Tre giornate per ricordare Sergio Sablich, una delle voci più appassionate ed autorevoli della cultura italiana degli ultimi decenni, musicologo, critico musicale e docente, che all’attività di studioso ha alternato quella di organizzatore musicale come direttore artistico dell’Orchestra Sinfonica Nazionale e dell’Orchestra della Toscana, sovrintendente dell’Opera di Roma e consulente artistico del Teatro alla Scala. Un progetto del Museo Nazionale del Cinema, del DAMS di Torino e dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai.
A cinque anni dalla prematura scomparsa di Sergio Sablich, musicologo e importante collezionista bergmaniano, avvenuta il 7 marzo 2005 all’età di 54 anni in seguito ad un ictus cerebrale, Torino rende omaggio a questo intellettuale colto, curioso e raffinato dal 3 al 5 marzo con un articolato omaggio che comprende un convegno del DAMS sul grande regista svedese Ingmar Bergman, un concerto dell’Orchestra Sinfonica della Rai e una proiezione al Cinema Massimo.
Comincia così il comunicato stampa che annuncia le tre giornate di studio (e un po’ anche di festa culturale) che Torino dedica a Sergio Sablich. Per il programma completo rimando al sito che la famiglia e gli amici gli hanno dedicato e che raccoglie una quantità straordinaria di cose interessanti da leggere.
E così sono passati quasi cinque anni da quando Sergio Sablich ci ha lasciati. E quanti ne sono passati da quando ha lasciato Torino? Circa dodici. Da quel 1998 in cui decise di lasciare la direzione artistica dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, e di affrontare l’azzardo della sovrintendenza dell’Opera di Roma.
Dodici anni. Volati? Direi di no. Passati piuttosto con il peso di un trattore sulla cultura italiana. Credo che in molti, e non solo a Torino, si ricorderanno delle sue stagioni Rai: senza abbandonarsi troppo alla retorica, si potrebbe dire che erano attraversate da uno slancio emotivo e intellettuale probabilmente irripetibile.
Quando decise di accettare Roma, gran parte degli amici torinesi storsero la bocca. Perché lasciare la solidità di una casa costruita con fatica, mattone su mattone, per ricominciare tutto in un posto franoso e fangoso, dove notoriamente gli amici sono della ventura e i nemici perfidi e insidiosi? I torinesi inoltre (lo so per appartenenza alla categoria), erano convinti che la loro città, la loro bella orchestra, le tante occasioni che quel lavoro offriva non potessero che corrispondere perfettamente alla sua indole, saziare ogni sua brama. Com’era arrischiata per loro quella partenza: foriera di infelicità.
E Roma andò male; poi anche la Scala non andò bene: Milano si mostrò infida quanto Roma. Ma in realtà era l’Italia della cultura a essere diventata sempre più infida: era un mondo in cui stava finendo un’epoca di certezze politiche, e che stava ridisegnando la propria geografia. Sablich era una vera eccezione culturale: non capivi mai bene con chi stesse, se giudicavi con una divisa addosso. Avrebbe dovuto essere la persona più adatta ad avvantaggiarsi di quel momento: probabilmente proprio per questo fu sentito come una minaccia.
Ma allora avevano ragione i torinesi? Per dirla con Peter Grimes, “Then the Borough’s right again?”: il Borgo ha di nuovo ragione? Ora che Torino ricorda Sablich, e sono passati cinque e poi dodici anni, mi piacerebbe che Torino riflettesse su cosa può ancora imparare dalla storia di Sablich. Certo, c’è il convegno dedicato a Bergman, il concerto dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, la proiezione cinematografica. Ma non basta.
Il fatto è che costruire qualcosa, e non solo nel mondo della cultura e delle arti, richiede, ma vorrei dire pretende, un solido amore per l’avventura intellettuale. Il cambiamento, anche arrischiato, la ricerca, il disagio per ciò che si è assestato su una routine, anche fosse una routine virtuosa. E qui non alludo a quella finta curiosità che fa mettere insieme un pezzetto di disordine nel sacro equilibrio: il programmino postmoderno, la ricercuzza pop, il trombonista jazz nel concerto mozartiano. Questi sono i cacciatori da Safari: un’organizzazione poderosa e costosissima li porta in mezzo a una finta jungla, loro sparano un colpo e tornano a casa col trofeo per il salotto.
