, sta cantando invece di parlare!).

E poi tutto si veste di blabla politico, storico, culturale eccetera e uno non ci si raccappezza più. Basta leggere le centinaia di commenti al lungo articolo nel NYTimes. Ci sono perle di gallettismo elettronico come “E far cantare Otello a un nero, no?”. Come se piazzare un decente “Esultate!” fosse una questione di colore della pelle. Eppure, mi si dice, il razzismo nei teatri d’opera esiste eccome! Probabilmente è vero. In ogni caso non so se valga la pena di piangere la (momentanea?) scomparsa dei ceroni colorati. Si può invece spero impunemente notare come ogni scelta, oggi, persino in quella meravigliosa macchina o capsula del tempo che è il teatro d’opera, sia spaventosamente complicata. E come tutto ciò che diventa troppo difficile si avvicini pericolosamente al comico. Finché al mondo ci saranno persone complicate, ci sarà materia per la commedia. Provate a semplificare, e zac! subito scatta la tragedia.

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