Quella di cui parlo è la vera inquietudine intellettuale. Quella che costringe a esplorare se non terre nuove, profondità nuove. Quella che esaspera gli amici, i collaboratori, le persone care; che ti porta a fare un pezzo del viaggio in compagnia di gente poco raccomandabile, e magari a commettere degli errori; quella, però, senza la quale non ci può essere alcuna vera crescita umana e intellettuale. Rispettare questa irrequietezza, coltivarne i frutti, imparare da essa a non pensare che ciò che si ha sia abbastanza per tutti: è su questo, oltre che sulle tante belle pagine di vita e di spettacolo, che mi piacerebbe che Torino – tutte le Torino del mondo – riflettessero ricordando Sergio Sablich.
Forse, se si dovesse indicare l’evento che ha più profondamente modificato la storia della recezione del teatro d’opera negli ultimi trent’anni, non bisognerebbe guardare alle novità di cartellone, alle innovazioni registiche o a quelle manageriali. Bisognerebbe semplicemente alzare lo sguardo al boccascena, e fissare quelle due, a volte tre righe di testo luminoso che sovrastano i cantanti. Bisognerebbe osservare quel movimento ritmico che l’intero pubblico in sala fa con gli occhi (o con l’intera testa), ogni dieci, venti o trenta secondi, per l’intera durata dello spettacolo.
I sopratitoli quest’anno compiono il loro primo quarto di secolo. La loro introduzione in quella che sembrava una forma spettacolare immobile nel suo rituale codificato – in realtà mobilissima, come tutte le forme di spettacolo dal vivo – si deve a Lofti Mansouri, il manager-sovrintendente, iraniano di nascita e americano d’adozione, che nel gennaio del 1983, in occasione di una produzione della Elektra di Strauss della Canadian Opera Company a Toronto, chiese la proiezione del libretto su uno schermo orizzontale posto sulla cornice del palcoscenico (boccascena). Fu l’inizio di una piccola rivoluzione, dapprima tutta americana, in seguito, con insolita rapidità, accettata in tutto il mondo. Il nome che in un primo momento prese questa innovazione tecnica fu Surtitles, anche se, con spirito tutto anglosassone, il marchio fu immediatamente registrato dalla Canadian Opera Company, e dunque da allora in poi per il resto del mondo anglofono il termine da usare per evitare di pagare royalties fu Supertitles, manco fosse un gruppo di supereroi (in realtà, il termine originale canadese è rimasto quello più diffuso, anche se non viene mai messo per iscritto). Negli Stati Uniti fu la grande Beverly Sills, allora manager della New York City Opera, a introdurli per la prima volta, nel settembre del 1983, in occasione di una produzione di Cendrillon di Massenet al New York State Theater.
Il debutto italiano di quelle che per un po’ di tempo furono popolarmente definite, con un termine meno scioccante per il mondo della lirica, “didascalie”, avvenne il 1° giugno del 1986 in una produzione dei Meistersinger al Maggio Musicale Fiorentino; la loro importazione si deve presumibilmente a Zubin Mehta, di casa tanto a New York quanto a Firenze, ma trovarono da subito un sostenitore brillante, autorevole e influente in Sergio Sablich, che non solo firmò la prima traduzione (anche se in questo caso sarebbe più giusto definirla “sceneggiatura”), ma li sostenne sempre e ovunque contro l’antipatia della critica più conservatrice. Antipatia che durò per anni, e che fu tutt’altro che leggera.
Quello fiorentino era il debutto europeo dei sopratitoli, e dovettero passare ancora degli anni perché essi fossero accettati ovunque. In Italia una parte della critica li accettò con una certa indifferenza (“non hanno disturbato lo spettacolo”, scrisse Giorgio Pestelli, “non ha dato troppo fastidio” Bortolotto), altra parte fu severissima (“una scelta di un provincialismo turistico riprovevole” scrisse, comicamente, Duilio Curier).
Che io sappia, la prima proiezione di sopratitoli di un libretto in lingua italiana fu fatta a Torino in occasione del Mitridate di Mozart il 28 aprile del 1995; li volle Carlo Majer, allora direttore artistico del Teatro Regio, che non solo dall’anno precedente li aveva richiesti per tutte le opere in lingua straniera, ma che dopo una serie di esperimenti e messe a punto, li rese una presenza stabile per tutte le opere rappresentate, indipendentemente dalla lingua del libretto.
In Italia la prima realtà a farne il proprio business fu la Eikon, azienda con sede all’Impruneta (Firenze), fondata dall’imprenditore e fotografo pubblicitario Nedo Ferri; per più di dieci anni dominò incontrastata il mercato, e solo nel 1996 nacque Prescott Studio, di Mauro Conti, storico maestro del Teatro Comunale di Firenze ed ex collaboratore di Ferri. Oggi molti teatri si sono attrezzati autonomamente, ma le due aziende concorrenti continuano a fornire il loro servizio a molti teatri d’opera e di prosa.
Anche dal punto di vista tecnologico molte cose sono cambiate. Le prime proiezioni erano decisamente riassuntive, poiché si avvalevano di proiettori di diapositive di alta qualità ma fisicamente imponenti e farraginosi da utilizzare. La Eikon per prima si fece creare un programma per Apple Macintosh che metteva in sequenza diversi proiettori, in modo da rendere il lavoro del maestro collaboratore addetto alla proiezione più semplice. Poi sono arrivati anche i videoproiettori, sempre più potenti e competitivi, tali da rendere in parte obsoleta la vecchia diapositiva (ma molti preferiscono ancora il lavoro fotografico). Infine i tanti display luminosi.
Ma più che l’innovazione tecnologica, ciò che più colpisce è la trasformazione estetica e nella recezione che i sopratitoli hanno provocato. Se qualcuno facesse una statistica confrontando il numero di Ring o di produzioni di Janačék nei teatri europei prima e dopo l’introduzione dei sopratitoli, sono sicuro che scoprirebbe un fortissimo incremento. I sopratitoli hanno spalancato le porte dei teatri a titoli fino a non molto tempo fa programmabili solo come rarità per intenditori, e alimentato una ripresa di interesse da parte del pubblico di dimensioni straordinarie nei confronti dei titoli meno accessibili. Hanno dunque contribuito a rendere lo spettacolo lirico un’esperienza meno dedita alla ripetizione di sé stessa, e più vicina alla sensibilità culturale odierna.
Presumibilmente il loro viaggio non è finito. Alcuni teatri già proiettano i testi in più lingue (la Florida Grand Opera di Miami, per esempio, offre le traduzioni spagnola e inglese affiancate). Altri, dal Metropolitan alla Scala, hanno optato per dei sistemi apparentemente più discreti come i cosiddetti “videolibretti”; dico apparentemente perché in realtà richiedono lo stesso sforzo concettuale e, soprattutto, lo stesso mutamento di modalità recettiva (“Opera is not a reading experience!”, tuonava anni fa il direttore di «Opera News»). Altri ancora immagino che prima o poi decideranno di recedere da un elemento che, comunque lo si voglia intendere, rimane piuttosto invasivo; saranno aiutati in questo da nuove tecnologie, come la distribuzione di palmari all’ingresso a chi ne facesse richiesta, o da chissà cos’altro. L’assenza di sopratitoli diventerà così parte di una nuova filologia dell’ascolto.
È difficile da dire che cosa ne sarà in futuro, ma ciò che è innegabile è che da servizio accessorio i sopratitoli sono diventati parte integrante dello spettacolo e del modo di goderlo. Sono diventati una delle tante competenze artigianali necessarie allo spettacolo dal vivo.
Dunque: Buon compleanno, sopratitoli!